Nel Duecento, in diocesi di Penne nell'Abruzzo, fioriva 'in materialibus et spiritualibus' l'abbazia di S. Maria di Casanova dell'Ordine dei Cistercensi. Come è noto, i Cistercensi costituiscono un ramo del grande albero dell'Ordine Benedettino. Sorti a Citeaux in Francia, nel 1098, per opera di S. Roberto, ebbero grande diffusione in Europa, specialmente dietro l'azione e l'esempio di S. Bernardo di Chiaravalle. Le prime fondazioni sorsero con il proposito di osservare la Regola di S. Benedetto nella sua forma originale ed austera, eliminando alcuni usi introdotti nei monasteri.

Ruderi dell'Abbazia di Santa Maria di Casanova.
Ruderi dell'Abbazia di Santa Maria di Casanova.
Nel 1197 venne fondata l'abbazia di S. Maria di Casanova dal conte Berardo di Loreto e dalla contessa Maria sua consorte (Nota 28). Nel primo ventennio del Trecento, detta abbazia contava 500 monaci, compresi quelli che dimoravano nelle varie grancie, ed aveva possedimenti anche in Capitanata. Mentre l'abbazia casanovense scoppiava di salute, quella di S. Giovanni in Lamis (dal Trecento non più de Lama) intristiva sempre più, come una nobile decaduta.
Stando ad alcune fonti, come si vedrà, i monaci benedettini di S. Giovanni in Lamis chiesero alla Santa Sede l'aggregazione della loro abbazia a quella cistercense di Casanova (Nota 29), così come era avvenuto, nel 1237, dell'abbazia di S. Maria di Tremiti (Nota 30). A tale scopo nominarono loro procuratore il decano di S. Giovanni in Lamis, il monaco Mattiotto (Nota 31).
Ruderi dell'Abbazia di Santa Maria di Ripalta nel 1905 - dal Beltramelli.
Ruderi dell'Abbazia di Santa Maria di Ripalta nel 1905 - dal Beltramelli.
Il 17 agosto 1307, Mattiotto, l'abate di Casanova, il notaio Enrico di Civitate e alcuni testimoni si riunirono nell'abbazia di S. Maria di Ripalta (diocesi di Civitate), e decisero d'inoltrare alla Santa Sede le pratiche per ottenere “l'incorporazione” dell'abbazia di S. Giovanni a quella di Casanova (Nota 32).
Il documento della riunione di Ripalta desta sospetto, si intravede nell'assemblea qualche cosa che sa di conciliabolo: ci sfugge, per esempio, il vero motivo dell'assenza alla riunione dell'abate di S. Giovanni in Lamis, Giovanni di Modena, mentre è presente l'abate Giacomo di Casanova, sono presenti i monaci di Ripalta, è presente l'abate di S. Severo, i testimoni sono Nicola di Vasto e Petronio di L'Aquila. Da parte dell'abbazia di  S. Giovanni è presente soltanto il decano Mattiotto. Ma proseguiamo nell'esporre i fatti.
Il procuratore benedettino Mattiotto e il procuratore cistercense Bartolomeo inoltrarono la richiesta alla Curia Papale in Avignone. Motivo della richiesta incorporazione era che il monastero di S. Giovanni, fino allora “fiorente nello spirituale e ricco nel materiale”, da alcuni prepotenti Baroni delle terre vicine veniva privato, in gran parte, dei suoi beni e vedeva conculcati i suoi diritti; lo stesso abate e i monaci erano talmente danneggiati ed offesi con continue ingiurie, contumelie e disprezzo, che il monastero, una volta abitato da numerosi monaci, si era ridotto ad averne appena cinque; né vi era speranza di averne altri, stante la prepotenza dei Baroni e lo scarso numero di monaci di altre abbazie vicine.
Nella speranza di recuperare e conservare i diritti del monastero, supplicavano il Papa Clemente V d'incorporare l'abbazia di S. Giovanni in Lamis a quella dei cistercensi di Casanova, poiché, essendo questa ricca di monaci e di conversi, potente per i suoi beni, poteva essere in grado di difendere il monastero dalla violenza dei prepotenti.
Dopo tre anni, il Papa, per una più esauriente informazione, delegava (15 giugno 1310) l'arcivescovo Consiglio di Conza e il vescovo Giovanni di Civitate ad esaminare la faccenda sul posto e riferire in merito (Nota 33) (Doc. 8). In sostanza il Pontefice voleva sapere: era possibile ai benedettini mantenere l'abbazia? E in caso negativo era opportuno incorporarla a quella dei cistercensi di Casanova?
