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Unità e brigantaggio

Pasquale Soccio.
Pasquale Soccio.
Recchiomozzo e Carlo De Carolis, due figli di S. Marco in campo avverso, rappresentanti tenaci di due opposti sentimenti, due temperamenti vigorosi, due esempi di coraggio e di valore che testimoniano, comunque, la terragna generosità di questa gente travagliata e travolta dall’impeto dei nuovi tempi.
Gli ultimi sussulti di una lotta sanguinosa trovano impegnati, in un duello mortale, questi due figli di S. Marco: è da notare appunto in questa lotta ai ferri corti l’assenza delle truppe regolari e di ogni iniziativa da parte delle autorità provinciali. Alla fine S. Marco risolve da sé il suo problema: è una lotta tra Orazi e Curiazi, mentre la stessa Commissione locale per la repressione del brigantaggio (di cui fanno parte illustri e autorevoli personalità locali, come il liberale Angelo Tancredi e l’arciprete Spagnoli), non fa che registrare i vari episodi e segnalarli per la premiazione alle preposte autorità di Foggia e di Napoli. E se Recchiomozzo è un indigente, un paria, il comandante delle guardie mobili Carlo De Carolis, col fratello Luigi, è un proletario nel vero senso della parola, come si apprende dagli Atti ufficiali, un 'infelice famiglia'. Con tutto ciò ha sposato la causa dell’Unità, come già il sarto Calvitto e la famiglia di costui; si è posto, è vero, si dirà con senso realistico, dalla parte dei 'proprietari e del governo' che insieme finanziarono il corpo delle guardie mobili. Ma Carlo De Carolis, sempre col fratello Luigi, in più episodi dimostrò un entusiasmo disinteressato, senza mai scopi venali e ambizioni di premio. Nel tragico episodio, per lui letale, si trovò a tu per tu con l’ultimo dei capibriganti. Egli aveva ormai coscienza che la lotta, proprio in quei giorni, assumeva un carattere risolutivo per la pace della sua piccola patria; la quale pertanto, con gli episodi di valore e di autentico sentimento di italianità, veniva finalmente ad inserirsi nell’auspicato processo unitario. Così si spiegano, in una nobile luce, la sua audacia, l’indubbia prodezza e lo sprezzo della morte, continuando egli a combattere anche dopo essere stato ferito: un'autentica coraggiosa e generosa offerta di tutto se stesso per il bene e per il buon nome dei suoi concittadini. Grave e trista era la nomea che S. Marco s’era fatta in provincia e fuori, quale 'fucina di briganti, vergogna nazionale'. De Carolis da solo riscatta il paese da tanti eventi e momenti funesti.
Il Villani e il De Carolis, il brigante antico e l’italiano nuovo, muoiono nello stesso giorno, in un combattimento corpo a corpo e nessuno dei due vedrà quanto di vecchio perisce e quanto di nuovo nasce dalle insanguinate contrade che circondano il vallone di S. Marco in Lamis.
Al termine di questa narrazione, il lettore e l'autore di queste pagine, pensosi del diuturno, drammatico travaglio delle vicende umane, non possono far altro che avvolgere tutti i protagonisti della vicenda in un solo, doveroso sentimento suggerito dalla pietas storica.
Queste considerazioni, tutt’altro che accademiche, scaturiscono spontanee da chi ha avuto cura di seguire con attenzione tanti tragici avvenimenti, al solo fine di comprenderli, vivendo per oltre un lustro con tutti i personaggi di questa storia, che è, a un tempo, storia e dramma di un’intera città italiana entrata turbinosamente e inaspettatamente nel torrente dei tempi nuovi.
Anche questa favola umana dichiara manifestamente che sugli interessi sono prevalse le idee. Con i primi si tende a vivere o a 'campare', e menano essi comunque al 'particulare', all’egoismo, e, quindi, al tradimento e alla diserzione. Per le idee, qualunque parte esse rappresentino, si muore.

