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Gaetano Salvemini

AA. VV., Italiani e Jugoslavi, Libreria della Voce Firenze 1918 (v. libro 09.02.2025)
Italiani e Jugoslavi

Uno dei protagonisti della guerra franco-prussina del 1870-71, nella quale combatté anche il nostro Garibaldi
Uno dei protagonisti della guerra franco-prussina del 1870-71, nella quale combatté anche il nostro Garibaldi
Questo libro si apre con la riproduzione di due brani pubblicati da Gaetano Salvemini nell’Unità del 1916 e 1917, omaggio reso a colui che in Italia, più fervidamente, coraggiosamente e profeticamente d’ogni altro, ha combattuto per quella Intesa italo-slava che si è cominciata a realizzare col Patto di Roma dell’aprile 1918. Le idee del Salvemini si troveranno, più precisate e amplificate, nel volume compilato insieme a Carlo Maranelli La questione dell'Adriatico, pubblicato in questa collezione e del quale il presente vorrebbe essere, in certo modo, la continuazione. Si tenga conto adunque del periodo in cui questi brani furono scritti.
Scoppiata la guerra europea, gli italiani e gli slavi adriatici avrebbero dovuto adattare le loro idee politiche alla nuova inaspettata situazione, considerare il passato come passato, e darsi la mano cordialmente per lavorare in comune a instaurare nell'Adriatico un novus ordo, a vantaggio degli italiani e degli slavi, e con esclusione totale dei tedeschi e dei magiari.
Questo era il consiglo della logica e del buon senso. Ma era umano che i ricordi del passato e i rancori di campanile fossero più forti di qualunque altro consiglio di opportunità e di saggezza. Scoppiata la guerra, i profughi italiani hanno importato in Italia e nei giornali, in cui han trovato facilmente da collocarsi, l'odio anti-slavo. I profughi sloveni e croati hanno importato nei giornali serbi, inglesi e francesi l'odio antiitaliano.
I nazionalisti italiani, e i nazionalisti slavi, rendendosi ciecamente solidali coi gruppi adriatici, hanno contribuito a esasperare, com'è loro costume, le intransigenze e le reciproche accuse e le intemperanze polemiche. Gli agenti austro-tedeschi sfruttano la follia nazionalista jugoslava; e i neutralisti tedescofili italiani favoriscono meglio che possono la campagna nazionalista italiana.
Gli Stati balcani fecero la guerra contro la Turchia nel 1912, e la guerra fra loro nel 1913, Italiani e slavi fanno una guerra d'inchiostro fra loro, mentre fanno insieme la guerra di sangue contro l'Austria-Ungheria e la Germania.
36 milioni di italiani e 12 milioni di slavi minacciano così di essere trascinati per sempre in una lotta forsennata, la quale si limitava finora ad appena un milione fra italiani e slavi adriatici.
E il principe di Bülow, dalla Svizzera, sta alla finestra, conta i colpi che gli avversari si assestano alla cieca, e ride.
E già gli agenti austro-tedeschi sussurrano agli slavi che il nemico peggiore non è l'Austria, ma l'Italia; che l'Intesa è complice dell'Italia nel volere soffocare gli slavi; e che perciò gli slavi faranno bene a riappaciarsi coi tedeschi e coi magiari, a rientrare pentiti e contriti nella capponaia austriaca e a riprendere sotto la protezione della Mittel-Europa la guerra di sterminio contro gli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia. E non ci meraviglieremo se, viceversa, sentiremo presto proclamare apertamente anche in Italia, che, attesoché il nemico vero dell'Italia non è la Germania, e tanto meno l'Austria, ma la Serbia, 1'Italia deve impedire l'unità slava del sud, e perciò deve lasciare in piedi l'Austria e deve diffidare della Francia e dell'Inghilterra, che sono troppo amiche dei serbi, degli sloveni e dei croati.
Gli estremi nazionalisti, sfruttati dalla stessa mano, si toccano nel sostenere lo stesso programma pratico: il programma della salvezza dell'Austria, cioè il programma minimo, a cui deve adattarsi la Germania, dopo che è fallito il programma massimo.
Sembrava grande abilità lasciare disfrenarsi ogni eccesso del nazionalismo italiano, perchè si credeva così di creare un contrappeso contro il nazionalismo slavo pretendente a tutto l'Adriatico da Vallona a Grado. E non si capiva, e non si voleva capire che contrapponendo al nazionalismo altrui non un programma italiano di equità e di buon senso, ma un eccesso altrettanto deplorevole si suscitava contro l'Italia, più forte e perciò più pericolosa, il sospetto di tutte le persone giuste e assennate nei paesi alleati, e si faceva tra gli slavi del sud il gioco dell'Austria.
Un episodio della guerra franco-prussiana
Un episodio della guerra franco-prussiana
La quale ha potuto così far predicare in Croazia e in Slovenia e in Dalmazia che il nemico peggiore degli slavi non è l'Austria, ma è 1'Italia; e l'Intesa è complice dell'Italia nel voler soffocare gli slavi; e perciò gli slavi faranno bene a ritornare amici coi tedeschi e coi magiari.
Per due anni interi, la campagna di molta parte della nostra stampa è sembrata diretta al solo scopo di rendere e mantenere popolare fra gli slavi dell'Austria la guerra contro l Italia, e galvanizzare così l'Austria. E buon per noi che la cecità barbarica dei tedeschi e dei magiari ha impedito al nuovo Imperatore di risolvere il programma interno austriaco sulla base del programma trialista!
Il Corriere si lamenta che in Inghilterra vi sieno uomini politici e giornali, che non hanno ancora compresa la necessità dello smembramento dell'Austria. Ha ragione.
Ma crede che solo in Inghilterra vi sieno questi austrofili ritardatari? E può spiegarci mai che cosa ha fatto l’Italia per diffondere l'idea dello smembramento dell'Austria fuori dell'Italia e in …
Italia? Oggi, dopo due anni di errori, sembra che l'Italia ritorni al buon senso.
Finanche il Giornale d’Italia parla della necessità di "un'equa transazione tra le aspirazioni italiane e le aspirazioni jugoslave sostanzialmente soddisfacente per tutti " e rifiuta la " tesi massimalista italiana". E il Corriere della sera pubblica articoli degni dell'anima di Giuseppe Mazzini.
Se italiani e slavi ci accordiamo senza ritardo sull'eredità dell'Austria, possiamo essere sicuri che tutti gli altri governi e popoli dell'Intesa saranno lieti di prenderne atto, e una nuova formidabile crepa si aprirà nel vecchio edifizio di casa d’Austria. Se, invece continueremo a far lite o ad avvolgerci in equivoci, l’Austria continuerà ad essere galvanizzata dai nostri errori, e quand'anche riescissimo ad abbatterla, superando le difficoltà che ci siamo andati creando quasi che volessimo raggiungere il minimo resultato col massimo sforzo, ritroveremmo integro e formidabile, dopo la vittoria, il problema che non avremmo saputo o voluto risolvere nell'ora dello sforzo contro il nemico comune.
Il problema dopo la vittoria sarebbe, sissignori, risolto nel senso del nazionalismo italiano: pestando i piedi, minacciando di ritornare colla Germania e di mettere in forse il nuovo assetto europeo, se la Intesa non ci accontentasse, potremmo strappare agli slavi e Fiume, e Zara, e Spalato, e Cattaro, e magari la intera Slovenia. Ma sarebbe vittoria di breve durata, la quale servirebbe solo a spingere gli slavi verso la Germania, e a riaprire in nuova forma la penisola balcanica alla conquista germanica. Ad evitare che la vittoria abbia i medesimi effetti di una sconfìtta, occorre che i grandi giornali compiano con coraggio il dovere di educare la opinione pubblica italiana all'idea dell'unità nazionale sud-slava e di un equo compromesso fra le nazioni che vivono sulle spiagge del mare Adriatico. Altra via, all'infuori di questa, non v'è per arrivare allo smembramento dell'Austria, e alla sconfitta della Germania.
Il Corriere della sera del 25 e 27 luglio 1917 pubblicava due articoli assai notevoli, i quali indicavano un nuovo orientamento del grande giornale milanese e della opinione pubblica italiana nella questione adriatica.
In questa "guerra di redenzione e di pacificazione” - scrive il Corriere - è logico che tocchi all'Italia dirigere la liquidazione dei problemi adriatico-balcanici. come all'Inghilterra il problema coloniale, come alla Francia il problema renano. Purtroppo una certa difììdenza accompagna l'azione adriatica dell'Italia; ma di questa condizione di cose "il motivo maggiore è l'oscurità di scopi, in cui noi abbiamo relativamente lasciata sempre la nostra azione; abbiamo sempre fatto capire che avevamo un programma di aspirazioni, ma non abbiamo mai dimostrato che in questo programma noi intendiamo dar posto, accanto alle nostre, anche alle aspirazioni altrui.
Affermare teoricamente il nostro primato sull'Adriatico non vuol dire nulla, perché un primato ha per definizione dei limiti in altri diritti, e non lo si può giuridicamente né definire né esercitare, se non si definiscono questi diritti".
L'Italia deve volere che scopo della guerra sia lo smembramento dell'Austria.
"Se l'Intesa tollera in mezzo all'Europa la esistenza di un blocco granitico, opprimente, invincibile, essa avrà perduta la guerra; e quel blocco non può esser spezzato, se non vien spezzata l'Austiia.
Un episodio della guerra franco-prussiana
Un episodio della guerra franco-prussiana
Il nodo della guerra europea è là
; se l'Austria è fiaccata, la Germania ha perduto la guerra, se l'Austria rimane forte, la perderebbe l’Intesa.
Ora, per rendere possibile lo smembramento dell'Austria, occorre che 1'Italia abbia un programma adriatico-balcanico, capace non solo di suscitare il consenso dei popoli dell'Intesa, ma anche di raccogliere intorno all'Italia a quelle alleanze, che fin qui rimangono, nel dubbio di una ricompensa o di un riconoscimento inadeguato, timide e disperse".z