Dalla relazione (Nota 34) del vescovo di Civitate (15 settembre 1310) risultava che una restaurazione benedettina, in pratica, non era possibile, e perciò l'utilità e la necessità d'incorporare l'abbazia di S. Giovanni in Lamis a quella di Casanova.
Da Avignone, Papa Clemente V, in data 20 febbraio 1311, inviava una Bolla all'abate del monastero di Casanova, il cui contenuto si può così riassumere: il Pontefice accenna alle sue premure perché i monasteri si mantengano in vita, manifesta l'impegno dimostrato per conoscere le reali condizioni dell'abbazia di S. Giovanni in Lamis sia attraverso la relazione del vescovo di Civitate, sia dall'esame di detta relazione fatto dal cardinale Guglielmo di S. Nicola; è venuto perciò nella convinzione che l'incorporazione non solo è conveniente ma anche necessaria, se non si vuol ridurre il monastero ad una “irreparabile desolazione”.
Benedettino inglese in coro. Litografia acquerellata a mano.
Benedettino inglese in coro. Litografia acquerellata a mano.
A sventare tale pericolo - continua la Bolla - per Autorità Apostolica, detto monastero con i rispettivi casali, sobborghi, masserie e pertinenze, viene sottoposto alla giurisdizione di quello di Casanova. E perché si proceda ad una salutare riforma, d'ora innanzi l'abate di S. Giovanni in Lamis sarà un monaco di Casa­nova, e la stessa abbazia sarà da considerarsi “tamquam filia” di quella di Casanova.
Infine - è detto nella stessa Bolla - l'abate e i monaci che ancora dimorano nel monastero di S. Giovanni in Lamis, se vogliono passare all'Ordine Cistercense siano ricevuti e trattati con sincera carità; se vogliono restare benedettini e rimanere, vita natural durante, nel monastero di S. Giovanni, si somministri loro il necessario per vivere (Doc. 9).
Nello stesso giorno 20 febbraio 1311, Clemente V inviava altra Bolla ad Aimardo vescovo di Salpi, a Landolfo vescovo eletto di Bari e all'abate del monastero di Ripalta, ai quali conferiva il mandato d'immettere nel reale possesso del monastero di S. Giovanni in Lamis (in corporalem possessionem monasterii sancti Ioannis) l'abate di Casanova o un suo procuratore, e a questi si prestasse obbedienza e riverenza da parte dei monaci che ivi risiedevano (Doc. 10).
Da quel giorno, ufficialmente, l'abbazia di S. Giovanni in Lamis non era più benedettina, ma una colonia cistercense soggetta 'tamquam filia' all'abate di Casanova.
A chi esamini con una certa attenzione i documenti riguardanti l'incorporazione, non sfugge il fatto che il Papa comunica la sua decisione all'abate Giacomo di Casanova, ai vescovi di Salpi e di Bari, all'abate di Ripalta, al Re angioino Roberto, al giustiziere Pietro di Cozel, al giudice Giacomo di Peschici, ma non si riscontra alcun cenno di comunicazione al procuratore Mattiotto, e tanto meno all'abate di S. Giovanni in Lamis, Giovanni di Modena. Si deve pensare, nel caso, soltanto ad un eventuale smarrimento di documenti? O vi era qualche altro motivo? Non sappiamo.
Monaco cistercense - Litografia acquerellata a mano.
Monaco cistercense - Litografia acquerellata a mano.
L'otto dicembre 1311, l'abate Giacomo di Casanova nominava abate di S. Giovanni in Lamis il monaco di Casanova Giovanni di Offida, e designava undici monaci e quattro conversi, quali componenti della comunità di S. Giovanni in Lamis. Dopo oltre un anno, i vassalli di S. Giovanni Rotondo, di S. Marco in Lamis e di Faziolo, casali ancora dipendenti dall'abbazia di S. Giovanni, venivano richiamati al dovere di prestare il giuramento di fedeltà all'abate Giacomo di Casanova (Nota 35).
Giovanni di Modena, fino allora abate della nostra abbazia, non si mosse, deciso a restare, sino alla morte, benedettino nero. L'abate di Casanova, nel 1316, gli assegnava 50 once d'argento all'anno, per sussistenza. La stessa cosa viene confermata da un documento del 1318 (Nota 36).
Simili gesti potrebbero far pensare a momenti di bonaccia su un mare in tempesta. Nel 1320, scoppiava una clamorosa vicenda, dai riflessi oscuri e turbolenti, dai quali emerge lo spietato egoismo di un abate cistercense.