Dipinto anonimo dell'epoca, apologetico dell'eroismo della Guardia Nazionale: una figura femminile con il tricolore stretto fra le mani, in segno di lutto, mostra un ufficiale della Guardia Nazionale ucciso in combattimento, sul lato sinistro si scorge la parete di una casa in fiamme, alle spalle si muove un altro militare, sullo sfondo un paesaggio montuoso appenninico coperto di boschi, al cui limitare vi sono tre figure (briganti ?) che osservano.
Dipinto anonimo dell'epoca, apologetico dell'eroismo della Guardia Nazionale: una figura femminile con il tricolore stretto fra le mani, in segno di lutto, mostra un ufficiale della Guardia Nazionale ucciso in combattimento, sul lato sinistro si scorge la parete di una casa in fiamme, alle spalle si muove un altro militare, sullo sfondo un paesaggio montuoso appenninico coperto di boschi, al cui limitare vi sono tre figure (briganti ?) che osservano.
Siamo, dunque, all'epilogo, al tragico episodio finale, alla lotta fino all’ultimo sangue tra i rappresentanti delle due fazioni o, forse meglio, delle due idee: la borbonica e l’unitaria. V’erano da una parte Recchiomozzo, Andreone, Lanzone e forse qualche altro compagno del seguito; mentre dall’altra v’erano sedici persone, tra cui i fratelli De Carolis, le due 'robuste guide', ricordate dal Mariotti, e da noi individuate nelle persone di Nardella Giuseppe Luigi e Tardio Antonio, in più, Giuliani Antonio, La Porta Eustachio, Vigilante Luigi, Donatacci Michele, Matera Michele e la donna D’Apolito Gaetana.
Il fatto avvenne nella tenuta del Matera. Il Donatacci fu la 'spia fedele', cioè colui che ha 'indotto la banda di Recchiomozzo a dormire in quel sito', ove aveva nascosto la guardia mobile. Egli, sul 'far del giorno conduceva un distaccamento della detta guardia mentre l’altra era guidata dal De Carolis'. Il Matera, a sua volta, 'ha contribuito per la spia e per il maneggio col Donatacci per condurre i briganti nella sua tenuta campestre, ove la guardia mobilizzata era nascosta ed ove egli si assunse la grave impresa di dormire con i briganti per non far fallire il colpo'. D’Apolito Gaetana, fu questa la donna che stava nella tenuta di Michele Matera riunita con costui e che col Donatacci tramò l’agguato. Fu lei che portò il segnale convenuto al detto Matera, che stava dormendo con i briganti, onde non farlo colpire dalle guardie mobilizzate.
Al segnale convenuto, infatti, la donna e il Matera se la svignarono. Luigi De Carolis fece partire il primo colpo. Il 'prode' Carlo si scaglia impetuosamente contro Recchiomozzo e questi, già ferito, gli spara a bruciapelo il suo ultimo colpo di fucile, freddandolo: sarà la sua freccia del Parto. Luigi sostituisce prontamente il fratello e, coadiuvato da Tardio, La Porta e Vigilante, riesce finalmente ad avere la meglio sull’indomito Angelo Raffaele Villani. Nel contempo, impegnati in altri due diretti duelli mortali, il Giuliani ammazza il brigante apricenese Guidone, e il Nardella 'solo ardì spingersi contro il brigante Domenico Lanzone di S. Severo'. Avendo questi 'presa aliena direzione', il Nardella 'lo raggiunse e stramazzatelo a terra lo ligò con una fascia, conducendolo vivo dai compagni nel luogo del conflitto ove per la ferita mortale riportata morì'.
Quanto alla morte del comandante Carlo De Carolis, la Commissione annota che egli, ferito dal già ferito Recchiomozzo, per via della prima fucilata del fratello Luigi, con intrepido coraggio, 'senza spaventarsi o atterrirsi proseguì la corsa, fino a quando altra scarica di fucilata lo stramazzò a terra'.
Sgomento per la morte del valoroso comandante ed esultanza per la fine di Recchiomozzo sono i sentimenti che s’intrecciano telegraficamente tra S. Marco, S. Severo, Foggia e Napoli. San Marco ne deplora 'la perdita', avendo la morte del valoroso Carlo 'portato un lutto generale in questo paese e forse senza alcun dubbio nei circonvicini, non escluso il capo della provincia di Foggia'.
Telegraficamente così si esprime S. Severo:

'Soddisfazione uccisione fuorbanditi. Disturbo grave perdita prode De Carolis. Promuoverò larghissimi premi famiglia. Si perseguiti residuo banda. Si rivendichi estinto. Il sottoprefetto Righetti'.

Pure da S. Severo il colonnello Giustiniani: “Mio complimento squadriglia. Deploro morte De Carolis”. E finalmente, a dieci mesi dall’avvenimento, da Foggia, il 10 giugno 1864, il prefetto De Ferrari diffonde un manifesto-decreto da cui si evince l’importanza data all’avvenimento, sia per le alte parole di elogio sia per la somma stanziata in premi e pensioni, cospicui e rari per quel tempo.

Giovanni Fattori: Episodio della campagna contro il brigantaggio - arresto di briganti (1864).
Giovanni Fattori: Episodio della campagna contro il brigantaggio - arresto di briganti (1864).
'Commissione Provinciale per la repressione del brigantaggio. Nella seduta del giorno 14 febbraio 1864 la Commissione ha deliberato:
1) Un premio di lire 1.000 e l'annua pensione di lire 300 sui fondi della Commissione centrale di Napoli al nominato De Carolis Luigi, fu Leonardo; altro di lire 800 per cadauno a Nardella Giuseppe, Tardio Antonio Esposito e Giuliani Antonio; e simile di lire 500 per cadauno agli altri dodici militi componenti, insieme ai primi, la Squadriglia di San Marco in Lamis, per avere i medesimi nel giorno 17 agosto 1863 valorosamente combattuto e disfatto la comitiva del feroce assassino Angelo Villani, detto Recchiomozzo, uccidendo quest’ultimo e gli altri due suoi compagni Lanzone Domenico di Giuseppe, di S. Severo, e Guidone Francesco di Apricena. Nel qual conflitto il capo della squadriglia De Carolis Carlo, germano a Luigi testé menzionato, vigorosamente combattendo, restava vittima dei colpi dell'assassino Orecchiomozzo, che sarebbe rimasto vittorioso in quella fazione, se il Luigi De Carolis non avesse, con coraggio e freddezza rarissimi, sostituito immantinente il defunto germano al comando della squadriglia, aggredendo l’assassino Villani e stendendolo cadavere al suolo.
2) Un premio di lire 500 per cadauno ai contadini Matera Michele e Donatacci Michele, ed altro di lire 300 a D’Apolito Gaetana, di S. Marco in Lamis, per avere gli stessi indicato alla detta squadriglia il sito ove annidavasi la ripetuta banda di Orecchiomozzo. Raccomandarsi il De Carolis Luigi al Governo del Re pel conferimento della medaglia al valor militare' (Nota 3).

