Nel brano che segue potrai leggere un breve ma interessante excursus sulla storia di San Marco in Lamis, filiazione del sovrastante convento di San Matteo. Molti concetti erano già stati espressi decenni prima dall'Autore, che denunzia con parole chiare, a volte accorate (lo scritto è stato pubblicato nel 1992) gli elementi di una crisi della Città, già espressi nel 1972 nella introduzione ad Unità e brigantaggio. |
Ex lamis surgit terra et splendet.
Filippo De Pisis
Nota introduttiva
Come le idee chiare e distinte per evidenza del filosofo francese, così le vie dell'antico borgo storico tendono alla chiarità, alle ragioni di una armonia geometrica. Rapide scendono esse al fondovalle in limpido ordine parallelo e sboccano sui due corsi principali, pure essi intenzionalmente paralleli: due assi intorno ai quali si svolgeva la pulsante vita di una volta; due documenti che ci richiamano ancora a ragioni di romana razionalità quali due linee est-ovest tracciate dagli àuguri nella delimitazione del templum celeste e qui pertiene astronomicamente ai templi di San Matteo e di Stignano.
Non a caso questa esemplare topografia di saggezza montana ottenne ammirazione e premio nell'esposizione a Torino in occasione del primo cinquantennio dell'unità italiana.
E a volere insistere, il nucleo originario del borgo è di palmare evidenza longobarda.
Sangue, dunque, anche dauno e nordico? Per carità, né vanagloria né biologia razzistica; non riduciamo la storia a una bassa questione di zoologia (come ebbe a dire B. Croce nel 1938 per tragici anni di furori antirazzistici). Si vuole rilevare soltanto: la costante di una volontà costruttiva di questa gente, pur contro angustie di luogo e avversità di tempi.
Né infine si può negare - come avvertono con subita sensibilità spiriti fini e vigili intelletti non del luogo, e potrei fare molti nomi illustri - il particolare colore o timbro di una sua peculiare originalità.
E rivolgiamo pure un rapido sguardo, ma con attento affetto, alle storielle vicende, ora dolenti ora avvincenti di questa materna terra.
Terra, sinonimo di paese o città, usava dire toscanamente l'uomo antico dei nostri campi; e giovani e fanciulli, durante la laboriosa ansia settimanale vissuta tra zolle e pietre, a quel tempo sospiravano il sabato: Domani si va alla terra. E la terra, prima di essere scorta nel profondo grembo degli alti colli intorno, si annunciava col suo festivo scampanellare.
Tipicamente medioevale era la necessità della scelta di un sito nascosto per la vita di un borgo. Nacque così questa terra negli anni più bui in un fondovalle col vizio originario di una duplice ombra: geografica e storica.
Visse all'ombra aduggiante del monastero, feudo benedettino e poi parte del cospicuo patrimonio degli abati commendatari. A partire dal Mille, ebbe inizio il suo plurisecolare servaggio: una vita squallidamente anonima.
Nella prima metà del Cinquecento uno scatto clamoroso contro gli abati commendatari ci fu: la rivolta per un riconoscimento ufficiale e legale di una identità civile e sociale del popolo sammarchese guidata da un certo, si direbbe, sindacalista anzitempo (NOTA 14). Gli homines:
non possano essere comandati da ... uffigiale né da qualsivoglia governatore né affittatori di detta abbazia in esercitio alcuno reale o personale senza competente e giusto salario.
Agli abitanti dell'università furono riconosciuti questi diritti e benefìci,
siccome anticamente è stato solito osservato et al presente si osserva': libertà di pascolare, spigolare, abbeverare, legnare nell'intero feudo; salari retribuiti; uso di propri 'forni e centimoli' (mulino di casa spinto con una stanga); un ceppo natalizio per ogni focolare domestico; riconoscimento da parte dei funzionari nei rapporti di "immunità, comunità e unione" con i paesi finitimi; la 'grazia di un giorno di franco' per un embrionale mercatino settimanale in 'beneficio et utile di detti poveri vassalli.