Sin dall'anno 1318, Papa Giovanni XXII delegava il Nunzio Apostolico di Sicilia Guglielmo di Balaeto, arcidiacono di Freius e rettore di Benevento, a rivendicare al patrimonio della Curia Romana i beni illegittimamente incamerati da ecclesiastici, da università e da monasteri, nel Regno di Sicilia. Guglielmo svolse anche un'ampia indagine sulle reali condizioni del monastero di S. Giovanni in Lamis.
Chiesa di San Giorgio in Napoli - Cappella con affreschi giovanili del Solimena.
Chiesa di San Giorgio in Napoli - Cappella con affreschi giovanili del Solimena.
Da varie inchieste e dalla deposizione di quaranta testimoni venne a sapere che l'abate cistercense Gia­como del monastero di Casanova aveva indebitamente occupato il monastero di S. Giovanni in Lamis e perciò l'incorporazione era invalida. Al primo trapelare dell'inchiesta da parte del Nunzio Apostolico, l'abate di Casanova sceglieva due procuratori perché si tenessero pronti a sostenere e difendere, con massimo impegno, la legittimità dell'incorporazione.
Dal 22 gennaio al 20 luglio dell'anno 1320, nel palazzo della chiesa di S. Giorgio Maggiore in Napoli, il Nunzio Apostolico convocò, in varie udienze, le parti interessate. Comparirono il procuratore di Giovanni di Offida “che si diceva abate di S. Giovanni in Lamis”, l'abate Giacomo di Casanova, e varie decine di testimoni. Il principale atto di accusa rivolto all'abate di Casanova era quello di aver occupato indebitamente il monastero di S. Giovanni in Lamis. Il procuratore, di parte casanovense, dapprima sollevò la questione di legittimità dell'intervento del Nunzio Apostolico, poi chiese una dilazione, infine sostenne la legittimità dell'incorporazione sulla base delle Bolle di Papa Clemente V del 20 febbraio 1311. L'abate Giacomo di Casanova, dopo aver esposto frivole ragioni (rationes frivolas), 'contumaciter' abbandonò l'aula gridando: 'mi appello al Papa'. Si procedette alle deposizioni dei testimoni dell'una e dell'altra parte.
Il 20 luglio 1320, il Nunzio Apostolico Guglielmo di Balaeto sferrò la sua tremenda requisitoria, la quale, in sintesi, suona così:
Se Papa Clemente V avesse conosciuto la verità dei fatti, non avrebbe certamente concessa l'incorporazione del monastero benedettino di S. Giovanni in Lamis a quello cistercense di S. Maria di Casanova. Detta incorporazione fu chiesta 'per falsi suggestionem et veri soppressionem'. Infatti le informazioni date al Pontefice erano false, perché è pienamente provato (piene probatum) che il monastero benedettino dei monaci 'neri' di S. Giovanni in Lamis, in quel tempo, era fiorente nel campo spirituale e prosperava nelle cose temporali, godendo dei suoi diritti e delle sue possessioni senza alcuna molestia da parte dei baroni vicini;
Particolare del chiostro del convento di S. Matteo.
Particolare del chiostro del convento di S. Matteo.
Detto monastero aveva dieci monaci, e non cinque; esso disponeva di trecento once d'oro; i monaci praticavano la regolare osservanza, e attendevano all'ospitalità nel migliore dei modi;
E' risaputo che l'abate cistercense di Casanova abbindolò l'abate benedettino di S. Giovanni in Lamis, con promesse e raggiri per indurlo o piuttosto sedurlo (induxerat vel potius seduxerat) a chiedere l'incorporazione, all'insaputa degli altri monaci, eccetto il decano Mattiotto;
E' provato molto chiaramente (probatum fuit etiam valde clare) che il vescovo di Civitate nell'espletare il mandato d'inquisire sullo stato del monastero, non serbò la forma prescritta, ma si contentò di agire da lontano, interrogando testimoni ignari della situazione;
Di più (valde clare probatum) lo stesso vescovo, ricevuta una certa somma di denaro, direttamente o indirettamente dall'abate di Casanova, disse nella sua relazione che il monastero era in pericolo per le oppressioni dei potenti, e suggerì come necessaria l'incorporazione;
L'altro inquisitore designato, l'arcivescovo Consiglio di Conza, non fece alcuna inchiesta, adducendo motivi pastorali che non gli consentivano di allontanarsi dalla sua diocesi;
E' provato ed è di pubblica ragione che l'abate cistercense Giacomo di Casanova, ottenuta la Bolla papale dell'incorporazione, occupò il monastero benedettino di S. Giovanni in Lamis, con un gruppo di uomini armati;
E' provato pure che l'abate Giacomo di Casanova tenne agli arresti l'abate benedettino di S. Giovanni in Lamis e depositò, per conto di questi, presso la società degli Acciaioli di Firenze, la somma di cento once d'oro, a condizione che l'abate di S. Giovanni non espatriasse e non riferisse alla Curia Romana;
E' risaputo che l'abate cistercense Giacomo di Casanova ha percepito dalle rendite del monastero di S. Giovanni in Lamis, dal 1311 al 1320, i frutti per il valore di duemila once d'oro.