Carmine Crocco, emblema del brigantaggio in Basilicata.
Carmine Crocco, emblema del brigantaggio in Basilicata.
Il clamoroso fatto d’armi ebbe risonanza nazionale. Se ne occuparono i giornali del tempo (Nota 4), anche se scarsi gli accenni nei nostri documenti, e gli echi raggiunsero le autorità di Napoli e di Torino, le quali volsero il loro sguardo attento al Gargano, a S. Marco, al De Carolis e al Villani; la legge Pica era entrata in vigore proprio in quei giorni, ma S. Marco stava già curando da sé la sua grossa e dolorosa piaga.

Cartolina postale del XVIII batt. bersaglieri, le date riportate sono quelle della campagna del brigantaggio 1861-1865 e Terza guerra d'Indipendenza 1866 (da Wikipedia).
Cartolina postale del XVIII batt. bersaglieri, le date riportate sono quelle della campagna del brigantaggio 1861-1865 e Terza guerra d'Indipendenza 1866 (da Wikipedia).
Fu Angelo Raffaele Villani, soprannominato Recchiomozzo, per via di un orecchio smozzicato forse in qualche sua prodezza, un brigante tipico garganico. Gli mancava lo slancio generoso, in tutti i sensi, di Agostino, la capacità organizzativa del 'generale' Del Sambro (riconosciuto questi anche dalle autorità militari come 'riformatore di comitive', donde la perplessità e il ritardo della di lui fucilazione, cui accenna il Giuliani). Serrato ad ogni luce di bontà, era l’incarnazione della stessa ferocia, tetragono a ogni lusinga, diffidente verso tutti e soprattutto verso il nuovo ordine che, quando poteva, prendeva beffardamente in giro. Sprezzando ogni condizione di resa, fu ultimo a cadere e a tenere, a suo modo e per suoi fini, ancora tenacemente alta la bandiera borbonica. L’episodio clamoroso del battesimo di suo figlio nella chiesa di S. Chiara, di cui parla il Giuliani, ne è una prova eloquente: in esso interessi personali e di parte sono abilmente fusi e apertamente proclamati e imposti. Sicuro della sua fine, seppe e volle morire combattendo, non rinunciando a una sua vendetta di 'desperado' contro la nobile figura della guardia De Carolis, ultima sua vittima.

Cartolina militare a ricordo della campagna del Reggimento 'Lancieri di Montebello' contro il brigantaggio in Capitanata 1861-1863.
Cartolina militare a ricordo della campagna del Reggimento 'Lancieri di Montebello' contro il brigantaggio in Capitanata 1861-1863.
'Ma la caccia migliore però, sebbene avvenuta con una dispiacevole circostanza, fecesi nel giorno 17 agosto. La squadriglia era stata in agguato per un giorno e una notte, in un canale macchioso dei Lavorelli. Le riuscì finalmente l’imboscata all’alba di detto giorno. Se ne passava sicuro il brigante Angelo Villani-Recchiomozzo con altri due, un sanseverese ed un apricenese. Alla prima scarica caddero cadaveri questi due ultimi, ed il Villani ferito fuggiva. Carlo De Carolis, che era il capo squadra, nell’entusiasmo in cui si vedeva di poter prendere sì ricca preda, per la quale ci era una grossa taglia, senza nemmeno ricaricare il fucile, volle corrergli appresso, nella certezza di prenderlo vivo per lo gran sangue che versava dalla ferita. Ma il brigante, che si aveva il fucile, benché mozzo per metà da una palla, carico ancora, voltato faccia al prode, tirò il colpo, e lo fece morto prima di lui, che fu severamente punito dai compagni e fratelli dell’infelice ucciso. I quattro cadaveri arrivarono qui ad ore 15: quei dei briganti, dopo un giro per la città, furono deposti alla Croce, e quello del disgraziato De Carolis fu portato in sua casa, dalla quale, ad ore 21, fu accompagnato al camposanto con gli onori e con quella pompa che conveniva ad un vero patriota, che non aveva curata la propria vita per liberare la Patria da un mostro che da tanto tempo la infestava.
Sicché di tutta la numerosa banda di briganti sammarchesi, che dal quadro nominativo della provincia si faceva ascendere al numero di 79 non vi rimanevano che due, cioè Michele Battista Incotticello ed Antonio D’Amico detto Baldassarre, i quali, fin dacché fu ucciso Recchio Muzzo, non più comparvero e seppero eludere la più fine vigilanza della giustizia col tenersi nascosti. Ma alla fine, non potendola più così durare, nel giorno 11 febbraio dell'anno 1864 si presentarono: e con essi lascia perfettamente purgata questa Patria da quei suoi figli degeneri che tanto male le accagionarono sia nella sostanza che nella vita naturale e civile' (Giuliani).

Il 'prode' De Carolis.