E queste alleanze occorre suscitarle nei popoli stessi dell'Austria, a a chi tocca principalmente di aiutarli ad affrontare la fatica di vedere chiara l'idea del nuovo stato di cose, di uscire dal presente corrotto ma certo, di lasciare gli agi di un bene mediocre per un bene più alto?
A chi, se non a noi, di infonder loro, isolati ancora di fronte al futuro, la fiducia in quell'avvenire, la certezza che il nuovo stato darà loro mezzi più sicuri di vivere, di progredire, e i loro diritti vitali rinsaldati, e i fronti del loro lavoro divenuti sicuri?
Tutte le volte che qualcosa ci par dubbio in loro, dobbiamo domandarci se essi ci conoscono, se essi ci sentono veramente in mezzo a loro, come un elemento conduttore come un "appoggio ed una garanzia. Ora tutto questo non potrà mai essere, finché noi non avremo un piano, e non sapremo imporlo".
Sembra una pagina strappata dagli scritti di Mazzini e adottata dal grande giornale lombardo. Fra i popoli dell'Austria, a cui l'Italia deve offrire aiuto, fiducia, appoggio, garanzia, ci sono anche gli slavi del sud.
Il problema jugoslavo - accenna il Corriere - "a furia di esser presentato come terribile, ha finito forse per diventar più terribile del necessario".
Questo popolo "soffre in questo momento del bisogno di chiarezza, acutamente come non mai" e sopra tutti gli altri popoli dell'Austria. Gli slavi del sud non credono all'Austria; ma nulla si è fatto finora peichè credano all'Italia.
"È conveniente, è possibile che la fase più dura e politicamente regolatrice della guerra arrivi senza che ci sia ancora il principio di un ordine qualunque, che acquieti e chiarisca tutto questo caos di concorrenze e di divergenze, di cui l'Adriatico è lizza, senza che, tra gli elementi che sono destinati a convivere e collaborare intorno a quel mare si determini un’intesa comune; intesa all’azione contro il nemico comune, intesa di spiriti per un comune avvenire".
Il momento è eccezionalmente favorevole per l'accordo.
"Non vi è mai stata un'occasione più propizia per intraprendere contro gli imperi centrali quell'offensiva diplomatica, che può cosi grandemente contribuire alla vittoria finale. Un'azione politica per l'effettuazione di un chiaro programma adriatico, concepita con energia, e spinta a fondo con risolutezza, potrebbe in questo momento avere in mezzo a quell'aggregato di popoli ancora incerti di sé, privi di centro proprio e di proprie energie organizzatrici, benefiche ripercussioni inattese".
Un episodio della guerra franco-prussiana del 1870-71
Un episodio della guerra franco-prussiana del 1870-71
Va da sé che base di quest'azione non può essere che un programma di libertà e di equità.
"Lo spirito, con cui il problema va impostato, deve rispondere alla grandezza del compito e alle necessità, dev'essere uno spirito sopratutto oggettivo, e liberale, creativo nel senso umano e morale del termine"; dev'essere un assetto adiiatico " fondato su larghi principi di giustizia e di armonia, di bisogni e di forze".
Il primo problema, il problema centrale da affrontare con chiarezza di idee e da risolvere con fede e con audacia rivoluzionaria, è quello del destino della Croazia e della Slovenia. Alle spalle della Venezia Giulia, che questa guerra deve dare all'Italia, nella Carniola, nella Carinzia, nella Stiria, vive poco più di un milione di sloveni, che a nord, lungo la linea della Drava, viene a contatto e sta in attrito coi tedeschi. Ad est della Slovenia e a nord-est del golfo del Quarnero, vivono tre milioni e mezzo di croati e di serbi, confinanti dalla parte interna con 1'Ungheria, e in lotta feroce con la oligarchia, magiara da circa settant'anni.
Il nodo vitale del problema austriaco è in queste due regioni e in Boemia. L'Austria può perdere la Galizia, la Transilvania, la Bosnia, la Dalmazia, il Trentino, la Venezia Giulia, senza con questo smettere di essere l'antica Austria, finché conservi la Boemia, la Slovenia, la Croazia.
Sarebbe un'Austria ridotta a 35 milioni di abitanti, cioè forte quanto l'Italia, e nella quale i tedeschi e i magiari salderebbero stabilmente il loro dominio sugli czechi e sugli sloveno-croati, perchè questi sarebbero ridotti in minoranza assoluta dalla perdita, che avrebbe fatta l'Austria, delle piovincie periferiche latine e slave.
E sarebbe un'Austria più che mai legata alla Germania, grazie alla sua incrollabile maggioranza tedesco-magiara, dal ricordo della comune sconfitta, dal desiderio della rivincita comune. E il peso massimo di questo sistema tedesco-austro-magiaro graverebbe tutto verso il sud, contro l'Italia, la quale intercetterebbe a quei 90 milioni di uomini lo sbocco politico e militare sull'Adriatico. Staccate, invece, la Slovenia e la Croazia. dall'Austria e dalla Ungheria,
Un episodio della guerra franco-prussiana
Un episodio della guerra franco-prussiana
lasciandole libere di unirsi in federazione con le altre regioni sud-slave: l'antica Austria è finita per sempre.
L'Arciducato d'Austria e il Regno dei magiari diventano Stati interni come la Svizzera; la stessa unione fra Ungheria e Austria si rallenta, se all'Ungheria si fanno verso il Mar Nero, verso l'Egeo, verso l'Adriatico quelle stesse condizioni di libero transito doganale e ferroviario che fanno la Francia e 1'Italia alla Svizzera; una Boemia indipendente diventa possibile grazie a trattati doganali e convenzioni ferroviarie che affidino le ferrovie fra Trieste e la Boemia ad un'amministrazione consorziale italo-slavo-tedesco-czeca, nella quale gli interessi politici ed economici degli czechi sarebbero solidali con quelli dell'Italia, padrona di Trieste, e della Slavia, padrona dell'hinterland immediato. Ed è la intera politica orientale dell'Austria-Germania che fallisce; perchè l'Austria-Germania resta intercettata dall'Egeo da una massa di undici milioni di uomini, che non si lascerebbero facilmente schiacciare.
Quanto all'Italia, essa deve preferire di avere alle spalle di Trieste e dell'Istria una Serbia-Croazia-Slovenia, anziché l'Austria-Germania. Il nuovo Stato, infatti, sarebbe un vicino, non solo assai più debole dell'Austria-Germania e quindi meno pericoloso, ma trovandosi incastrato con la Slovenia fra le Provincie adriatiche dell'Italia e 1'Austria-Germania, sarà interessato, insieme all'Italia, a intercettare ai tedeschi la via dell'Adriatico.
I tedeschi non potrebbeio arrivare a Trieste e a Pola senza schiacciare il cuneo settentrionale del nuovo Stato. Cioè questo nuovo Stato sarebbe un naturale e permanente alleato dell'Italia. Se, invece, la Slovenia rimanesse legata all'Austria o divisa fra l'Austria e l'Italia, tutti gli altri Slavi del Sud non avrebbero più nessun interesse ad essere alleati permanenti dell'Italia; anzi si renderebbe possibile un accordo tedesco-slavo per ritogliere all'Italia le provincie adriatiche.
Per quel che riguarda poi gli alleati dell'Italia la formazione dell'unità serbo-croato-slovena è una necessità assoluta per l’Inghilterra; perché solamente quando la Germania-Austria sia intercettata dal mare Egeo, l'Inghilterra sarà sicura nel mediterraneo orientale. L'istmo di Suez l'Inghilterra lo difenderà, da ora in poi, contro la Germania, per mezzo della nuova Serbia, sulla linea della Drava.
E in questo l'Italia ha interessi concordi con l'Inghilterra, perché sulla linea della Drava si intercetta la via al germanesimo anche verso l'Adriatico.
Ora la buona fortuna dell'Italia vuole che una soluzione del problema sud-slavo propizia ai suoi interessi e a quelli delle potenze antigermaniche sia possibile grazie al movimento verso la unificazione nazionale con la Serbia, che specialmente negli ultimi vent'anni è andato sempre più intensificandosi in Slovenia e in Croazia.
Chi afferma che questo movimento non esiste, mentisce sapendo di mentire, perchè vuole lasciare unite la Croazia all’Austria, cioè vuol salvare l’Austria.
Con questo non diciamo che sloveni e croati sieno unanimi nel volersi staccare dall'Austria e unirsi alla Serbia. Neanche gli italiani erano unanimi nel 1860 a volere l'unità d'Italia.
In Croazia e Slovenia, al movimento irredentista si oppone il movimento trialista, il quale vorrebbe unificare tutti gli slavi del sud, o per lo meno quella parte di essi che è racchiusa oggi nei confini dell'Impero austriaco, in un regno che sia sottratto ad ogni sfruttamento tedesco o magiaro, ma sia associato con l'Austria e con 1'Ungheria in una nuova Austria federale, sotto lo scettro degli Absburgo, con la prevalenza dei croati cattolici sui serbi.
Questa soluzione trialista sarebbe un disastro per l'Italia, anche se l’Italia uscisse da questa guerra padrona di tutta la spiaggia adriatica occidentale. Nella Slavia del Sud austriaca prevarrebbero gli elementi cattolici, gesuiti, italofobi, con la protezione della Dinastia. E il nuovo impero austro-magiaro-slavo, padrone di tutto l'occidente balcanico meno le coste italiane, ed alleato della Germania, farebbe presto a riconquistare l'Adriatico.
E l'interesse dell'Italia - oltre che il suo dovere di nazione non ... prussiana - è di rafforzare gli elementi antiaustriaci contro gli elementi austriacanti, aiutando il costituirsi di uno Stato nazionale slavo, fuori dei domini di casa d’Austria, nel quale una dinastia ortodossa con l'aiuto della maggioranza ortodossa impedisca il predominio all'elemento cattolico, gesuitico ed austriacante, ancora forte in Croazia e Slovenia ed assicuri anche in questi paesi la prevalenza al partito nazionale.