Ciò posto, il Nunzio Apostolico Guglielmo di Balaeto, per Autorità Apostolica, sentenziava: l'incorporazione del monastero benedettino di S. Giovanni in Lamis a quello cistercense di Casanova è nulla; tutti i beni di S. Giovanni in Lamis passano alla Curia Romana; Giovanni di Offida, che si dice abate del monastero di S. Giovanni in Lamis (qui se dicit abbatem dicti monasterii) e l'abate di Casanova, nel termine di un mese, devono consegnare al Nunzio Apostolico, o a chi per lui, tutti i beni del monastero di S. Giovanni in Lamis, e vadano in pace (et in pace dimittant).(Nota 37) (Doc. 11).
Santuario di S. Matteo a S. Marco in Lamis. Antichi affreschi nella Chiesa venuti alla luce nei recenti restauri.
Santuario di S. Matteo a S. Marco in Lamis. Antichi affreschi nella Chiesa venuti alla luce nei recenti restauri.
A questo punto, il procuratore casanovense gridò: 'questa sentenza è iniqua, mi appello al Papa'.
Difatti giunse l'appello ad Avignone, anzi si recò presso la Curia papale un procuratore dei cistercensi.
Papa Giovanni XXII passò l'appello (1321) ad un suo cappellano di Parigi, il canonico Giovanni d'Arpadelle, il quale citò a comparire in giudizio, davanti a lui, ad Avignone, o in altro luogo, il Nunzio Apostolico Guglielmo e il procuratore dei cistercensi (Nota 38).
Non sappiamo con certezza se vi fu un processo, ma tutto lascia credere che l'appello sia finito come bolla di sapone. Difatti Papa Giovanni XXII, nonostante l'appello, reclamò (27 maggio 1321) dalla Società degli Acciaioli di Firenze, la restituzione alla Camera Apostolica, della somma di cento once 'd'oro in argento' e di sessanta 'once d'oro in oro', depositata come sopra si è detto. (Documento 12).
Inoltre, il 22 settembre 1321, lo stesso Papa ordinava all'arcivescovo di Siponto di sequestrare tutti i beni del monastero di S. Giovanni in Lamis (Doc. 13). Sequestro che durò fino al 7 giugno 1327, quando lo stesso Papa affidava, in commenda, all'arcivescovo Matteo di Siponto i detti beni (Nota 39), e ne dava comunicazione ai monaci del monastero di S. Giovanni in Lamis (Doc. 14), e ai vassalli.
Cominciava così per il nostro monastero il triste periodo degli Abati Commendatari. L'arcivescovo Matteo, fatto cardinale, conservava la commenda (Nota 40) di detto monastero (1328), il quale, in questo periodo, subì danni non pochi nell'edifìcio e i monaci diminuirono (Nota 41).
Morto il cardinale Matteo, Papa Clemente VI (25 maggio 1342) affidava, in commenda, i beni del monastero al cardinale Guglielmo dei Santi quattro Coronati (Nota 42).
Nel 1353 il cardinale Guglielmo rinunziava alla commenda, e dal Papa Innocenzo VI veniva data a Giovanni di Guisa monaco del monastero di Clairvaux (Nota 43).
Santuario di S. Matteo a S. Marco in Lamis. Pezzo di scultura in pietra dell'antica Chiesa abbaziale.
Santuario di S. Matteo a S. Marco in Lamis. Pezzo di scultura in pietra dell'antica Chiesa abbaziale.
Dopo tre anni la commenda passava a Matteo abate di S. Bartolomeo di Carpineto, che nominava due vicari per l'amministrazione dei beni di S. Giovanni in Lamis (Nota 44).
