A mano a mano che ci si approssima alla grande steppa pugliese, le ultime gibbosità del suolo ci nascondono il mare che non ricompare se non in prossimità di Manfredonia. Quantunque la stagione sia avanzata, qualche pastore si attarda ancora con le sue greggi di pecore e di capre, con le sue mandre di buoi in questi ricchi pascoli. È qualche ritardatario che prenderà fra breve i tratturi che debbono ricondurlo alle alte montagne dell'Abruzzo. Passa sul suo piccolo cavallo, la lunga asta (Nota) levata a dirigere le domite mandre.
Una volta i tratturi solcavano gran parte dell'Italia meridionale: dalla Maiella alla lontana Calabria; ora ne sono rimasti vasti tratti qua e là.
Poco distante dalla stazione di Apricena, in piena campagna, ricordo aver veduto per il largo tratturo che si dirige verso i lontani monti dell'Abruzzo, una di queste strane emigrazioni. Erano parecchie centinaia di buoi che si muovevano lentamente sotto la luce dorata dell'aurora; una grande massa che biancheggiava quasi immobile su l'orizzonte. Risaltavano a distanze inuguali i pastori a cavallo, armati dei loro spunzoni troneggianti sul quieto aggreggiamento. Non si udiva che il suono dei campanacci grave, ininterrotto e il canto delle prime allodole che saliva, saliva a scoprire il gran fiore d'oro che l'acque del mare celavano ancora.
A due chilometri da Manfredonia ci arrestiamo ad ammirare una piccola chiesa: Santa Maria Maggiore, l'unica superstite dell'antica Siponto.
L'origine di Siponto (Sipus - secondo Strabone) si perde nel mito. Vuolsi fondata dal leggendario Diomede. Essa si elevava in una sinuosità formata dal golfo detto oggi di Manfredonia; era, all'epoca romana, un centro commerciale di grande importanza.
Fino all'epoca di Manfredi, benché decadesse, continuò il suo commercio.
Fu uno dei più antichi vescovadi d'Italia: la leggenda cristiana afferma che San Pietro stesso vi avrebbe ordinato il primo vescovo.
La chiesa di Santa Maria Maggiore, antichissima, venne riedificata nel XII secolo durante il pontificato di Pasquale II. La cripta, sostenuta da venti colonne di granito, rimonta a tale epoca, come rimontano a tale epoca la porta della chiesa e le mura di cinta. Pasquale II visitò Siponto e ne consacrò la cattedrale nel 1117.
Siponto fu devastata più volte dal terremoto e questa fu già una causa della sua decadenza - però il terremoto del 1255 la rase compiutamente al suolo; fu allora che Manfredi, entrato in possesso di queste terre dopo la morte di Corrado, pensò edificare una nuova città in luogo più sano e più difeso dalle scorrerie dei pirati.
Scelse così una terra distante due miglia dalle rovine di Siponto; lo stesso re fece il disegno della nuova città e il congiunto suo, Malecta, ne condusse l'esecuzione. I lavori si iniziarono nel 1256, dopo due anni l'arcivescovo sipontino Ruggiero d'Anglona vi si insediava col suo clero. In memoria del suo fondatore la città prese il nome di Manfredonia.
Prima di giungere a Manfredonia attraversiamo vasti campi di fichi d'india che danno un aspetto singolare al paese. La pianta mostruosa e deforme drizza le sue poche foglie carnose, erte di innumerevoli spine; foglie coronate al margine da una serie di bitorzoli o di fiori giallastri che si convertiranno nel dolciastro frutto di cui sono ghiotti i meridionali. Passiamo innanzi a villette, a cascinali, a una piccola chiesa abbandonata. Le abitazioni si moltiplicano.
- All'Hotel Manfredi - dice qualcuno che segue il nostro sciarabbà (Nota). Mi volgo maravigliato. Sia possibile davvero trovare un hotel in un paese del Gargano?
Fino ad ora sono stato abituato a sì indicibili tane, a sì immondi giacigli, che l'idea di riposare per qualche ora almeno in un letto civile mi consola.
Mi faccio condurre senza indugio verso l'ospitale dimora; l'aspetto esterno mi è di grande scoramento. Una porticina larga un palmo; una scaletta nera, sudicia, scivolosa, con certi scalini smisurati che pare costrutta per una generazione di giganti e, a sommo, un omuncolo che mi attende.