Michelina Di Cesare, brigantessa uccisa dalle truppe italiane nel 1868.
Michelina Di Cesare, brigantessa uccisa dalle truppe italiane nel 1868.
A due anni dalla proclamazione, la piccola fiamma dell'Unità, custodita tenacemente viva dai pochi liberali del luogo, va finalmente estendendosi e ravvivandosi anche nel popolo minuto e soprattutto nel ceto artigianale, cioè, sempre e solo in quella parte residente in città. Sposarono con entusiasmo, si potrebbe dire rumoroso, la causa nazionale i due popolani, 'nullatenenti' fratelli Carlo e Luigi De Carolis, divenuti guardie mobili. Carlo, col suo temperamento energico, entusiasta, attivo, trascinò non pochi dalla sua parte e contribuì con la persuasione alla presentazione o alla cattura o alla morte di non pochi briganti. Dagli atti (Nota 1) della commissione si rileva che già dal 6 maggio 1863 'esso De Carolis' chiede non per sé ma per la squadra da lui comandata 'un premio per l’arresto dei briganti Merla Giuseppe e Miucci Antonio, passati per le armi il 22 aprile ultimo, nonché per l’attività mostrata nella persecuzione del brigantaggio medesimo'. Inoltre per l’”energia” da lui dimostrata 'ha indotto molti altri briganti a presentarsi' e che 'pertanto ora vede questi luoghi sicuri dalle vessazioni di questi assassini'.
Pochi giorni dopo, il 26 maggio, Carlo De Carolis e Francescopaolo Gallucci, 'infelici di fortuna', uccidono, in contrada Castello, il brigante Delli Calici Nicolangelo, 'trasportandone il cadavere in questo abitato'. In pari data, come dal verbale n. 9, la Commissione riconosce il De Carolis capo di una attiva 'squadra di volontari', la quale ha liberato “questa contrada dalle invasioni dei briganti, togliendogli nascondigli e portando il terrore nei manutengoli”. Intanto, per suo conto, Recchiomozzo, burlandosi delle autorità nazionali, non dà tregua, non si arrende, battendo la campagna e dando fastidio a chiunque non sia dalla sua parte. Nel marzo ferisce il pastore Pietro Coco per avergli rifiutato 'un po' di avena'. Nel luglio (vedi verbale del giorno 23) ha dispettosamente appiccato un 'incendio' nella campagna di un tal Ciavarella Nicola, 'apportandogli un danno di ducati 1.287' pari a 5.469,75 lire di quel tempo, milioni di oggi. E inoltre gli ha ammazzato 'un mulo di circa ducati 120 e rapinato un cavallo di non indifferente valore'.
Il saccheggio e l'incendio delle case di Castelluccio ad opera della banda di Chiavone.
Il saccheggio e l'incendio delle case di Castelluccio ad opera della banda di Chiavone.
Insomma, per opera del capobrigante Recchiomozzo, S. Marco è di nuovo terrorizzata, anche per quello che indirettamente le impone per mezzo di qualche prete, della sorella Arcangela e del cognato Giuseppe Villani. (Si ricordi anche la rumorosa manifestazione e gli unanimi rallegramenti popolari per il battesimo di un suo figlio nell'ottobre del ‘61). Questi due furono già in carcere per via della parentela con Recchiomozzo. Furono comunque scarcerati, il cognato in Foggia e la sorella a S. Marco, nel dicembre ‘62. Persistendo però nella loro attività, col seminare odio nel popolo e col minacciare la proprietà dei 'galantuomini', furono entrambi rimessi in carcere.
Fu questa una misura di sicurezza preventiva? Se così, le autorità locali mal si apposero, perché dovevano fare sempre i conti con Recchiomozzo. Questi, infatti, non se ne stette, anzi infierì maggiormente, essendo ora al suo seguito altri due fierissimi briganti: Lanzone Domenico di S. Severo e Guidone Francesco, detto Andreone, di Apricena. E dette così, per ben dieci mesi, filo da torcere al delegato di P.S. de Donato (Nota 2),

come già prima al capitano Rajola e poi al maggiore Mori, rendendosi loro sempre inafferrabile. Il sindaco, sgomento, informa chi di dovere. Alla notizia dell’arresto dei due parenti, Recchiomozzo,

'servendosi dei nefandi suoi mezzi come capo di banda armata, per motivo di brutale sdegno, indotto dalla malvagità, spacciando che tali suoi parenti sono innocenti, con la stessa banda ha carcerato già la massima parte degli armenti di questi proprietari, licenziandone i pastori, facendo sentire che ne deve distruggere subito con l’incendio e con le armi tutti gli animali. Onde si prevede che gravissime rovine faranno i briganti specialmente alla classe dei proprietari che sono rimasti nella massima costernazione'.

La banda del brigante Chiavone ospitata nel refettorio dell'Abbazia di Trisulti.
La banda del brigante Chiavone ospitata nel refettorio dell'Abbazia di Trisulti.
La lettera è del 22 dicembre 1862, e la tensione dura per circa otto mesi, fino all'alba del 17 agosto ‘63. I sammarchesi, divisi in due partiti, ormai capiscono o intuiscono che tutto si risolverà in un duello mortale tra i De Carolis e il Villani, donde la riaccensione degli animi tra i partigiani della vecchia e nuova causa. E se da una parte i manutengoli aumentano, anche dall’altra, proprio nel popolo minuto, amante dell’ordine e delle nuove leggi, la resistenza si fa sempre più tenace: ne è un esempio il caso di quel pastore che rifiuta un po’ di biada a Recchiomozzo, ossequente alle nuove disposizioni militari.
Senonché, c'è da dire che il duello mortale, inizialmente, non si svolse su di un piano di rusticana cavalleria: Recchiomozzo manifestò apertamente le sue intenzioni, per quanto feroci; dall’altra parte invece si ricorse al tranello, alle spie, all’inganno, a una donna. Non ci fu, come nel marzo, col maggiore Mori e il Mariotti, uno scontro aperto, ricercato e deciso dalle due parti.