Tanto recita il documento lapideo tuttora esistente nel palazzo badiale. Ma va anche rilevato che nel Cinquecento la temperie storica era di molto mutata. Né va dimenticato che in questo secolo i poverelli di San Francesco si erano già insediati nei conventi delle due valli.
Miseranda la vita ed esiguo il numero degli infelici abitanti. Un primo nucleo si attestò nei pressi della cattedrale e di alcuni pozzi d'acqua sorgiva, ai quali si accedeva per un breve ponte di travi di legno sul torrente Jana, allora alimentato dall'affluenza di sorgenti a partire dal fondo del Celano. Ma accadeva così che per lo straripare delle acque fluenti e per il coinvolgente concorso dei rivoli alluvionali, precipiti al fondo (tanto da convertire tuttora gli impluvi della valle in un unico bacino), il centro abitato stagnasse in sordide lame e pigre a prosciugarsi.
E però la vitalità del borgo non demorde: a rinsanguarlo attende l'attiva presenza longobarda. 'Lu Vùccolo', un angusto fornice d'accesso al primogenito abitato, nel nome e nel fatto è tuttora una persistente testimonianza documentaria. Inoltre non sono poche le voci longobarde persistenti nella parlata arcaica dei nostri nonni. Una parola desueta, dice Vico, è una 'tomba delle Muse', cioè un reperto linguistico di storica validità.
E dura ancora fino al citato secolo XVI, la validità legale di matrimoni e testamenti celebrati con i riti e il codice longobardi. Nella stesura dei capitoli matrimoniali riguardanti la dote e gli assegni maritali, i protocolli notarili conservano formule che si richiamano a tenaci consuetudini del luogo.
Comunque sia, il numero degli abitanti del borgo in quel tempo non poteva oscillare di più o di meno che intorno al migliaio. Sorprendente invece l'incremento dalla fine del Seicento a tutto il Settecento. Il balzo demografico in avanti non è esagerato definirlo esplosivo. Il casale, col ritmo prorompente, si avviava perentoriamente a divenire città. Ne è conferma questo veloce ritmo cronologico di crescita: lo stato della popolazione nel 1722 (quando fu eretta la chiesa parrocchiale di S. Antonio Abate), era di 4.400 anime; nel 1782, data in cui la badia fu dichiarata di regio patronato, raggiungeva il numero di 8.000 anime; nel 1793, nel quale anno con regio diploma fu dichiarata città, si contavano 9.000 abitanti; nel 1808, "epoca murattiana" e dell'effettiva autonomia comunale, 10.200; e nel 1845 furono censiti 14.277 abitanti. Subì poi questa evoluzione nel numero degli abitanti: 15.350 nel 1861, 18.200 nel 1921, 22.050 nel 1951 e 15.817 nel 1981.
Questa enumerazione serve a denotare la duplice rapidità in ascesa e discesa di una traiettoria parabolica di per sé eloquente; e il fenomeno del decremento è tuttora in corso. L'emorragia migratoria lo attesta e conferma nella causa e negli effetti.
A parte i numerosi cittadini sparsi tra il Tavoliere e il Gargano: numerosi a Foggia, a San Severo, ad Apricena, a Sannicandro, e in altre parti della regione e dell'Italia, imponente l'esodo verso i quattro continenti. Da una stima non propriamente recente (1971) si contavano 4.000 emigrati nel Canada, 8.000 negli U.S.A.; 3.000 in Argentina e circa 12.000 in Australia; senza tener conto degli emigrati temporanei in Africa e in Europa, specialmente in Germania a partire dal 1950.
Ovvia è l'evidenza di questo paradosso apparente: basta riferirsi a rapinosi sconvolgimenti politici, economici, sociali e tecnologici di questo ultimo trentennio di storia.