Se il monastero di S. Giovanni piangeva, quello di Casanova non rideva. Il famoso abate Giacomo, dalla Sede Apostolica veniva rimosso da Casanova e il suo monastero, con Bolla del 13 settembre 1328 di Papa Giovanni XXII, venne dato in commenda ad un certo Angelo (Nota 45). Nel 1334, con altra Bolla del 1° luglio, lo stesso Papa costituiva, per cinque anni, i vescovi di L'Aquila (Angelo Acciaioli) e di Termoli (Bartolomeo II) e l'abate di S. Clemente di Pescara “conservatori” dei beni e dei diritti del monastero di Casanova contro le frequenti usurpazioni da parte di ecclesiastici e secolari (Nota 46).
Situazione oltremodo confusa di cose che andavano a catafascio. Se non avessimo documenti si potrebbe pensare alla tragica pagina di un romanzo. Nel 1364, da Papa Urbano V venne nominato abate di S. Giovanni in Lamis il monaco Gio­vanni già abate di S. Maria di Ponza (Gaeta), in luogo di Matteo trasferito a Casanova. Dalla Bolla del 24 gennaio si rile­va: il Papa riserva a sé la nomina degli abati dei monasteri; per il nostro monastero nomina abate il detto Giovanni, ricordando che questi già “laudabiliter et utiliter” ha governato l'abbazia di Ponza, e si attende da lui di essere un “provvido ed efficace amministratore”; esorta i monaci di S. Giovanni in Lamis a riconoscere il nuovo abate come padre e pastore, prestandogli obbedienza e onore; ordina ai vassalli di rendere il debito onore e la consueta fedeltà all'abate; a Matteo trasferito a Casanova dice di rendere agevole il compito del nuovo abate e aiutarlo a conservare e ampliare i diritti del monastero; finalmente raccomanda l'abate alla regina Giovanna affinché con il suo aiuto e la sua protezione, l'opera dell'abate riesca efficace per la prosperità del monastero (Nota 47).
Fregio medievale.
Fregio medievale.
La venuta di questo abate Giovanni da Ponza nel nostro monastero fu una vera iattura. Altro che 'provvido ed efficace amministratore' egli si rivelò un concubinario, un ostinato dilapidatore dei beni del monastero, un devastatore dell'edificio facendo abbattere alcune strutture di esso senza ragione (sine causa devastat quasdam structuras dicti monasterii opere non modico sumptuoso) (Nota 48). Dopo un'inchiesta, questo figuro venne deposto (1367).
A distanza di quattro anni appare abate del monastero un certo Antonio (Nota 49); quando abbiamo detto il suo nome, di lui non abbiamo altro da dire.
In mezzo secolo l'egoismo di un abate di Casanova, l'ignominia di un abate venuto da Ponza, la tristezza dei tempi getta­rono il monastero di S. Giovanni in Lamis nel profondo squallore. Ad accrescere la desolazione e la confusione venne lo scisma di occidente (1378-1417): Papa contro Papa, vescovi contro vescovi, abati contro abati. Si stenta ad immaginare il turbamento che simile anarchia causò negli spiriti, il disordine che portò nei monasteri.
In tale clima la 'commenda' metteva più profonde radici, il monastero di S. Giovanni era già nelle sue spire dal 1327, eccezione fatta per pochi anni.
Convento di S. Matteo a S. Marco in Lamis. Lato est - ingresso del convento prima del 1950.
Convento di S. Matteo a S. Marco in Lamis. Lato est - ingresso del convento prima del 1950.
E' noto che la commenda è donazione dell'uso di un beneficio vacante; l'abate commendatario gode delle rendite dell'abbazia, che, alle volte, neppur conosce, e concede una quota della rendita a chi assiste veramente l'abbazia. 'Il male della commenda, deprecato tante volte invano sì da resistere, almeno parzialmente, alle misure tridentine, aveva assunto nei secoli XV e XVI forme addirittura ributtanti. Ormai i monasteri avevano quasi smarrita la loro fun­zione di asilo delle anime sollecite della perfezione cristiana, riducendosi, se non esclusivamente, almeno in massima parte, a quella di formare le riserve a cui persone privilegiate attingono per i loro veri o pretesi bisogni economici. I registri papali sono pieni di esempi che rattristano profondamente' (Nota 50).
L'ex abbazia benedettina (Nota 51) di S. Giovanni in Lamis, nella seconda metà del Cinquecento, era un organismo moribondo, non era morto, se non ebbe il pieno collasso si deve al gesto di un abate commendatario, gesto che dette al monastero l’avvio ad una 'novella historia'.