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Vi presento una pagina molto bella e vibrante, che può capire a fondo solo chi ha vissuto in quei luoghi . Ritorna continuamente il ricordo del fanciullino di Giovanni Pascoli, anche per il tramite di citazioni da Giacomo Leopardi e Giuseppe Ungaretti. Non dimentichiamo che la formazione classica di allora (di impronta gentiliana) vedeva giganteggiare Leopardi, Manzoni, Pascoli, Foscolo e tutti i Grandi Autori da Dante in su. La letteratura italiana di allora era quasi codificata nella Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis.

La valle dello Starale in cui si trova S. Marco in Lamis. In fondo a destra, il convento di S. Matteo.
La valle dello Starale in cui si trova S. Marco in Lamis. In fondo a destra, il convento di S. Matteo.
Tenera, candida e illuminante innocenza della prima età.
Nella scia di un morbido e serico odore di vio­la il genio dell'infanzia crea un suo mondo in cui crede, vive e si adagia con placida letizia. Potrebbe dire: credo, dunque esisto; credo, dunque sono.
Una fede che si limita a orizzonti e confini oltre i quali per essa non esistono altre terre, altri cieli, altra gente.
L'infinito è quel finito della sua valle, chiuso da due poli; in basso una chiesina su un greppo al limite dell'abitato, in alto, forte e dominante il santuario: San Giuseppe e San Matteo.
I traguardi di ogni sortita clandestina erano in rapporto all'età di fanciulli non ancora decenni.
E c'era una volta, e ora non c'è più, appena usciti dal fondovalle, lungo la mulattiera scomparsa per l'eversione dell'asfalto, una grossa roccia con l'impronta di un piede e, di fronte, una nicchietta composta di pietre con una croce graffita nel sasso. Si diceva che quell'impronta del piede l'aveva impressa San Francesco passando per San Matteo nella sua visita a San Michele.
La contrada dello Starale a S. Marco in Lamis, devastata da una imprevidente serie di lottizzazioni selvagge.
La contrada dello Starale a S. Marco in Lamis, devastata da una imprevidente serie di lottizzazioni selvagge.
E c'erano viottoli che salivano paralleli su per l'erta verso colline solatie, scomparsi in parte anch'essi per l'invasione del cemento edilizio. Fertili erano quei sentieri di mammole festose per il buon aroma che diffondevano intorno. Ed era l'aria soave e pie­na d'amore innocente in quelle primavere candide e vermiglie.
Uscendo dal borgo, l'avventura iniziava tra camminamenti per alte muraglie con un ponticello che le univa.
Quanti avidi sogni sono ora colà sepolti. Si intravvedevano dal buco delle serrature e oltre i cancelli: giardini educati, orti conclusi con vigne, mandorli, peschi e ciliegi fioriti e giganti di querce e di castagni: mondo a noi vietato ma non invidiato, ammira­to con naturale rassegnazione alla naturale condizione sociale.
Si guardava, stupiti e pietosi, scalzi viandanti d'ogni età diretti a San Matteo per la carità di un pane.
E tutto era naturale: anche il dolore che solo i fan­ciulli sanno tollerare senza l'impazienza degli adulti e con serena accettazione e cosmica fatalità.
E afferriamo pure i battenti per aprire la porta e varcare la soglia del mito e quella delle antiche estasi di fanciulli ardenti nel vivere in esaltanti incosapevolezze.
È da ricordare che la psicologia della tenera età fonde e confonde astronomia, storia e geografia in una sola emulsione. Questo è un prodotto serio della sua fantasia, che non è mai buffa, come direbbe il poeta Gozzano.
Si badi, non si emulge o frulla il vuoto, ma sostan­ze reali di vari alimenti. Non si tratta di aria fritta, ma di una realtà vissuta, ora con gioia ora con noia. E il rimpianto della perduta prima età, che sola conosce la felicità, non è solo dei poeti, ma di tutti gli esseri viventi.
Già da gennaio si invocava la buona stagione, tar­diva e occulta nello Starale. Si pregava con ansia e si sollecitava con impazienza il tempo ad affrettare il suo cammino.
Si strologava il calendario: un minuscolo biglietto che ci dava il maestro di catechismo. Nel primo gior­no dell'anno c'era scritto: "Circoncisione di Gesù bambino" e noi ignari, oh candida innocenza, immaginavamo che Gesù in culla ci venisse incontro circonfuso di luce.
E speravamo così che per il venti anche San Sebastiano ci venisse incontro con le prime tre viole. Purtroppo