S. Marco in Lamis. Il convento di S. Matteo agli inizi del '900 (da Beltramelli).
S. Marco in Lamis. Il convento di S. Matteo agli inizi del '900 (da Beltramelli).
Siamo ora giunti a un episodio di rilievo dell'attività militare nella repressione del brigantaggio. L’intraprendente maggiore Mori, comandante di questa zona e coordinatore delle operazioni più brillanti, dimostra tutto il suo coraggio e la sua animosità nel battere i luoghi più selvaggi e impervi del Gargano, tra S. Marco e Cagnano, e nell’affrontare direttamente i briganti nelle loro inaccessibili dimore. Si tratta di uno scontro in campo aperto, di un urto diretto e frontale con la banda di Recchiomozzo. Il sottotenente Mariotti vive forse la sua più bella avventura; e anche la sua memoria vibra e si ravviva, come si vedrà, nella bellissima pagina che descrive la cattura di un giovane intrepido brigante, al seguito di Recchiomozzo, in una lotta mortale. Si ricordi che il Mariotti denomina inesattamente Recchiomozzo, il quale è Angelo Raffaele Villani fu Onofrio e non Angelo Maria Villani. Dagli atti della commissione locale per la repressione del brigantaggio risulta che le due 'robuste guide' della compagnia militare, cui fa cenno il Mariotti, erano le guardie mobili sammarchesi Antonio Tardio e Giuseppe Luigi Nardella, e che l’episodio avvenne precisamente il 6 marzo 1863.
Va infine rilevato che, sebbene i briganti avessero lasciato sul posto ben nove morti e uno gravemente ferito, il Villani col grosso della sua comitiva uscì illeso, guadagnando strategicamente i boschi. I conti saranno poi regolati nell’agosto successivo in un analogo tragico scontro con le sole guardie mobili locali.