L'operosità di questa gente e l'attenuata fame di lavoro soddisfatta in parte in Italia e fuori, hanno contribuito al generale elevamento del livello economico e sociale; tanto è vero che è un patetico ricordo l'andirivieni di mendichi scalzi tra San Marco e San Matteo per la carità di un pane.
Breve è il corso che vede questa terra quale soggetto di storia; poco più di due secoli nel decennio che va dall'affrancamento feudale al riconoscimento ufficiale di città. Tuttavia, sia pure in forma anonima, cioè senza figure carismatiche emergenti, questo popolo afferma la sua personalità di protagonista. Da un solo indice di raffronti si può rilevare almeno il suo peso demografico: alla fine del Settecento, Foggia contava ventimila abitanti, Bari diciottomila e San Marco in Lamis raggiungeva i diecimila circa, ivi compresi indigeni e ascrittizi (qualcosa come gli extracomunitari odierni in quanto al vagabondaggio), ma tutti servi della gleba.
Infine, col passaggio della badia all'amministrazione statale (regio patronato) e l'autonomia civica, spirava anche in questa valle il soffio dei nuovi tempi; e con esso lo spirito di tre garganici: regalistico e politico con Pietro Giannone, culturale con Celestino Galiani e strettamente giuridico e politico con N. M. Cimaglia. La nitida allegazione di quest'ultimo Per la Reintegrazione alla Real Corona del Patronato sulla Real Badia di S. Giovanni in Lamis, del 1767, deve avere avuto pure il suo peso.
Ha qualcosa di prodigioso la congenita vitalità costruttiva di questa gente, congiunta a una strenua volontà di lavoro. I rivolgimenti sociali ed economici ebbero inizio dalla campagna. Le terre boschive, estesamente a ridosso e dintorno all'abitato e al Santuario, subirono un radical mutamento. I boschi furono abbattuti e trasformati in proficui campi salivi: le gesine (da cesina di un bosco ceduo passato a coltura). Queste, sistematicamente quotizzate e favorite dall'alto, rappresentarono un primo nucleo di proprietà da parte dei contadini: i gesinaroli. Ed è mirabile rilevare la volontà di lavoro di questa gente per la diffusa esclusiva presenza di sammarchesi dalle falde di Castelpagano fin sulle alture estreme di Sannicandro, di Cagnano e oltre; e scendendo i più intraprendenti alla piana ('in Puglia'), ai 'cozzi' e gesinaroli della montagna si aggiunsero, più ricchi, i massari del Tavoliere.
Ed è pertanto notevole rilevare come molti di questi del clero secolare, sacerdoti e maestri, raggiunta anche loro una posizione economica più o meno ragionevole, mirassero a possedere una modesta casetta e annesso podere in una delle due valli, una residenza estiva per giorni di serena solarità. La ridente collina del Sambuchello - che domina la valle di Stignano fino ai ruderi di eremi lungo l'antica via sacra - era il sito privilegiato dai preti. Ora ridotta a una quasi desolata landa e campeggiata dai caprai. Mestamente restano dolci ricordi di amena pace e patetici rimpianti.
A conferma della vitalità operosa e industre degli abitanti, un capitolo a parte nella storia di questa città meriterebbe il ceto artigianale; e l'attenzione non deluderebbe l'interesse per i suoi plurimi aspetti di costruttiva laboriosità.
Per molti, non di artigiani si dovrebbe parlare ma di autentici artisti con la loro spiccata personalità. In merito, sugli orafi di San Marco in Lamis recente è uno studio apprezzabile e diligente, di un noto archeologo e speziale garganico.
Nel richiamarsi a usi, costumi, tradizioni e canti popolari molte le iniziative e le manifestazioni promosse dal circolo artigianale, il quale ha già una sua notevole storia per quantità di scritti e qualità di interesse culturale: un'avidità di voler sapere e di essere davvero commovente, spesso non riscontrata in altre associazioni locali.
Sono ora purtroppo mutati tempi, clima e temperie sociali e culturali: classe artigianale e circolo ugualmente in decadenza.