Ciò posto, è evidente quale avrebbe dovuto essere, non appena intervenuta nella guerra europea, la politica dell' Italia, se vogliamo davvero smembrare l’Austria: riprendere la nostra magnifica tradizione mazziniana e garibaldina, affermarci alleati e vindici degli Slavi del sud contro i tedeschi e i magiari. E questa politica chiara, rettilinea, tradizionalmente italiana, sopratutto italiana, era una necessità urgente specialmente di fronte alle incertezze, che la lunghezza e le vicende della guerra non potevano non indurre negli slavi del sud, come in tutti i paesi belligeranti.
Siffatte incertezze han fatto nascere in Slovenia e in Croazia un terzo partito: il partito, diciamo così, dei politici; né risolutamente trialisti, né risolutamente irredentisti: vogliono solamente non essere più sfruttati dai tedeschi e dai magiari, ma temono che la guerra sostituisca nella Dalmazia al dominio austriaco il dominio italiano; perciò sono pronti a diventare trialisti, se vince l'Austria, purché garantisca loro l'autonomia completa, e a diventare irredentisti se vince l'Intesa, purché sieno sicuri di non essere dati in pasto agli italiani; e negoziano con la casa d'Austria, minacciandola di buttarsi con l'Intesa, se non garantisce loro l'autonomia dai tedeschi e dai magiari; negoziano con l'Intesa minacciando di buttarsi con l'Austria, se non li garantisce contro una conquista italiana della Dalmazia.
Ora il lavoro dell' Italia avrebbe dovuto consistere specialmente nel conciliarsi la corrente irredentista serbofila e la corrente intermedia. Occorreva offrire alla parte più ragionevole degli slavi un equo compremesso nella questione delle terre miste dell'Adriatico; occorreva impegnarsi al rispetto della uguaglianza giuridica e dei diritti scolastici delle minoranze slave, che dovranno passare nel nuovo confine italiano, esigendo garanzie analoghe per i gruppi italiani destinati a rimanere nei confini della nuova Serbia; occorreva insistere tanto più risolutamente nell'offrire il concorso dell'Italia alla formazione della nuova Slavia del sud, in quanto questo concorso avrebbe giustificato agli occhi di tutte le persone di buon senso, la rinunzia che chiedevamo a qualche frammento di territorio compattamente slavo del Goriziano orientale e all'Istria interna, e delle posizioni militari dell'Adriatico centrale, che sono necessarie alla sicurezza marittima dell'Italia.
Gaetano Salvemini.
Direttore dell'Unità
Professore nel R. Istituto di Studi Superiori di Firenze.
[...]
Arcangelo Ghisleri
L'Istria italiana e l’Alpi Giulie secondo Mazzini
Tutti sanno a memoria - poiché vennero ricordate e ripetute, dopo di noi, dai nostri avversari recentemente convertiti all'intesa Italo-Slava - le profetiche esortazioni di G. Mazzini propugnando l'alleanza colle popolazioni slave e la "missione propria dell'Italia" da lui tratteggiata in quel suo programma di "Politica Internazionale" del 1871, scritto pochi mesi innanzi la sua morte, che sembrò quasi il suo testamento politico. E le vedemmo citate anche dagli slavi contro le recenti pretese dei nostri quattro nazionalisti, nei libri od opuscoli di polemica da loro pubblicati all'estero. Dove potevano essi trovare infatti un apostolo più caldo ed esplicito delle loro attuali aspirazioni? Mazzini precorse di oltre cinquant'anni tutti coloro che, in Francia e in Inghilterra, durante l'attuale conflitto mondiale, porsero benevolo consenso alle affermazioni nazionaliste degli slavi meridionali. Mazzini previde e annunciò il moto slavo quando era appena in embrione, quando neppure gli slavi stessi ne avevano coscienza; egli parlò anche per loro, quando tutti tacevano.
Fino dal 1834, quando con pochi esuli italiani, polacchi e germanici, costituiva in Svizzera l'Associazione della Giovane Europa, egli già pensava alla emancipazione di tutti i popoli oppressi. Con particolare simpatia per i suoi grandi scrittori, seguendo i moti e le sofferenze della Polonia, forse unico in Europa, tese lo sguardo e l'orecchio a tutte le altre famiglie della razza slava, indagando con cuore aperto alle sofferenze di tutte le razze se nei canti popolari, nelle più neglette ed umili leggende o tradizioni, anche del popolo illirico, gli riuscisse di indovinare i segni e i presagi di un prossimo risorgimento.
Esule in Londra, celebrandosi dai polacchi il 25 luglio 1845 il 19. anniversario dei martiri russi impiccati a Pietroburgo, a dimostrare come, fino d'allora, in mente sua il moto polacco dovesse allargarsi e comprendere tutte le tribù slave, cosi motivava la lettera di adesione da lui scritta a nome degli italiani: "Credendo, che le famiglie slave sono chiamate a una grande missione ài ordinamento interno e d'incivilimento; Credendo, che la lega dei governi assoluti non può essere vinta se non dalla santa alleanza dei popoli; Credendo inoltre, che le famiglie slave dovranno un giorno affratellarsi specialmeìite all’Italia in una guerra al nemico comune, l’Austria; ecc.".
Molto prima adunque delle Lettere Slave del 1857, suo ultimo scritto del 1871, egli aveva profetizzata l'alleanza degli Slavi coll'Italia in una guerra comune contro l'Austria. Si comprende come questa sua gran fede nel loro avvento sulla scena della storia, sia oggi ricordata con reverenza e gratitudine dagli slavi del sud; ma questo omaggio cesserebbe di essere degno dell'Uomo grande che li amò, e dell'avvenire che li attende, se facessero delle parole del loro profeta un piccolo spediente avvocatesco di polemica contro di noi, ricusando di comprendere o rassegnandosi ad ignorare la superiore visione mazziniana di una comune giustizia internazionale, della quale era presupposto necessario l’integrale compimento dell’Unità Italiana.
Quando egli nel 1871 scriveva: "L'Istria è nostra. Ma da Fiume lungo la sponda dell'Adriatico, fino al fiume Boiano sui confini dell'Albania, scende una zona sulla quale, tra le reliquie delle nostre colonie, predomina 1'elemento slavo ... " riassumeva pensieri e convinzioni, che erano state dell'intera sua vita. Egli non scriveva a caso, mai: sentiva le responsabilità dell'apostolato, dell'educazione del popolo. Perciò le sue espressioni sono sempre state meditate. Quell'Istria è nostra - non è una opinione, che si possa accettare o respingere, ma una verità di fatto, che la storia, l'etnografìa, la geografia riveleranno a chiunque, sia pure straniero, vorrà esaminare la questione.
E quella frase: "tra le reliquie delle nostre Colonie" riferita agli italiani della Dalmazia, vi dà la chiave del suo pensiero, relativamente alle popolazioni analogamente stabilitesi, nel volger dei secoli, al di qua delle Alpi - che sono di origine slovena o croata: colonie esse pure, di altre stirpi, penetrate e fermatesi in terra a loro straniera. Ora, come Mazzini non ha mai pensato che le terre dell'opposta sponda adriatica (Liburniche, Dalmatiche, Albanesi) dovessero far parte dell' Italia - sebbene per sì lungo volger di tempi e di civiltà sottoposte alla influenza romana e veneta - così le alte valli dell' Isonzo, l'altipiano del Carso e la linea costiera dell'Istria, la quale completa e continua la curva naturale del golfo di Venezia, coll'interno territorio fino allo spartiversante delle Alpi Giulie, furono sempre da lui considerate appartenenti all'Italia. Invero, il confine orientale dell'Italia dei tempi di Augusto è il medesimo, che diciannove secoli dopo i profughi triestini e istriani invocavano nel loro indirizzo a Re Vittorio Emanuele II, quando egli partiva per il campo della guerra nel 1866.
E nessuno degli slavi della Dalmazia, della Slovenia o della Croazia, che abbia anche solo una superficiale conoscenza della nostra storia o della nostra letteratura può ignorare la perenne tradizione, che ha immedesimato l’idea di quel confine naturale con la concezione geografica, etnica e letteraria, che gli italiani di tutti i tempi si formarono della propria nazione.
Per limitarci a Mazzini, questa concezione si rivela sino dal primo documento della sua politica attività. Nella Istruzione generale agli affratellati nella Giovine Italia del 1831, fondata "al grande intento di restituire l'Italia in nazione di liberi ed eguali una, indipendente, sovrana, si legge al § 2: "L'Italia comprende: 1. L'Italia continentale e peninsulare fra il mare al sud, il cerchio superiore ddl'Alpi al nord, le bocche del Varo all'ovest e Trieste all’est; 2. Le Isole, dichiarate italiane dalla favella degli abitanti nativi, e destinate ad entrare, con una organizzazione amministrativa speciale, nell'unità politica italiana".
Si sa come questo concetto unitario della nostra antica nazionalità domini tutti i suoi pensieri e si ritrovi in tutti ì suoi scritti, così politici che letterari. Egli ha la coscienza di riassumere, facendone propaganda, il pensiero dei nostri grandi scrittori e patrioti di tutti i tempi.
"Dal Console Crescenzio a Giulio II, o ai nostri agitatori del XVI secolo - da Dante a Macchiavelli - voi, signore, non potete trovarne un solo dei nostri grandi, che non abbia adorato questa Italia che noi pure adoriamo, e per la quale i figli di un ammiraglio austriaco morirono l'anno passato". Queste parole scriveva al ministro Sir James Graham, nel 1844, dopo il fatto dei Fratelli Bandiera e la denunciata violazione delle sue lettere fieramente affermando i propositi degli esuli italiani.
"L'Italia vuol esser nazione. Essa sarà tale, avvenga che può. Come è vero che io scrivo queste parole, prima che il secolo si conchiuda, i protocolli del trattato di Vienna serviranno a ravvolgere - forse sulla via di quella città - le cartucce dei soldati italiani”. Tal'era la fede dell'apostolo!
E nel medesimo scritto, pubblicato in opuscolo per far conoscere le idee della Giovane Italia al pubblico inglese, soggiungeva:

"Bisogna rifare la carta d’Europa. Il sistema delle vecchie nazionalità monarchiche, del trattato di Vestfalia, è consunto. L'elemento popolare lo ha logorato e prepara un nuovo sistema. Nuove nazionalità sorgeranno in un tempo non remoto … , la Polonia risorgerà, nucleo d'ordinamento ai popoli slavi del settentrione la Grecia si estenderà, oltre i suoi confini attuali, alle provincie che hanno favella e tendenze comuni: l’Italia e gli slavi meridionali dissolveranno l’Impero d’Austria: - e dov'è il vostro uomo di Stato, che affissi l'occhio a questi segni già visibili sull'orizzonte?".

Quattro anni dopo, il 22 marzo del 1848, dettando da Parigi un indirizzo al governo repubblicano di Francia a nome dell'Associazione Nazionale Italiana, Mazzini ne riaffermava il fine scrivendo:

"Il suo scopo è quello che fu annunziato o preveduto da tutti i grandi italiani, da Arnaldo da Brescia fino a Macchiavelli, da Dante fino a Napoleone, che appartiene a voi come a noi: l’unificazione politica della penisola; l’emancipazione dal mare all’Alpi di questo suolo, dal quale esciva due volte la parola d'ordine dell'unità europea; la fondazione d'una nazionalità forte e compatta, che possa pel bene del mondo collocarsi nella confederazione dei popoli .... ".

Non si può adunque scindere dal pensiero di Giuseppe Mazzini questo o quel frammento, che torni comodo alle aspirazioni di una data nazionalità, chiudendo gli occhi o ricusando il consenso a ciò che egli scrisse in favore delle altre.
Per quanto riguarda l'Italia, fin dalla prima guerra d'indipendenza, cosi infaustamente condotta dal Re di Piemonte, segnalando gli errori e i pregiudizi, per cui essa doveva fallire: "La guerra regia, scriveva egli, sacrificò l' Italia; perché la diplomazia vietava Trieste, e non so quali stolte pretese della Confederazione Germanica vietavano i gioghi del Tirolo".
Bisognava invece

"correre all'Alpi, bombardare Trieste, d’onde l'Austria traeva sussidi; fare insorgere, suscitando la nazionalità slavo-illirica, i popoli della sponda orientale dell'adriatico: questo occorreva a vincere".

Così scriveva egli al Daily News nel 1855. E appena scoppiò la seconda guerra del 1859, ritornava al suo immutabile programma:

“E’ necessario che l’Austria cada .... Impari l'Europa, dalla manifestazione universale, che tra noi e l'Austria è guerra mortale, e che quella guerra non cesserà, se non quando l'ultimo soldato dell'Austria avrà rivalicata la nostra frontiera naturale, le Alpi” (vol. X, pag. 303).

Scoppiata la guerra del 1866, la trepidazione angosciosa del grande patriota traspare dagli articoli, che pubblicò nel Dovere alla vigilia e subito dopo della sfortunata campagna di quell'anno.
Il 23 giugno, riassumendo le sue costanti idee sulla "missione italiana nella vita internazionale" spiegava come "i fati dell'Impero d'Austria e dell'Impero Turco in Europa sono indissolubilmente connessi". In quella pagina meravigliosa i problemi dell'oggi sono lumeggiati con una evidenza, che mostra il suo grande intuito della realtà e della psicologia dei popoli. Dei due Imperi, entrambi negazione del diritto di nazionalità, così scriveva: "L'uno e l'altro mancano di unità di nazione e di popolo: sono due governi appoggiati da due amministrazioni e da due eserciti, sovrapposti a popolazioni straniere di razza, di lingua, d'aspirazioni, di capacità. (Sui trensasette-trentotto milioni componenti l’Impero d'Austria, sette milioni appena o poco più, collocati all'estremo foco occidentale dell'orbita, appartengono all'elemento dominatore teutonico; e al nord e al sud di quel foco e del fiume Raab, limite orientale di quel piccolo nucleo, fino all'ultima Transilvania, tutto appartiene a popolazioni straniere, slave, italiane, magyare, romane: Tcheko-Slave sono Boemia e Moravia: Italiano è il Veneto; Italiano il Trentino; Italiana l’Istria: Slovena la Carniola; Slovena parte della Carinzia; Slovena la Stiria; Slava la Croazia; Slava la Gallizia; Magyaro-Slovena 1'Ungheria; Magyaro-Romana la Transilvania; Italo-Slava la Dalmazia.
La tendenza di romani e serbi, smembrati fra i due Imperi, a costituirsi ciascuno in unità di Nazione e la tendenza degli illirici (croati, serbi, sloveni) ripartiti fra i due Imperi, a costituirsi in federazione, non possono tradursi infatti se non col dissolversi simultaneo delle due artificiali unità: Impero d'Austria e Turchia.
Una Confederazione Danubiana sostituita all’Impero d'Austria: una Confederazione Slavo-Ellenica sostituita all'Impero Turco in Europa: Costantinopoli città libera, centro anfìzionico della seconda Confederazione: alleanza tra le due Confederazioni e l'Italia: è quello l'avvenire. "La politica nazionale italiana deve consacrarsi a promuoverlo".
Ma lo scritto terminava con un presagio, che gli riempiva il core di amarezza:
"M'illudo forse a credere, che il Consiglio possa essere raccolto da chi dirìgerà la guerra imminente? No. Conosco gli uomini che oggi reggono e so che non sono da tanto .... Ma scrivo per un prepotente senso di dovere, ai giovani che oggi non possono che combattere sotto gli ordini altrui e saranno un giorno, quando io non vivrò, chiamati a esercitare parte più iniziatrice, e scrivo perché taluno fra gli uomini appartenenti ad altre nazionalità sappiano almeno quale sarebbe la guerra nostra, e come la loro libertà si immedesimi per noi con quella d’Italia".
I più intelligenti jugoslavi devono meditare e saper comprendere tutta la portata di queste parole. Il presentiménto, purtroppo, si avverò, e nell'art. del 25 agosto 1866 intitolato La Pace il grande Esule scriveva con penna sanguinante di amarezza e di sdegno contro l’infausta condotta di quella guerra, riaffermando ancora una volta, contro la diplomazia d'Europa, il programma italiano:
"La religione italiana di Dante ( ... a Pola presso del Quarnaro) - che Italia chiude e i suoi termini bagna - è la mia e dovrebbe esser quella di tutti noi. Le Alpi Giulie sono nostre come le Gamiche delle quali sono appendice. Il litorale Istriano è la parte orientale, il compimento del litorale Veneto. Nostro è l'alto Friuli. Per condizioni etnografiche, politiche, commerciali nostra è l’Istria: necessaria all’Italia come sono necessari i porti della Dalmazia agli Slavi meridionali. Nostra è Trieste; nostra è la Postoina Carsia, ora sottoposta amministrativamente a Lubiana. Da Cluverio a Napoleone, dall'utraeque (Venezia e Istria) pro una provincia habentur di Paolo Diacono, al “due gran montagne dividono l’Italia dai barbari; l'una addimandata monte Caldera, l'altra monte Maggiore nominata" di Leandro Alberti, geografi, storici, uomini politici e militari, assegnarono all'Italia i confini accennati dall'Alighieri e confermati dalle tradizioni e dalla favella. "Questa pace è rovina al paese. Trincerato al di qua delle Alpi; padrone dell'Istria, chiave della nostra frontiera orientale; padrone del povero tradito Trentino, chiave del Lombardo Veneto; padrone dei passi, che lo guidarono sempre tra noi, il nemico può spiare e afferrare a suo senno l'ora propizia, l'ora che le difficili condizioni d'Italia devono inevitabilmente apprestargli per piombarci sopra.
La pace qual è ci condanna alla necessità di una nuova guerra; e la guerra, non giova illuderci, troverà l'Austria più forte e compatta di prima".
E tracciando il programma futuro di questa guerra:
"Siano le alleanze dell'Italia coi popoli aggiogati forzatamente al carro dell'Austria, coi popoli che devono essi pure rivendicarsi libertà e indipendenza. Sia la nostra guerra la guerra delle nazioni. Levate in alto la bandiera non solamente d'un interesse locale ma d'un principio, del principio che da oltre mezzo secolo ispira o signoreggia ogni moto europeo. Scrivete sulla vostra le sante parole: Per noi e per voi; e agitatela, protetta da tutte le spade che possono snudarsi in Italia sugl'occhi ai boemi, ai serbi, ai romani, agli slavi meridionali, alle popolazioni bipartite fra l'Impero Austriaco e il Turco. Là stanno le sorti d’Europa e le vostre".z
Non v'è da aggiunger commenti.
Arcangelo Ghisleri