San Giovanni Rotondo. Una veduta dei primi anni del '900 (da Beltramelli).
San Giovanni Rotondo. Una veduta dei primi anni del '900 (da Beltramelli).
'Nei suoi frequentissimi mutamenti di sede, il comando del nostro battaglione in questo torno appunto di tempo trovavasi a S. Marco in Lamis con la 14. compagnia; le altre erano disseminate un po’ da per tutto per un raggio considerevole di chilometri; la mia 13. vigilava dall'altura di Rignano Garganico (1.800 abitanti circa). Una sera dei primissimi di marzo 1863 giunse lassù al mio capitano, il seguente ordine del maggiore: ‘La S.V. vorrà inviare questa stessa notte, a traverso la montagna, (tutta roccia impervia, e la notte non era davvero lunare), qui a S. Marco il sottotenente Mariotti con venti soldati dei più robusti, onde far parte di una colonna mobile, di cui il sottoscritto assumerà il comando. Il maggiore Mori’. Formata la colonna con la 14. compagnia - Capitano Rossi, sottotenente Tolusso, 40 uomini di truppa con i miei venti soldati della 13. , con due carabinieri e due robuste guide, le quali, abbandonata o disertata o tradita la causa dei briganti, ora fedelmente conducevano noi sulle loro tracce -, il maggiore, la mattina appresso di buon’ora, la mise in marcia su per quei monti garganici, perlustrandone e frugandone gli estesi boschi e le notevoli accidentalità del terreno. A mezza mattina del secondo giorno, non avendo per anco raccolto alcun indizio dei briganti, ci trovammo sulle alture di Cagnano, quivi il maggiore ordinò un grande alt di qualche ora. Di lassù la strada del monte scende pietrosa e bruscamente serpeggiante sino ad una piccola vallicella, donde si risale di nuovo per vie boscose e più vaste. Prima che spirasse il tempo destinato a riposo, il maggiore improvvisamente, come se obbedisse ad una ispirazione, ordina la ripresa della marcia. Fatto breve cammino, e giunti ad una delle accennate svolte brusche, rocciose e a ciottoli, ci troviamo d’improvviso faccia a faccia con la comitiva di Angelo Maria Villani (35 briganti), la quale veniva su pel monte con cavalli a mano e a passo. Immagini il lettore ciò che ne seguì: i soldati in un attimo fanno fuoco senza comando; i briganti, che hanno la destrezza e la fortuna di balzare in sella, si dileguano a rompicollo; una diecina di essi, smontati ed abbandonando le cavalcature, se la danno a gambe disperatamente.
Reggimento di Cacciatori.
Reggimento di Cacciatori.
Noi l’inseguiamo alle calcagna continuando il fuoco, cui essi di tratto in tratto rispondono, finché uno dopo l’altro vengono raggiunti e ne succedono lotte corpo a corpo veramente macabre: 8 sono finiti a colpi di baionetta e di calcio di fucile sulla testa; uno, inseguito dai soldati del mio plotone, scompare in una specie di voragine dissimulata tutt’attorno da fitta boscaglia. Quivi noi sopraggiunti, senza punto riflettere, saltammo dentro, scoprendovi lateralmente una tana capace di accogliere appunto un uomo carponi. Il brigante vi si era infilato tutto intero; non isporgeva fuori che un piede stivalato, munito di un enorme sperone di ottone. S’incominciò a tirarlo da quel piede ed esortarlo ad arrendersi, ma a smuoverlo riuscì inutile ogni sforzo. Quando meno ce l’aspettavamo, avendo forse egli potuto fare col braccio un movimento opportuno, ci scaricò contro senza interruzione i sei colpi della sua rivoltella, che tutti per fortuna fallirono il segno. Allora uno dei soldati sparò nella buca, e dopo poco, tirando ancora il piede, il corpo esanime fu estratto. Era un giovane poco più che ventenne, bella figura scultorea inappuntabile nella sua uniforme brigantesca con ogni ben di Dio nelle tasche: lunga borsa di pelle fornita di 200 piastre, un grosso involto di gioielli, orecchini e spille di brillanti di valore, fili di coralli comuni, parecchi anelli con pietre varie, un orologio ed ancora una magnifica pipa di schiuma con buona provvista di sigari napoletani; un robusto pugnale, infilato nella cartucciera di cuoio ben lavorata e contenente non meno di 60 cartuccie. Nelle tasche del panciotto, medagliette ed abitini e amuleti di ogni specie; altrettanti appesi al collo: nelle braccia, tatuaggi religiosi; perfetto il fucile a due canne; la rivoltella pareva sparata per la prima volta.
Immagine di Cagnano Varano agli inizi del '900.
Immagine di Cagnano Varano agli inizi del '900.
Questo e gli altri otto cadaveri vennero caricati sui muli, carri non se ne trovarono, e si trasportarono sulla piazza di Cagnano pel riconoscimento; il decimo, gravemente ferito, fu consegnato ai carabinieri. Il comandante del reggimento, di stanza a Ravenna, anche per questo fatto d’armi, ...emanò un ordine del giorno permanente (n. 107) in data 26 marzo 1863, così concepito: ‘Fatti d'armi del 4. battaglione. Lieto di annunciare un nuovo e brillante fatto d'armi sostenuto il 6 corrente da frazioni del 4. battaglione contro i briganti, dò a conoscenza del reggimento come il Sig. Maggiore Mori, comandando egli stesso una perlustrazione nelle campagne di S. Marco in Lamis con soldati della 13. e 14. compagnia, scoprisse un numero considerevole di briganti, che attaccati vivamente, dovettero fuggire dopo accanita resistenza, lasciando sul terreno morti e feriti. Il reggimento non ha fortunatamente a deplorare perdita alcuna. In questo scontro saggiamente diretto dal sig. Maggiore Mori, che nel riferirmene tributò i dovuti elogi indistintamente a tutti gli ufficiali e soldati che vi presero parte, sia per lo slancio e per il coraggio con cui attaccarono i briganti, sia per l’interesse adoperato onde mandare a termine con successo la perlustrazione, si distinsero maggiormente i sigg. capitano Rossi, i sottotenenti Mariotti e Tolusso: 14. compagnia, sergenti Magnoni e Gaidana; caporali Gay e Scavardo. 14. compania, scelto Parisio. 13. compagnia, scelto Virdistolo; soldati Cento, Flematti, Macchi, Barbieri, Barucco, Roccatagliata. Altri piccoli scontri avvennero nel mese scorso nelle vicinanze della masseria Torre di Brancia, ove fu destinato un distaccamento di un plotone della 13. compagnia comandato dal sottotenente Mariotti, ma mercé il coraggio dei soldati, lo zelo e l’attività del Sig. Mariotti, i briganti furono ogni volta messi in fuga quantunque sempre in numero maggiore della forza componente il distaccamento. Nel manifestare a questi valorosi la mia piena soddisfazione, ho la fiducia che il loro esempio sarà imitato da tutti coloro che potessero trovarsi in tali occasioni. Il Colonnello Comandante Bessone’'

Un 'per finire' tra un militare e un frate.
Un po’ per allentare la tensione, dopo la lettura di questo fatto di sangue, e anche per porre in luce il carattere focoso, sbrigativo e anticlericale del sottotenente Mariotti, trascriviamo infine questo gustoso episodio da lui stesso narrato.