per la candelora l'invernata non usciva fuora,

si attendeva finalmente marzo che mette le nuvole a soqquadro, quando la terra s'apre e germi­na con tutto il suo intimo travaglio.
Allora la prima mammola meritava il nostro squil­lo di tromba e il nostro canto: ecco la reginella pic­cina odorata. Non si sapeva affatto il motivo di quella patetica canzonetta riguardante un nostalgico amore, nata tra gli anni della guerra di Tripoli e di quella mondiale. Per noi, non pensando di parodiare, odorata e non "adorata" reginella era semplicemente la prima mammola spuntata nei pressi del convento che allora erbose aveva le soglie della chiesa.
E così via, pronti a fare mazzi e mazzolini per l'al­tare del Santo, per la mamma, per la maestrina e, soprattutto, per alcune ricamatrici al cui perpetuo canto, sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno. Ed erano canti di verginelle, assidui canti, che da chiuso ricetto errando per le quiete vie del nostro borgo ascoltavamo immobili, stupefatti di esistere. E con noi anche il vento e il tempo si fermavano ad ascoltare.
E venne la guerra, la grande guerra. Cortei di ma­dri, vedove e figli salivano a San Matteo. Una ne vidi con brividi di sgomento ginocchioni strisciare la lin­gua sul pavimento della chiesa per grazia ricevuta o invocata per un figlio al fronte.
Fiduciosi nella preghiera degli innocenti, eravamo invitati a preci più ferventi e a canti per Trieste sei nostra.
Tra i banchi di scuola invidiavamo i cani, portato­ri di cibo ai fanti affamati nel fango delle trincee carsiche, e ci doleva la nostra impotenza.
E venne da Foggia anche il vescovo a esami­narci nella dottrina cristiana. Tra l'altro, a propo­sito delle virtù cardinali, ci chiese qual era la vera fortezza.
E noi pronti, come per cosa ovvia, rispondemmo in coro:

La vera fortezza è San Matteo.

Sorrise bonario il prelato e incuriosito chiese:

Perché mai?

A questo punto uno di noi, più in là con gli anni (studente del ginnasio superiore, poi emigrato in America con l'intera famiglia), si alzò e precisò a suo modo:

Dopo Caporetto ci siamo aggrappati al Monte Grappa e alla fortezza di San Matteo per vin­cere.

Mons. Bella ebbe una pausa di riflessione e poi esclamò:

Già: là la forza delle armi per vincere la guerra, qui la forza della fede e della preghiera per la pace.

Il giovinetto ebbe dal presule un bel quadro del Cuore di Gesù. Chi scrive conservò a lungo il suo premio, un libro di preghiere con una rigida coperta di stagnola, che una sorella teneva accanto alla Filotea.
E quale il nome e la verità di certe astronomiche immagini indelebili che ancora mi tengono quando mi sporgo da un balcone per tentare di scorgere tut­tora il sole e la luna?
Allora, come per le virtù cardinali, la fantasia adoperava le sue prolunghe anche per i punti cardinali.
Per un incipiente orientamento d'orizzonte, ci si apprendeva che il levante era dalla parte di San Matteo.
Il Celano era l'estremo confine, e il mondo vivo e animato finiva con San Matteo.
E grande era la potenza del Santo nel dominare e guidare il sole e la luna. Di buon mattino il sole col suo splendore animava la valle al lavoro e alla scuo­la; e già di prima sera il blando lume della luna invitava al sonno. Per chi voglia osservare, tuttora, specie nel periodo equinoziale e in quello plenilunare, il sole e la luna quando si fermano a piombo al vertice del santuario, appaiono, come a noi realmente sembravano, due splendenti ostensori su San Matteo benedicente, di buon auspicio nel cammino dei giorni.
E di notte pareva che le stelle volessero incoronarlo per rendere più augusto il suo faro dall'alto della valle nel volgersi delle tenebre.
E c'era, e c'è, il respiro di un suo vento in quelle sere estive.
Ed ecco il prodigio: scendeva giù dai boschi un vento di frescura a mitigare afa e calura. Era allora che tutti del borgo si sporgevano dai balconi o salivano in terrazza. Tanta platea si sollevava beata e grata. Con aria di mistero ci dicevano:

È il terrano, il vento di San Matteo.

Il vescovo Salvatore Bella, nato nel 1862 e deceduto nel 1922. Fu vescovo di Foggia dal 1909 al 1920.
Il vescovo Salvatore Bella, nato nel 1862 e deceduto nel 1922. Fu vescovo di Foggia dal 1909 al 1920.
E così, a primavera, il respiro delle mammole ci recava il palpito di un profumo in armonia col tepo­re del seno materno che ci cullava.
E d'estate, su tutto e su tutti, prima del sonno ci raggiungeva il refrigerante paterno alito di San Matteo. Dava ali ai più vasti sogni in una perfetta felicità di esistere.
Si è usata una lente d'ingrandimento non rivolta verso un vuoto, ma sulla consistente realtà di un'infanzia realmente vissuta e attenti ad evitare alterazioni ed enfasi.
Testimonianze di verità di quel San Matteo che è in noi e che ci portiamo dentro sin dall'infanzia.
E come quel contadino soldato di Ungaretti che, nel crudo sasso delle trincee sul Carso, si affidava alla medaglia di Sant'Antonio che portava al collo e andava leggero, così noi tuttora ci affidiamo alle multiple immagini di San Matteo nelle dure trincee della vita.

Hai mai visto gli ex voto di san Matteo? Conosci Giovanni Gelsomino?