I.E.Torsiello (**), Gli ultimi giorni di Fiume dannuziana, 1921
Prefazione
Due parole ai lettori, per dir loro che si tratta di un libro senza alcuna pretesa.
Ho voluto raccogliere in questo volume le corrispondenze da me inviate, durante la tragica settimana di Fiume, al Resto del Carlino, da Abbazia e da Fiume. Tanto le corrispondenze da Abbazia, quanto quelle da Fiume, risentono dell’ambiente dal quale furono ispirate: nelle prime è la ricerca difficile e affannosa della notizia, la fretta di arrivar presto, il sapere, diremo così, (ufficioso), delle fonti cui necessariamente il giornalista doveva attingere al di qua del blocco; nelle seconde, è descrizione delle condizioni morali e materiali in cui trovai la città di Fiume nel gennaio 1921 - descrizioni impari alla grandiosità degli eventi, dei quali non potei che constatare le conseguenze.
Per dare però al lettore una limpida idea di quelle che furono realmente le giornate fiumane dal 24 al 31 dicembre 1920, ho voluto riportare qui l’interessante Diario di un fiumano, dovuto alla penna del prof. Enrico Burich, corrispondente da Fiume del Resto del Carlino, ingegno chiaro ed equilibrato, che quelle pagine aveva scritto nelle oscure giornate di battaglia con la speranza di poterle un giorno rimettere al suo giornale.
Il ritardo col quale esse giunsero a Bologna, ne impedì la tempestiva pubblicazione. Qui riprodotte, servono mirabilmente a completare il quadro dello stato d'animo fiumano durante le terribili giornate della resistenza. è quella che, certo, maggiormente interesserà i lettori, e specialmente gli ammiratori di Gabriele d'Annunzio. In essa, infatti, ho raccolto gli otto proclami dettati dal Poeta durante la sua settimana di passione; i nove bollettini di guerra della Reggenza del Camaro, e tutti i bandi del Comando di Fiume destinati a mettere in istato di difesa e di resistenza la “Città olocausta”.
Tanto la prima, quanto la seconda parte, contengono documenti che saranno di notevole utilità per chi vorrà accingersi, un giorno, alla compilazione della storia del martirio di Fiume.
I. E. Torsiello

** Torsiello Italo Ernesto, vivace giornalista romano nato nel 1888, residente a Bologna. Ha pubblicato Gli ultimi giorni di Fiume Dannunziana; Il tramonto delle Baronie Rosse. Entrambi ottennero un lusinghiero successo; del secondo si stamparono 10.000 copie. Fu redattore della Ragione, del Messaggero, del Secolo, poi per nove anni del Resto del Carlino. Attualmente la parte della redazione torinese del Mondo. Ha scritto una enorme quantità di articoli, note, interviste, resoconti ecc. Fu il primo giornalista ad entrare in Fiume assediata, forzando il blocco del gen. Caviglia ed eludendo la vigilanza dei legionari, durante le tragiche giornate del Natale 1920. Medaglia d'argento al valor militare, conseguita alla trincea dei Razzi, croce di guerra; quattro anni di guerra in fanteria con la Brigata Sassari e nei mitraglieri, capitano di complemento. (da Teodoro Rovito, Letterati e giornalisti italiani contemporanei, 1922)

L’Astrolabio n. 10 del 1968
Ricordo di Traquandi
La scuola del ‘non mollare’
di Giorgio Spini
Ad un anno di distanza dal più caro dei suoi amici, Ernesto Rossi, anche Nello Traquandi ci ha lasciato. A nessuno si poteva attagliare la definizione data un giorno di Matteotti da Piero Gobetti - “un eroe tutto prosa” - meglio che a questo popolano fiorentino, che in vita sua non aveva fatto che combattere in prima linea per la giustizia e la libertà e mai aveva smentito quella sua linea di semplicità, aborrente persino dall'ombra della retorica, e di virile concretezza.
Aveva incominciato la sua lotta, prima nelle file dell'interventismo democratico e repubblicano, poi sul fronte della I Guerra Mondiale, dove era andato volontario, alterando la sua data di nascita per nascondere l'età nncora adolescente, e da cui era tornato ferito in combattimento. E da allora non aveva più smobilitato: con Gaetano Salvemini, con Ernesto Rossi, con Carlo Rosselli, aveva partecipato sino dagli inizi al movimento antifascista, nell'Italia Libera, nel gruppo del Non Mollare!, infine in Giustizia e Libertà, sinchè nel 1930 era stato arrestato e condannato dal Tribunale Speciale.
Dopo tredici anni di carcere e di confino, appena tornato in libertà dopo il 25 luglio 1943, aveva ripreso il suo posto nel partito d'Azione clandestino, partecipando alla esistenza - come sempre - nei compiti di maggiore rischio. Aveva un fratello, Fernando, cui era attaccatissimo: e Fernando non aveva mancato un giorno solo di confortarlo con una sua lettera durante i tredici lunghi anni della reclusione.
I fascisti, infuriati per non essere riusciti ad acciuffare Nello, gli assassinarono questo fratello. Chiunque altro sarebbe stato stroncato da un tale colpo. Traquandi non abbandonò neanche allora la lotta e la continuò fino al giorno della Liberazione. Dopo di che, invece di presentare il conto delle benemerenze, si mise di nuovo a disposizione della sua città, come membro dell'amministrazione comunale di CLN accettando il compito più ingrato e prosaico, che vi potesse essere in quei giorni di fame e di desolazione: l'assessorato all'annona. Una lezione di coerenza. Ma di questa vita eroica di Nello, ormai, tutti i giornali hanno parlato. Sarebbe inutile tornarvi sopra; e credo che neanche Nello lo vorrebbe, se fosse ancora qui con noi. Scuoterebbe la sua grossa testa bonariamente ed uscirebbe in una di quelle sue scanzonate frasi ironiche alla fiorentina, con cui si sottraeva sempre al pericolo di un'ammirazione. Vorrei ricordare perciò, in modo particolare, qualcosa di cui si è parlato un po' troppo poco, in questi giorni: la lezione di inflessibile coerenza politica, che egli ci ha lasciato; la lucidità con cui seppe orientarsi, non soltanto negli anni ruggenti della lotta, ma altresì negli anni grigi, nebbiosi, che tennero dietro alla fine della Resistenza.
Nello non si atteggiò mai ad “uomo politico”; non scelse mai per sé il posto in prima fila nel teatro della vita pubblica; scelse quello dell'organizzatore, cioè un ruolo altrettanto indispensabile, quanto poco vistoso. Eppure, come vide giusto nella politica italiana di questi ultimi venti anni: e come seppe mantenere una linea precisa, assai meglio di tanti che vanno per la maggiore come uomini politici! Si era votato da giovane a Giustizia e Libertà, cioè al socialismo liberale alla maniera di Gaetano Salvemini e di Carlo Rosselli.
All'indomani della Liberazione, nel partito d'Azione stesso, ci fu il grande sbandamento, fra chi voleva andare a destra per non dirsi socialista e chi voleva andare a sinistra per non distanziarsi dal comunismo, che allora voleva dire soprattutto Stalin.
Il modesto Nello Traquandi. per quanto potesse dolergli staccarsi da cari e provati compagni di lotta, non si lasciò smuovere né a destra, né a sinistra. Fu con quella parte del partito d'Azione che subito si dichiarò socialista; al tempo stesso egli non si lasciò incantare da nessun sofisma, che comunque volesse passar sopra al principio della libertà, sia pure in nome della causa proletaria. Tanto meno perdette la bussola negli anni duri che seguirono la fine del partito d'Azione; gli anni della “guerra fredda”, in cui tanti finirono per perderla, chi accecato da un rabido anti-comunismo e chi attratto dal richiamo di una politica di “Fronte popolare”. Restò tetragono sulle posizioni salveminiane e rosselliane, magari con un pugno di compagni soltanto, magari in precarie formazioni politiche minoritarie, da Azione Socialista Giustizia e Libertà sino ad Unità Popolare. Furono anni sfibranti di un lavoro oscuro, apparentemente condannato a restare incompreso e infecondo di resultati. Ma a Nello non interessavano tanto i resultati. in senso pragmatico: interessava salvare la anima e non ammainare la bandiera. E se una posizione politica, che continuasse ad affermare l'indissolubilità del socialismo dalla libertà continuò comunque ad esistere in Italia, molto lo si dovette proprio a lui, Nello.
Giacché era Nello, con la sua quasi incredibile pazienza e tenacia, con il suo buon senso popolano e la sua inesauribile capacità organizzativa, ad offrire ogni volta ai compagni di lotta politica la possibilità materiale di riannodare le file scompigliate dopo ogni rovescio: era su lui che si poteva contare in ogni momento per trovare una sede, riflettere insieme un minimo di apparato, rannodare i contatti. Era Nello, sempre brontolone e sempre con la battuta scherzosa pronta, a rimetterci su di morale, quando ci sembrava di non poterne davvero più di quella porca vitaccia.
Senza farci mai la predica, ci faceva vergognare con la sua sola presenza di ogni tentazione di desistere, che ci potesse assalire; ci faceva capire silenziosamente tutto il valore morale delle piccole aride cose, di cui pure ha bisogno la democrazia per funzionare. In tutta onestà, non credo che ce l'avremmo fatta senza di lui.
E del resto, quanti con un nome più illustre del suo e con un vanto di acume politico, quale egli non pretese mai di accampare, finirono con lo sbandarsi, di qua o di là, o più semplicemente per tornarsene a casa? Tagliato nel macigno. Ma altri potevano smobilitare: non il nostro Nello. Neanche quando finì il tempo dei gruppi minoritari di protesta, con quel tanto di romanticamente eccitante che c'è comunque nel sentirsi in pochi e buoni, e venne il tempo del grosso partito di massa, con la confluenza di Unità Popolare nel Partito Socialista Italiano. La tentazione stavolta poteva essere diversa, cioè quella di cullarsi in quel tanto di routine che c'è inevitabilmente in un partito di massa; di adagiarsi comunque in una vita più comoda, almeno dal punto di vista morale.
E chi, onestamente, avrebbe potuto rimproverare a quest'uomo ormai avanti negli anni, se avesse accettato in qualche modo una decorosa posizione di pensionato politico, dopo tante travagliate vicende? Ma Nello non era fatto per andare in pensione; gli fu naturale, come se si trattasse della cosa più ovvia del mondo, prendere anche dentro il partito di massa la posizione più scomoda, cioè quella di una minoranza critica, intransigente sul binomio Giustizia e Libertà. E come rifiutò di lasciarsi trascinare, in nome della libertà, in una polemica con gli aspetti autoritari del comunismo tanto da mettere la sordina all’istanza della giustizia, così rifiutò di lasciarsi trascinare a qualunque cosa che potesse, anche per lontana ombra, apparire come una connivenza con sistemi autoritari, sia pure nel nome della giustizia.
Di essere un uomo dai nervi di acciaio lo aveva dimostrato per tanti anni, davanti al pericolo fisico, nella galera, nella cospirazione. Continuava a dimostrarlo, in tutta umiltà e semplicità, anche alle soglie della vecchiaia. Sembrava tagliato nel macigno, come le bigie pietre di cui son fatte le vecchie mura di Firenze medioevale.
Da quelle sue idee, nette, squadrate, senza compromessi, nessuno fu buono a smuoverlo. E' crollato, da un momento all'altro, come una vecchia quercia colpita da un fulmine. Ma il suo viso era sereno, lì nella bara avvolta nella bandiera rossa con la spada fiammeggiante di Giustizia e Libertà, come sereno era sempre stato, anche nei momenti più duri della prova. E tutti sapevamo che quella sua serenità derivava dal sentirsi in pace con la propria coscienza, per non avere mai deflettuto dai suoi ideali, mai averli traditi, sia pure minimamente, per un momento di stanchezza od un eccesso di impazienza.
Come Salvemini, appunto, vicino a cui dormirà da ora in poi, lassù a Trespiano, accanto ai Rosselli e ad Ernesto Rossi. Sentirsi in pace con la propria coscienza: una cosa così semplice, in apparenza, e così difficile in pratica. Ma in questo consiste la lezione profonda della vita di Nello Traquandi: e per noi che gli siamo vissuti accanto durante tanti anni sarà una lezione che non ci sarà possibile più dimenticare. Sarà una forza che ci ritroveremo dentro, ogni volta che ci assalirà la tentazione di una smobilitazione o di uno sbandamento.