Per l'oro, il ferro, il legno e altri ninnoli, al caldo affetto della valida mano dell'uomo è subentrato il rigido e anonimo stampo della macchina: la tecnologia sforna le frigide e inanimate serie dei prodotti mentre la mano dell'uomo accarezzava l'opera singola e questa diveniva una creatura viva, sia come ornamento, sia come uso quotidiano di un qualsiasi oggetto.
A partire dall'Ottocento, in rapporto agli svolgimenti storici e sociali in Italia e fuori, emergono finalmente figure rappresentative e protagonisti di rilievo nel campo culturale, politico e sociale.
Provengono essi dalla media e grossa borghesia e dal clero per quanto attiene alla guida del Comune e al risveglio culturale della città; mentre quelli provenienti dal popolo, che vanno man mano acquistando una propria aurorale coscienza di identità e di relativa forza, si avviano a una plurisecolare violenza di protesta sociale che inizialmente non esclude i radicati affetti per il trono e per l'altare.
Si colgono i primi fermenti di malumori e rumori politici e sociali già all'indomani della caduta del regno napoleonico. Molti gli iscritti alla Carboneria: San Marco mena il vanto di avere avuto una delle più nutrite 'vendite' Carbonare, la 'Giove tonante', per la quale ebbe a compiacersi Guglielmo Pepe nel suo giro garganico, alla vigilia dei moti di Nola. Contemporaneamente però, il popolo minuto e la piccola borghesia non mancarono di esprimere il loro malcontento contro le usurpazioni delle terre compiute dalla grossa borghesia, favorita dagli ambienti amministrativi nelle quotizzazioni demaniali, già perpetrate fin dal tempo murattiano.
Alla vigilia e dopo il '48 europeo, nel biennio '47-'49, il clamore di moti insurrezionali preoccupò seriamente l'intendenza di Foggia e la polizia centrale del governo napoletano: fame, disoccupazione e occupazioni di terre raggiunsero uno stato di estrema drammaticità. Con una ordinanza del '47 l'intendente di Foggia proponeva di tenere d'occhio disoccupati, braccianti d'ogni sorta, mendichi e accattoni di varia provenienza, di censirli in qualche modo, di offrire loro una minestra ed esigere, in compenso di tale magra offerta, quella più grossa di lavoro per pubblica utilità.
"Questo sacerdote concitò sulla pubblica piazza di San Marco 'i comunisti' incitandoli ad armarsi e dicendo: 'i nemici nostri sono i proprietari ed i galantuomini, perché in questo paese se ne pigliano troppo e voi siete una maniata di c.: unitevi e scannateli... Vi garantisco io con i miei mezzi: unitevi che mi metto io alla testa" (Nota 16).
Più compatto si desta questo popolo alla vigilia e all'indomani dell'unità d'Italia mentre al vertice, per coraggio, fermezza e talento, eccelle un'eletta minoranza di valentuomini: professionisti e intellettuali, mentre nel suo insieme la grossa borghesia è divisa politicamente partendo dal calcolo del proprio utile privato. Ma è proprio nel tormentoso triennio '60-'63 che questa gente nella sua totalità, dal basso e dall'alto, mostra drammaticamente i suoi caratteri preminenti: gentilezza e ferocia, volontà proterva e fierezza di scelta; di una gente insomma che sa afferrare il filo rosso della storia e dipanarlo dialetticamente.
In altra sede ho tentato e suggerito di non demonizzare questi nostri briganti secondo una tradizionale e superficiale volgata. Il brigantaggio sammarchese fu schiettamente politico e non criminale. Molti i suoi stimoli o ideali subcoscienti: sociali, affettivi in quanto legati al trono e all'altare, sentimentali e soprattutto economici quando il rancore ha assunto la ferocia della vendetta e della rappresaglia. Durò infatti appena tre anni e terminò praticamente nell'agosto del 1863; prima che la legge Pica entrasse in vigore e che le pastoie burocratiche e parlamentari si muovessero, San Marco aveva già risolto da sé il suo dramma.