La piana di Capitanata agli inizi del '900 (da Beltramelli).
La piana di Capitanata agli inizi del '900 (da Beltramelli).
'Mi trovavo per la seconda volta a Poggio Imperiale, ospite di don Primiano De Palma. Tornato dopo mezzogiorno da faticosa perlustrazione, stanco riarso dalla sete, mi ero messo, libero della tunica, sul poggiuolo in ferro della mia camera, che dava sulla piazza principale del paese, aspettando il mio attendente, il quale da una specie di bottega dirimpetto, e precisamente accosto alla farmacia, mi recasse neve e limoni da rinfrescarmi. Notai frattanto un frate, giovane alquanto panciuto, che con una certa aria spavalda attraversata la piazza stessa a cavallo, trotterellando, messo piede a terra e legato il quadrupede ad un’inferriata, era entrato nell’accennata bottega o cantina. Il soldato avendo soverchiamente tardato a ritornare, mi trovò impazientito, ed egli per giustificarsi mi narrò essere stato trattenuto dall’interesse mostrato dal frate di attaccare discorso con lui: ‘Di che paese sei? - Ha cominciato egli a domandarmi con aria furbesca. Ed io, per vedere un po’ dove andava a cascare, gli rispondo: - Dello Stato del Papa, dei suoi confini di Romagna. L'altro tutto giulivo: - Dunque sei dei nostri! e come fai, povero figlio de mamma, a sta co’ chilli fessi de piemontisi e de Vittorio Manuele, che t’ha mannato ca’ pe te fatte massacrà da li briganti? - Incoraggiato dal silenzio e dalla mia attitudine compunta, ha arrischiato la domanda: - Ma perché non ti dai in campagna? - Non ho in tasca né anco un tornese; se voi mi deste un po’ di piastre, o che non se ne potrebbe parlare? - E perché no? Replica il frate guardandomi fisso negli occhi’. A questo punto il soldato si spaventa della piega presa dal discorso e si affretta a dire: - Aspettami qui, porto questa roba al mio padrone e torno subito.
Non era ancora finito siffatto racconto dell’attendente, che io, rimessami la tunica, cinta la sciabola, con i fumi della collera al cervello, in due salti sono vicino al frate, e, assumendo il tono della prima autorità del paese, (veramente in quel momento non ve n’era altra), gli ordino che mi segua nel mio ufficio per fargli comunicazioni di servizio: egli mi viene dietro più morto che vivo. Don Primiano che trovavasi come al solito nel locale d’ingresso della casa, fiuta la burrasca, rinchiude tutta la famiglia nella camera in fondo allo stesso pianterreno; io frettolosamente salgo la scala ed infilo a sinistra, insieme col frate, la porta della mia camera; il soldato, un lestofante piemontese della più bell’acqua, si affretta a chiudere le imposte del poggiuolo e ad uscire, lasciandomi solo col frate, e chiudendosi dietro la porta della stanza. Faccio grazie al lettore della scena che ne seguì, ma si può esser certi che quel reverendo, mentre non avrà più dimenticato la lezione ricevuta, ed imparato se non ad amare, certo a temere il nostro Re, che era il gran Re, avrà appeso il miracolo al santo protettore per essere stato lasciato ancora libero dopo la mia giustizia sommaria'.

La 'lezione' musicale, è chiaro, fu a suon di mani e di bastone; cosa che il Mariotti si guarda bene dall’ammettere anche quando confidenzialmente fu invitato a rapporto dal suo divertito comandante in San Severo.

Destinazione tra nemici visibili e invisibili.

Una immagine di Foggia in una vecchia foto.
Una immagine di Foggia in una vecchia foto.
'Da Foggia il 4° battaglione del 55°, previa rivista e allocuzione incoraggiante del brigadiere Mazé de la Roche, fu inviato alla sottozona di S. Severo, comandata prima dal colonnello Testa del 49° fanteria, poscia dal colonnello Giustiniani del 14°. Ivi, non appena fummo giunti, ci si comunicò la nostra tabella di dislocazione da tradursi subito in atto. Uno sminuzzamento completo del battaglione in distaccamenti, che, quanto a forze, andavano dalla compagnia al plotone, alla squadra, alla pattuglia. Più che distaccamenti, erano appostamenti mobili, dovendo essi senza tregua dar la caccia ai briganti, ai manutengoli, alle spie; frugar boschi, caverne, cascinali, dirupi. Con sì fatto frazionamento di forze, veniva commesso alla nostra energica attività di abbracciare, vigilare, difendere un vastissimo territorio, coperto da ostacoli naturali di assai notevole importanza, quali il sistema dei monti garganici, boschi di grande estensione, come quelli di Dragonara, di Ripalta, di Lesina ed altri; parecchi corsi d'acqua dei laghi di Varano, di Lesina, ecc. così sparpagliati, noi ci vediamo in mezzo a gente, dalla quale abbiamo la convinzione di essere odiati, insidiati, o per lo meno che ci sia infida. Abbiamo anche la convinzione di esserne grandemente temuti, non però quanto essa temeva i malandrini. Di ciò, ecco una prova evidentissima, occorsaci di frequente: scorta da noi a distanza una comitiva, o un piccolo gruppo di briganti a cavallo soffermarsi presso qualche masseria a parlare coi cafoni del luogo e poi sparire, correvamo colà ad interrogare quei cafoni per conoscere la direzione che avevano presa. La risposta, anche con giuramenti e lacrime, era invariabilmente questa: “e chi l’ha visti? nui non l’avimo visto; da cà non è passato nisciune”. Voi potevate accopparli di bastonate, ma più di questo i cafoni non vi rispondevano. A tale ambiente aggiungasi il nemico che non vediamo, ci si nasconde, ci tende agguati, e quando per sorpresa, o comunque, può coglierci, fa scempio delle nostre carni, si comprenderà quale grado di diffidenza e di vigilanza a noi s’imponesse... Del trasporto dei militari dai distaccamenti agli ospedali non può sfuggire la notevolissima importanza se si tiene conto della larga breccia che nei mesi estivi, in quei luoghi malsani, dovevano avere aperta nei nostri soldati, sottoposti a sì dure incessanti fatiche, la malaria, la tifoidea, il tifo, le malattie intestinali, per accennare solo alle principali. Basti considerare che, dalla prima quindicina di giugno alla fine dell'anno, le nostre compagnie, di 110.000 [refuso: è da intendere 110 - Nota del webmaster] uomini robustissimi non ne contavano più per il servizio che 55 al massimo; e in meno di 6 mesi avevamo perduto la metà della forza'.