Cultura e politica, a cura di Luca Chiti, Torino 1972
Gaetano Salvemini. Nacque a Molfetta, in provincia di Bari, l’8 settembre 1873, da famiglia di piccoli proprietari terrieri. Compiuti gli studi secondari nella città natale, ottenne una borsa di studio per l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Qui ebbe, tra gli altri, come maestro il meridionalista e studioso di storia medievale Pasquale Villari. Dopo la laurea, il Salvemini pubblicò quasi subito la sua tesi su La dignità cavalleresca nel comune di Firenze (1896) e, tre anni più tardi, il volume Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295. Iscrittosi al partito socialista collaborò, a cominciare dal 1897, alla rivista Critica Sociale di Filippo Turati. Nel 1901 si trasferì a Messina dove aveva ottenuto la cattedra universitaria di Storia Medievale e Moderna, e sempre in quell’anno cominciò ad occuparsi da vicino dei problem della scuola italiana. Nel 1905 pubblicò La rivoluzione francese, e fu chiamato a far parte di una commissione di studio sulla situazione degli studi secondari nelle scuole del paese. Dimessosi dalla commissione nel 1907, pubblicò l’anno successivo, in collaborazione con Alfredo Galletti, il volume La riforma della scuola media. Ma il 1908 è anche l’anno del terribile terremoto di Messina e di Reggio, in cui il Salvemini perse la moglie e i cinque figli. Decise allora di trasferirsi a Firenze, dove venne a contatto degli intellettuali vocianie si fece collaboratore assiduo della loro rivista. Nel 1909, in occasione delle elezioni politiche generali, si recò a Gioia del Colle, dove poté osservare da vicino i metodi elettorali del Giolitti. Da questa esperienza nascerà nel 1910 il volume Il ministro della malavita. Intanto all'interno del partito socialista il Salvemini era venuto portando avanti tre esigenze fondamentali: la lotta per la soluzione del problema meridionale, quella per la riforma dell’istruzione in Italia, quella per l’attuazione del suffragio universale. Nell’estate del 1911 tuttavia il Salvemini abbandonò il partito di cui non condivideva più la linea politica ufficiale, e alla fine dell’anno lasciò anche La Voce di cui rifiutò decisamente la posizione presa dopo la dichiarazione di guerra del governo italiano alla Turchia e l’inizio della conquista della Libia. Fondò dunque L’Unità il cui primo numero uscì il 16 dicembre 1911, e sulle cui pagine egli ebbe la possibilità di continuare a bandire le proprie idee.
Nel 1914 il Salvemini prese posizione a favore dell’intervento in guerra dell’Italia a fianco della Triplice Intesa, considerando la guerra così intrapresa come una guerra per l’affermazione nel mondo della democrazia.
Nel 1915 partì volontario per il fronte, ma venne congedato appena quattro mesi dopo perché ammalatosi gravemente.
Nel 1919 il Salvemini tentò di trasformare il movimento intellettuale sorto attorno a L’Unità in un vero e proprio movimento politico, ma non ebbe successo. Presentatosi contemporaneamente in un collegio pugliese come candidato elettorale in una lista di ex-combattenti, fu eletto, anche se non si trovò poi a suo agio in un gruppo che raccoglieva soprattutto elementi nazionalistici. Dal 1922 al 1923 tenne a Londra un corso sulla Politica estera italiana dal 1871 al 1913 (sarà pubblicato nel 1944 in un volume dal titolo simile).
Nel 1922 erano intanto usciti il volume Il Partito popolare e la questione romana e Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano. Con l’affermarsi del fascismo in Italia prese una posizione nettamente avversa al regime: collaborò anche al giornale clandestino Non mollare, contribuendo di persona alla sua diffusione. Ma l’8 giugno 1925 venne arrestato e imprigionato. Avendo beneficiato dopo qualche tempo di una amnistia, decise di fuggire all’estero, aiutato nel progetto da Federico Chabod e da Alessandro Passerin d’Entrèves. Si stabilì dunque in Inghilterra dove collaborò al quotidiano Manchester Guardian, e dove si dette da fare per far conoscere all’opinione pubblica la vera realtà dell’Italia fascista (per questo suo comportamento nel 1926 sarà privato dalle autorità fasciste della cittadinanza italiana).
Prese contemporaneamente contatto con i gruppi di “Giustizia e Libertà” dei fratelli Rosselli. Viaggiò poi negli Stati Uniti dove pubblicò il volume The fascist dictatorship in Italy. Dal 1933 al 1949 Salvemini si stabilì a New York, e ottenne la cattedra di Storia della Civiltà Italiana all’Università di Harvard.
Del 1936 è il volume Under the axe of Fascism.
Nel 1940 fondò la “Mazzini Society », che si proponeva di condurre negli Stati Uniti una propaganda antifascista. Tornato in Italia nel 1949 riprese la sua attività universitaria a Firenze, che abbandonò nel 1953 per ragioni di salute. Collaborò anche a numerose riviste tra cui Critica Sociale, Il Mondo, Il Ponte.
Nel 1955 pubblicò gli Scritti sulla questione meridionale.
Morì a Sorrento il 6 settembre 1957.