Quanto al fatto politico sono da rilevare due episodi. Prima del plebiscito, nell'ottobre del 1860, il popolo pretese e ottenne dalle autorità locali e dai garibaldini il loro ingresso in città senza armi.
Quanto alla sparuta schiera, compresa d'amore di patria e di libertà, sì, esiguo era il suo numero, ma incisiva l'influenza e grande la pavida ammirazione dei molti. Provenivano essi da ogni ceto sociale, professionisti piccoli e medi borghesi infarinati di cultura umanistica, artigiani compresi. Ne è conferma, come si è accennato, il nutrito numero di iscritti alla carboneria. Nota è l'intraprendenza di un mugnaio tra San Marco e Rignano alla vigilia dei moti nolani. Ancor più nota e ammirata la morte di un intrepido sarto, reo di aver gridato 'viva l'Italia' contro l'insorta folla borbonica che gli intimava di inneggiare a re Francesco.
Provvido fu un nutrito gruppo di figure rappresentative per nobiltà, non di censo, ma d'animo e di intelletto: professionisti compresi del proprio ruolo sociale e politico; saggi e sagaci amministratori della cosa pubblica, quali sindaci del Comune e consiglieri della provincia. Lungo e doveroso sarebbe il racconto delle loro benemerenze storiche notoriamente apprezzate in provincia e fuori. Qui basterà solo ricordare, con memore, civico orgoglio, due sammarchesi provenienti entrambi da famiglie di patrioti. Il primo ebbe la ventura, nell'agosto del 1860 quale magistrato a Mélito di Porto Salvo in Calabria, di ricevere per primo Garibaldi al momento del suo sbarco sul continente. Il secondo per unanime scelta della città, dopo lo storico incontro di Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele, fu inviato a Napoli; ebbe così l'onore di porgere il saluto di San Marco in Lamis al primo re dell'Italia unita.
Si potrebbe dire che l'eredità maggiore, feconda, consegnata da questi valentuomini dell'Ottocento a quelli del Novecento, sia precipuamente quella della cultura. Ebbero in effetti nel secolo scorso una particolare influenza personalità laiche e clericali, a cui bisogna aggiungere i francescani dei due conventi; tra i laici, notevole fu l'influsso alla fine dell'Ottocento esercitato da un appassionato studioso di Giannone e da un poeta traduttore di poeti, operante a Napoli, noto in Italia, apprezzato da Giosuè Carducci e ricordato da un torinese dizionario enciclopedico.
Lungo il percorso di tutto il Novecento, rigogliosa è stata la stampa periodica e interessante per i suoi vivaci e molteplici aspetti; mentre permane di grande importanza la produzione di opere narrative, poetiche e saggistiche nei tre settori letterario, storiografico e filosofico.
È ormai pacifica opinione che San Marco, per quantità e qualità di cultura, sia al primo posto fra i centri minori della Puglia. Molte le personalità ormai inserite nella storia della cultura italiana, con validi e autorevoli riconoscimenti.
Qui ovviamente non si fanno nomi: si è badato a impegni e opere nei loro aspetti ampiamente positivi.
Per quelli dell'Ottocento occorrerebbe un doveroso cenno biografico, il che esorbiterebbe dagli scopi e dall'economia di questo lavoro. Per quelli del secolo in corso lo vietano il timore delle omissioni involontarie o volute, la soggettività di ogni parere o giudizio critico e l'odiosità delle classifiche di puerile marca sportiva.
Si tratta comunque di solisti di tutto rispetto che però non fanno ancora concerto, come la comunità auspica e chi scrive desidera e più volte consiglia. Insomma, occorrerebbe promuovere e coordinare una rete d'impegni per mezzi e modi al fine di creare un'aura, meglio, una temperie propizia alla maturità di una stagione memorabile per frutti, nella storia di questa terra materna alle soglie del Duemila.