A Brancia, giuoco a rimpiattino.
È Brancia un antico fortino sul Candelaro del feudo di Castelpagano e dei cui signori eredi porta tuttora la denominazione. Posto a metà strada tra S. Marco e S. Severo, a sbocco dell’ampia valle di Stignano, delimitata questa dall’anomalo corso del Candelaro, è una stazione strategica di prim’ordine tra monti, valli e piana. In questi luoghi, nidi d’aquile, il De Amicis ambientò una sua nota novella sul brigantaggio garganico: Fortezza.

Il bosco di Brancia in una foto del secondo dopoguerra
Il bosco di Brancia in una foto del secondo dopoguerra
'In sul finire del '62 e nei primi mesi del ‘63, da un battaglione del genio militare, si iniziò e si condusse innanzi, con grande alacrità, la costruzione di una buona strada rotabile che avrebbe messo in diretta e comoda comunicazione S. Severo, capoluogo del circondario (quasi 20.000 abitanti) con S. Marco in Lamis (circa 16.000 abitanti), sede di pretura. Quasi a metà del percorso, alquanto distante, sulla destra, alle falde meridionali del Gargano, e circondato da terreno boscoso e rotto, si erge un ampio e robusto edifizio dallo aspetto di un castello, denominato Torre Brancia. Ivi con una trentina di soldati della mia compagnia io venni distaccato verso i primi di febbraio 1863, al tempo delle bande riunite, con la duplice missione di far buona guardia contro di queste e di accorrere a rinforzo dei zappatori del genio nel caso fossero aggrediti sul lavoro i quali per altro procedettero sempre indisturbati. I briganti invece incominciarono a pigliarsi il gusto, sbucando dai boschi, a sfilarmi dinanzi al galoppo in un lungo stradone campestre laterale, emettendo grida selvagge e sparando in aria qualche fucilata. Io, impotente a inseguirli col fuoco, perché fuori tiro dei nostri fucili a percussione, dovevo limitarmi, riconosciuti diligentemente tutti i passaggi ad appostarmi con la metà della mia forza nei luoghi opportuni, aspettando che tornassero e lasciando l’altra metà nel fabbricato sotto il comando di un sottufficiale.
La torre di Brancia
La torre di Brancia
La comitiva, difatti, non mancò di presentarsi per tre giorni consecutivi, cambiando sempre ora e punto di sbocco nello stradone. Non veniva più al galoppo, né urlando, ma con precauzione e con intento evidente di sorprendere il distaccamento. I soldati nella posizione di punt a terra, nascosti tra le boscaglie, l’aspettavano a tiro, trattenendo sin anco il respiro per timore che scopertili scappassero. Veniva essa di fronte verso il nostro appostamento boscoso, ma a 500 metri voltava le groppe dei cavalli e immediatamente rimbombava la detonazione della nostra scarica, che per la banda era il comando del galoppo. Il giorno appresso, da una parte e dall’altra, si cambiavano ora e disposizioni, ma i risultati ripetevansi immutati. Il giuoco si ripeté ancora una volta, indi della comitiva non si ebbe più sentore di sorta. Subito dopo, (25 febbraio 1863), il comandante del battaglione m’inviava da San Marco il seguente biglietto: "Domani sera la S.V. col plotone sotto i suoi ordini, si porterà perlustrando al casino del sig. Gravina, ove si suppone nella notte vengano i briganti. Alla mattina successiva, un'ora dopo giorno, ritornerà a Brancia. Avverta di non lasciare uomini a Brancia e di nascondere bene gli oggetti di cucina. Sarà bene nella notte anzidetta che visiti la Caprareccia dei fratelli Gravina. Il maggiore Mori"'.

Una versione della tragica fine del capitano Valentini.

Panorama di Apricena.
Panorama di Apricena.
'In San Marco in Lamis quantunque si sapesse che il paese, insieme con Apricena, avesse fornito il maggior contingente di malandrini alle comitive della Capitanata, e si ritenesse uno dei principali covi dei briganti, nessuno tuttavia sarebbe mai giunto a sospettare che questi avessero ardito celarsi in un locale immediatamente attiguo alla sala della mensa degli ufficiali del genio addetti ai lavori della strada Sansevero-San Marco. Un giorno i predetti ufficiali, mentre col consueto buon umore terminavano la colazione, avvertirono provenire da quel locale, rimasto per lo innanzi sempre chiuso a chiavistelli e silenzioso, qualche rumore sospetto e se ne impensierirono. Decidono di accertarsene sforzando l'uscio. Detto, fatto: le imposte cedono; primo ad entrare è il capitano Valentini, il più anziano del battaglione, e non appena egli si presenta all'ingresso viene accolto da una tremenda detonazione di fucilate, cade a terra fulminato e i briganti scompaiono all’istante per vie segrete opportunamente disposte senza lasciar di loro la benché minima traccia. L’evento, che parrebbe incredibile, suscitò gran rumore; a S. Marco accorsero truppe da ogni parte e si attivarono ricerche e provvedimenti rigorosissimi, ma il brigantaggio continuò ancora la sua parabola'.

Hai mai visto gli ex voto di san Matteo? Conosci Giovanni Gelsomino?