Cultura e politica, a cura di Luca Chiti, Torino 1972
Cronologia
1899 Il primo ministro italiano, generale Luigi Pelloux, cedendo alle pressioni dell'estrema destra e dell’ambiente di corte, presenta all’approvazione della camera dei deputati una serie di leggi tendenti ad esautorare il parlamento e ad aumentare il potere del re Umberto.
Di fronte a questo pericolo la sinistra liberale, guidata da Giolitti e Zanardelli, trova un'unità di intenti e di azione con l’estrema sinistra, socialista, radicale e repubblicana. Si arriva così, attraverso l’uso della tattica ostruzionistica, a bloccare quasi del tutto i lavori parlamentari. Il Pelloux è costretto a sciogliere la camera e ad indire nuove elezioni.
1900 - I risultati della consultazione elettorale del 3 giugno sconfessano clamorosamente la linea del governo e liquidano definitivamente ogni pericolo di involuzione autoritaria dello stato italiano.
Il 24 giugno Umberto I affida il mandato parlamentare a Giuseppe Saracco, che ritira immediatamente i progetti di legge del governo Pelloux e inizia un’opera di riconciliazione nazionale.
Il 29 luglio Umberto I è ucciso a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci, che intende così vendicare i morti della strage di Milano del maggio 1898, per la quale il sovrano aveva addirittura decorato il maggiore responsabile, il generale Bava-Beccaris. A Umberto I succede, sul trono, Vittorio Emanuele III.
1901 - Il 15 febbraio Giuseppe Zanardelli sostituisce il Saracco al governo della nazione. A Giovanni Giolitti è affidato il ministero degli interni. Per l’Italia inizia un nuovo corso politico. Sin qui, nello scontro fra le opposte forze sociali, il governo italiano si era sempre schierato dalla parte del padronato, ora invece intende mantenersi in una posizione di equilibrio e di imparzialità, presentandosi tutt’al più come mediatore fra le parti.
Questo nuovo atteggiamento consente alle forze del proletariato, già in buona parte organizzate nelle file del partito socialista, una libertà di movimento e un peso politico nuovi nella vita della nazione. Si verifica un’ondata di scioperi che impaurisce le frange più conservatrici della borghesia italiana, e che soprattutto preoccupa i grandi industriali del paese che temono battute di arresto di quel processo di modernizzazione delle strutture produttive già da qualche tempo in atto.
Essi vedono nell’atteggiamento di Zanardelli e di Giolitti un pericoloso cedimento nei confronti di quelle forze che potrebbero mettere in dubbio il potere economico e politico dei grandi industriali; si pongono perciò in una situazione di allarme e chiamano a raccolta tutte le loro forze per modificare la direzione del processo in atto: ci si serve anche delle forze della cultura, monopolio quasi esclusivo della piccola e media borghesia.
1903 - Il 4 gennaio esce a Firenze il primo numero di Leonardo, la rivista di Prezzolini e Papini.
Il 3 novembre Giovanni Giolitti sostituisce lo Zanardelli alla presidenza del consiglio, accentuando ulteriormente la linea politica già sperimentata nel periodo precedente.
Il 29 novembre, sempre a Firenze, esce il primo numero de Il Regno, la rivista nazionalista di Enrico Corradini.
1904 - Nel settembre viene proclamato uno sciopero generale nazionale di cinque giorni. Di fronte a un tale avvenimento Giolitti giudica che l’equilibrio di forze all’interno del paese si sia spostato troppo verso la sinistra.
Scioglie dunque il parlamento e indice per il novembre nuove elezioni con Io scopo di limitare la forza dei radicali, dei repubblicani e dei socialisti. Riesce nel suo intento rafforzando all’interno del parlamento lo schieramento moderato-conservatore.
1905 - Per permettere, dopo la tempesta degli ultimi mesi dell’anno precedente, che le acque si plachino, Giolitti crede opportuno uscire per qualche tempo dal centro della vita politica. Lo sostituisce (dopo un brevissimo intermezzo di Tommaso Tittoni) Alessandro Fortis, suo uomo di fiducia, attraverso il quale egli continua ad essere l’arbitro di tutta la situazione.
La mossa di Giolitti, dopo lo sciopero generale dell’anno precedente, ha comunque fatto comprendere alla borghesia italiana il senso vero della sua politica che non mette in alcun dubbio la posizione di potere delle classi che sin qui lo hanno detenuto, e che anzi riesce a fermare ed eliminare in tempo tendenze pericolose.
L'avversione delle forze del grande capitalismo nei confronti di Giolitti si attenua.
1906 - Dopo tre mesi e mezzo di governo di Sidney Sonnino, Giolitti torna al potere. Questa volta egli riesce ad ottenere la piena collaborazione di tutte le forze del paese, sia di destra che di sinistra. L'Italia fa in tutti i campi un notevole balzo in avanti, anche se spesso di questo sviluppo beneficano soprattutto le zone centro-settentrionali della penisola, e quasi sempre il mezzogiorno ne paga le spese restando in una situazione di quasi totale immobilismo. Il 25 dicembre esce l'ultimo numero de Il Regno.
1907 - Nell’agosto esce l’ultimo numero di Leonardo, da qualche tempo trasformatosi in rivista quasi esclusivamente filosofica.
1908 - Il 20 dicembre esce il primo numero de La Voce, diretta da Giuseppe Prezzolini.
1909 - Da una nuova consultazione elettorale le sinistre escono notevolmente rafforzate. Ma in seguito a un loro rifiuto di appoggiare un progetto di riforma tributaria, il 10 dicembre il Giolitti lascia la carica di presidente del consiglio (gli succede prima Sidney Sonnino, poi Luigi Luzzatti).
1911 - Il 30 marzo Giolitti riprende in mano le redini del governo.
Dopo essersi assicurato, attraverso una serie di trattative diplomatiche, una situazione intemazionale favorevole, Giolitti comincia ad agitare all'interno del paese il problema della conquista italiana della Libia. Egli spera così di poter raggiungere due obiettivi: risolvere in qualche misura l’annoso problema dell’emigrazione; attirare nella sua orbita le forze del nazionalismo che potevano vedere nella decisione di conquistare la Libia una concessione fatta alle tesi da esse sostenute. Ma l'atteggiamento di Giolitti provoca la cessazione di quel rapporto di più o meno velata collaborazione che si era stabilito fra lui ed i socialisti.
Sulle pagine de La Voce Gaetano Salvemini conduce dall’estate una aspra e decisa polemica contro le intenzioni del governo.
Il 29 settembre l’Italia dichiara guerra alla Turchia ed occupa immediatamente il porto di Tripoli. I socialisti sono contrari all’impresa.
Su La Voce compare un articolo in cui si dichiara di voler abbandonare ogni precedente atteggiamento di ostilità alla politica governativa.
Salvemini abbandona la rivista e fa uscire il 16 dicembre il primo numero de L’Unità dove continua la battaglia antitripolina.
1913 - Il 1 gennaio esce a Firenze il primo numero di Lacerba, di Papini e Soffici. Il 26 ottobre si tengono in Italia le prime elezioni a suffragio universale maschile.
Dopo la rottura coi socialisti Giolitti è alla ricerca di un forte blocco conservatore da contrapporre alla pressione delle forze della sinistra. Ma le elezioni indeboliscono lo schieramento giolittiano (che mantiene comunque la maggioranza in parlamento) rafforzando proprio l’opposizione di sinistra. La paura della grossa borghesia industriale comincia a rinascere, e comincia ad incrinarsi la fiducia nel sistema politico giolittiano.
1914 - Il 13 gennaio esce il primo numero di una nuova Voce, diretta ancora da Giuseppe Prezzolini, che reca il sottotitolo di rivista dell’idealismo militante. Il 19 marzo Giolitti lascia il governo.
Il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia: è l’inizio della prima guerra mondiale.
Il 3 agosto il presidente del consiglio Antonio Salandra proclama la neutralità italiana.
Il 15 agosto Lacerba si trasforma in foglio politico interventista.
Col numero del 28 agosto La Voce, per bocca del suo direttore, prende anch’essa un atteggiamento decisamente interventista, avvicinandosi alle posizioni dei nazionalisti che dal 1911 hanno il loro organo ufficiale nell’Idea Nazionale.
Lo stesso processo subisce L’Unità che, contrapponendosi anche alla posizione del partito socialista (alle cui file, d’altra parte, il Salvemini non appartiene più dal 1911), si dichiara disposta a sopportare la neutralità italiana solo se essa rappresenta un termine necessario di passaggio verso una lotta contro gli Imperi Centrali per la causa delle nazioni e della democrazia.
Il 13 dicembre esce il primo numero de La Voce diretta da Giuseppe De Robertis, mentre Prezzolini abbandona il posto tenuto, sia pure con qualche interruzione, fin dal 1908. Da questo momento in poi la rivista diviene un foglio quasi esclusivamente letterario.
1915 - Il 26 aprile il governo Salandra sottoscrive segretamente il Patto di Londra, e si impegna a far scendere L’Italia in guerra contro l’Austria-Ungheria nel termine massimo di un mese.
Il 3 maggio viene denunciata la Triplice Alleanza.
Benché la maggioranza parlamentare sia ancora neutralista e veda in Giolitti l’uomo che meglio ne rappresenta le istanze, la sua volontà, con l’appoggio della corona, del governo e della piazza, viene scavalcata. Il parlamento viene posto di fronte al fatto compiuto.
Vittorio Emanuele III conferma Salandra capo del governo anche se si trova in posizione chiaramente minoritaria. Manifestazioni antigiolittiane si organizzano in ogni luogo d’Italia.
Il 20 maggio sono votati i pieni poteri al Salandra con l’opposizione dei soli socialisti.
Il 22 maggio esce l’ultimo numero di Lacerba in cui si inneggia alla vittoria dell'interventismo.
Il 24 maggio l’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria.
L’Unità interrompe le sue pubblicazioni (riprenderanno solo l’8 dicembre 1916 a Roma).
1916 - Il 31 dicembre esce l’ultimo numero de La Voce.
1920 - Il 30 dicembre esce l’ultimo numero de L’Unità.

Cultura e politica, a cura di Luca Chiti, Torino 1972
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Riforma elettorale e questione meridionale
Esce su L’Unità numero 18 del 13 aprile 1912. L’autore è Gaetano Salvemini, che sta conducendo in questo periodo una decisa battaglia per il suffragio universale, legandola a quella più ampia per la soluzione dei problemi meridionali (cfr. anche lo scritto del Salvemini citato alla nota 28, p. 66, di Da Giolitti a Sonnino).
Brigantaggio e tumulti sporadici.
Contro la duplice oppressione, di cui sono stati vittime in questi cinquantanni di unità politica da parte dei “galantuomini” locali e dell’industrialismo settentrionale, i “cafoni” meridionali hanno reagito, sempre, come meglio o come peggio potevano.
Subito dopo il 1860 si dettero al brigantaggio: sintomo impressionante del malessere profondo che affaticava il Mezzodì, e nello stesso tempo indizio caratteristico del vantaggio che si potrebbe ricavare, quando ne fossero bene utilizzate le forze, da questa popolazione campagnuola del Sud, che senza organizzazione, senza capi, abbandonata a sé, tenne in iscacco, or è mezzo secolo, per alcuni anni tanta parte dell’esercito italiano.
Costruite le prime ferrovie, tracciate le prime strade, distrutti molti boschi, organizzata alla meglio la nuova macchina dello Stato e resa più sistematica e perciò più efficace la repressione del manutengolismo, venute così a mancare le condizioni favorevoli al brigantaggio - questo, come movimento di masse, è andato via via estinguendosi, e non si perpetua più che in pochi luoghi più arretrati nella forma di latitanza e di rivolta individuale.
Ma, soffocato il brigantaggio, la reazione della classe maltrattata ha preso un'altra forma: quella dei tumulti sporadici: l’assalto al municipio, il bruciamento del casotto daziario, la dimostrazione al grido di abbasso le tasse.
Nell’inverno 1893-1894 gli effetti della tariffa doganale protezionista del 1887 e delle nuove imposte create dal 1882 in poi, l’acuirsi rapido della crisi agrumaria e zolfifera, e i primi tentativi di propaganda socialista, combinandosi insieme, generalizzarono i tumulti a tutta la Sicilia. Fu una grande crisi, soffocata la quale, è ricominciata la serie ininterrotta dei tumulti e delle stragi alla spicciolata.
Quanti contadini sono stati finora così ammazzati? Farebbe opera utile assai quel giovane, che dedicasse qualche mese di lavoro a fare sui giornali quotidiani lo spoglio dei tumulti e delle stragi avvenute dal 1860 ad oggi nel Mezzogiorno. Si potrebbe mettere insieme un calendario assai triste, in cui ogni giorno sarebbe segnato da uomini, donne, bambini ammazzati. La somma dei morti e dei feriti eguaglierebbe quella di una grande battaglia. Fatta la divisione dei morti e dei feriti fra i 200 deputati meridionali, si troverebbe per ciascun deputato una media assai elevata.
L’emigrazione.
Finalmente, è venuta un'altra forma di reazione, e un principio di salvezza: la emigrazione.
Di fronte alla quale sarebbe funesto errore illudersi che ormai non occorra più preoccuparsi della questione meridionale, perché c'è l'emigrazione che ne va sciogliendo, a poco a poco, gradatamente, i nodi. Delle molteplici, profonde malattie, che affliggono la società meridionale – disboscamento, malaria, mancanza di capitali, ignoranza e immoralità della classe dominante, analfabetismo della classe lavoratrice, concorso attivo e sistematico dei funzionari dello Stato alla corruzione della classe dominante e alla oppressione della classe dominata - la emigrazione è un effetto non è il rimedio: è il mezzo che hanno trovato i contadini meridionali per sottrarsi al male, non è la fine del male.
Senza dubbio la emigrazione corregge alcuni di quei malanni, dal cui intreccio nasce la così detta questione meridionale: spinge, per esempio, i contadini verso la scuola; li sveltisce intellettualmente al contatto di civiltà superiori; produce nel Mezzogiorno un'accumulazione notevole di capitali.
Ma non rimboschisce i terreni rovinati; non elimina la malaria; non corregge i nostri soffocanti sistemi tributari e doganali; non rende migliori le classi dirigenti, ché anzi le immiserisce e ne intensifica il pervertimento. E d'altra parte è accompagnata da qualche fenomeno tutt’altro che benefico, come il rallentarsi dei vincoli familiari.
La stessa accumulazione di capitali, prodotta dall'emigrazione, minaccia di riescir vana pel Mezzogiorno, se lo Stato non smette di assorbire questi capitali e riversarli, per mezzo della Cassa depositi e prestiti, nel Nord, per opere pubbliche o non urgenti, o addirittura inutili, o pagate con prezzi elettorali, o che se sono richieste dalla maggiore civiltà dell’Italia settentrionale non è giusto sieno fatte coi capitali dell’Italia meridionale. E anche quando la errata politica dei lavori pubblici non svia dal Mezzogiorno i capitali che il Mezzogiorno accumula e che al risorgimento del Mezzogiorno sono necessari, il risparmio è troppo spesso sottratto all'emigrante dalla usura fondiaria esercitata dai vecchi proprietari improduttivi. Oppure il contadino, non trovando convenienza ad impiegarlo nell’agricoltura, dissanguata dalle imposte e soffocata dal protezionismo industriale, lo sperpera in futili tentativi commerciali o in ispese voluttuarie.
Oggi, più che mai, di fronte all’emigrazione, è necessario un serio, intenso, sistematico lavoro per risolvere il problema meridionale, cioè per creare nel Sud uno stato economico e morale, in cui la emigrazione diventi alla sua volta un elemento benefico per accelerare la soluzione del problema meridionale.
Il nodo del problema meridionale.
Ma è oggi possibile un movimento energico, costante, organico, il quale conduca al rinnovamento economico, sociale, morale di tanta parte d’Italia? Da quali uomini, da quali classi, questo movimento può essere promosso e sorretto?
In generale gli studiosi del problema meridionale questa domanda o non se la pongono, o rispondono senz’altro invocando l’azione del Governo, dello Stato.
Ma che cosa sono il Governo, lo Stato? Essi non sono entità superiori agli uomini e fornite di attitudini diverse da quelle di quei dati uomini, i quali in un dato momento esercitano la sovranità o attendono alla pubblica amministrazione. Lo Stato, il Governo, oggi, in Italia, sono formati: 1) dagli elettori, o meglio dalla maggioranza degli elettori; 2) dai deputati, o meglio dalla maggioranza dei deputati; 3) dai ministri; 4) dai funzionari dei ministeri; 5) dai funzionari governativi sparsi per le provincie; 6) dagli amministratori elettivi e dai funzionari degli enti locali. Questi gruppi di individui sono strettamente legati gli uni agli altri; né gli uni possono dare alla loro opera un indirizzo nuovo, senza che sia costretta a mutare correlativamente l’opera di tutti gli altri. Per lo più noi chiamiamo Stato, Governo, i ministri (gruppo 3), i funzionari dei ministeri (gruppo 4 ) e i funzionari governativi sparsi per le provincie (gruppo 5). E vorremmo che costoro tenessero a freno gli amministratori elettivi e i funzionari degli enti locali (gruppo 6 ). Ma siccome costoro, coi loro amici e parenti e clienti, formano nel Mezzogiorno il grosso del corpo elettorale (gruppo 1), noi abbiamo che ogni qualvolta gli individui dei gruppi 3, 4 e 5 tentano di disturbare quelli del gruppo 6, subito questi entrano in agitazione e comunicano la loro agitazione agl’individui del gruppo 1, e costoro mettono in moto i deputati (gruppo 2): e questi riconducono a più prudenti consigli i gruppi 3, 4 e 5.
Certamente, non ci troviamo di fronte a un sistema di forze rigido e compatto, per cui tutti questi elementi dello Stato agiscano con assoluta unità d'intenti, come le ruote d’una macchina. Le minoranze degli elettori e dei deputati impongono molto spesso qualche parte delle loro aspirazioni alle maggioranze. Gli elettori piccolo-borghesi del Mezzogiorno e gli elettori borghesi, piccolo-borghesi e proletari del settentrione, e i deputati degli uni e degli altri, non vanno in tutto e per tutto d’accordo, e gli uni sentono di tanto in tanto vergogna della solidarietà nel male che sono costretti a concedere agli altri. Così avviene talvolta che  lo Stato, il Governo, cioè una parte degli elementi che formano lo Stato e il Governo, prendano qualche iniziativa utile all’Italia meridionale. Ma quando si tratta di attuare la “buona legge”, ecco che entrano in azione quelle altre parti dello Stato che risiedono al Sud, e a cui l’attuazione della legge deve essere necessariamente affidata: e allora la legge buona diventa cattiva, o nella migliore ipotesi resta priva di ogni efficacia.
Lo Stato intanto sarà capace non solo di legiferare intermittentemente, ma anche di volere ed attuare sistematicamente i provvedimenti necessari alle classi produttrici e non parassite del Mezzogiorno, in quanto sarà formato di elementi diversi da quelle da cui oggi è formato, in quanto sarà la organizzazione politica di classi diverse da quelle che lo dominano nel momento attuale.
La riforma elettorale.
Ed ecco la necessità di una riforma elettorale, che tolga il monopolio dei poteri politici e amministrativi alla piccola borghesia, spiantata, imbestialita, cacciatrice d’impieghi e di favori personali, ostile a qualunque iniziativa possa condurla ad una vita meno ignobile e più umana.
È questa, oggi, per l’Italia meridionale, la importanza del suffragio universale. Il suffragio universale è uno strumento normale e legale di reazione contro i “galantuomini” offerto ai contadini meridionali.
Non è - badiamo bene - la panacea di tutti i mali.
Non è - dobbiamo ripeterlo, finché avremo fiato -il rimedio immediato universale. È la possibilità del rimedio. È il punto d’appoggio, sul quale si può tentare un’opera continua, regolare, legale di rinnovamento. È la condizione prima, indispensabile, affinché possa formarsi un “nuovo Stato”, vigilmente e attivamente sensibile ai mali delle classi lavoratrici e produttrici del Mezzogiorno d’Italia.
Nelle nuove condizioni elettorali, tutti quegli uomini di buona volontà, che pur oggi non mancano nel Mezzogiorno ma sono paralizzati e disgustati dalla malvagità incurabile della piccola borghesia dominante, troveranno la possibilità di una azione politica, la quale finora era assolutamente impraticabile.
Quegl’italiani del Nord, che vorranno venire nel Mezzogiorno a soccorrere gli elementi sani locali nella loro opera di rinnovamento economico, di organizzazione politica,  di risanamento morale - oh, quante spedizioni dei Mille occorrono ancora prima che l’unità morale, cioè reale dell’Italia sia fatta! -, quegl’italiani del Nord non si troveranno più come in un deserto politico, fra una minoranza piccolo-borghese, avversa o traditrice, ma padrona assoluta dei pubblici poteri, e una maggioranza campagnuola, legalmente disarmata, e buona solo a far tumulti e a provocar fucilate: essi potranno appoggiarsi ai campagnuoli nel resistere alle violenze o alle insidie dei “galantuomini”.
Quel Governo, che vorrà mettere la museruola (50) ai deputati e ai sindaci meridionali, potrà, appoggiandosi ai campagnuoli, emancipars da quegli elementi elettorali malsani, che oggi sono fattori indispensabili di ogni vittoria elettorale governativa, e che dando la vittoria al Governo lo costringono ad essere loro schiavo.
Naturalmente, occorrerà che alle nuove possibilità di bene corrispondano nuove volontà di bene. Se nel Sud e nel Nord esistono elementi capaci di agire sulle novelle moltitudini elettrici con sincera cura degl’interessi generali - e noi siamo fermissimamente convinti che questi elementi esistono – la possibilità di agire li trascinerà all’azione. Che se l’Italia non è capace di produrre altro che politicanti senza coscienza e senza onestà, il male non sarà certo aggravato dal suffragio universale! Peggio di quanto siamo andati finora col suffragio ristretto, non potremo mai andare!
G . Salvemini

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