- Chi sei ? - mi chiede.
- Hai da alloggiarmi?
- Entrate.
Siamo al buio in un antro dove spira un olezzo tale di mille innominabili cose che ancora ne provo l'acuta sensazione, poi una porticina si apre ed entriamo in un vasto stanzone in cui sono allineati in bell'ordine sei letti. L'albergatore attende che mi decida; vista poi la mia sorpresa - eh' io pensavo come dovevano essere numerose le famiglie lassù se in un sola stanza occorrevano tanti letti - mi dice:
- Se voi volete un letto con il risparmio, lo scegliete in un bel posto e lo pagate meno.
- Che dici? - chiedo sorpreso.
- Quelli vicini alla finestra sono i migliori - risponde il mio uomo - scegline uno di quelli, dormirai bene.
- E negli altri? - chiedo, non rendendomi esatto conto delle sue parole.
- Negli altri? Due sono occupati. Qualcuno capiterà prima di sera per dormire nei vuoti.
Il mio uomo che ritorna per recarmi un poco d'acqua melmosa, necessaria alle mie abluzioni, e per riempire l'aria, con un suo soffietto, di una polvere irritante che mi confessa poi essere razzìa, ha un nome altisonante: si chiama Don Michele Rosari de Tosquez e discende da un'antichissima famiglia spagnuola insignita della dignità baronale. Il volgo lo chiama Don Michè; è celebre sotto questo nome. L'elegante scrittrice inglese Janet Ross fu sua ospite qualche anno fa e ne tratteggiò la figura nel volume La terra di Manfredi. Io mi accontento di guardarlo: è piccolo, sdegnoso e non ha di bianco se non il bianco degli occhi.
Il duomo, quale è ora, fu ricostruito dal cardinale Orsini nell'anno 1620. È un edificio che non presenta nessuna grazia architettonica. E' sormontato da una piccola cupola e fiancheggiato da un campaniluccio costrutto in pietra calcarea giallastra.
A fianco alla cattedrale sorge il palazzo arcivescovile. Gli arcivescovi Tolomeo Galli e Domenico Ginasi lo fecero erigere nel 1565. Anche l'arcivescovado è privo di qualsiasi interesse artistico. Noto due capitelli corinzi messi alla porta d'ingresso.
La chiesa di San Domenico (ergentesi in un angolo della piazza principale) annessa anticamente al convento dei Domenicani ridotto ora a sede del municipio, è un grande edificio (uno fra i più antichi) notabile per una bella porta. All'interno si ammira la cappella della Maddalena.
A levante della città, sul mare, si eleva il castello angioino, grande quadrilatero munito di mura e di torri. Tale fortezza fu elevata, per incarico di Carlo I d'Angiò, dal suo architetto Maestro Giordano da Monte Sant'Angelo, il quale cinse pure di mura la città. E' memorabile la resistenza che detto castello oppose agli assalti del maresciallo Lautrec al tempo in cui questi guerreggiava contro Napoli. Però il fato gli serbava più triste sorte coi Turchi che lo presero e lo smantellarono. E' viva ancora in Manfredonia la tradizione di questi feroci pirati e molti sono i canti e le leggende che li rammentano.
Esposta sempre agli assalti degli avventurieri del mare, Manfredi si avvisò difendere Manfredonia e, come narra il cronista Matteo Spinelli da Giovinazzo, allorché fu costrutto il campanile della prima cattedrale ordinò
"che se facesse una campana grossissima che se senta cinquanta miglia dintro terra, a tale che haveria potuto venire succurso se Manfredonia fosse stata assaltata da nemici, mentre è poco abitata e da chella hora se dicette che lo Re volia capare de le terre grosse de tutta Puglia tante casate per terra, per fare Manfredonia terra di tremila fuochi".
Procedo per la gaia cittadina dalle ampie vie regolari, percorse da una folla varia tumultuante, urlante. Quanto più ci si inoltra nel mezzogiorno d'Italia, tanto più il popolo sente necessità di manifestare ad alta voce i suoi pensieri ed i suoi sentimenti.
Particolarità strana di queste casuccie moresche che assomigliano tanto nell'insieme a certi villaggi della Sicilia, sono le finestre a foglia. Non si sa proprio per quale bizzarria architettonica abbiano assunto tale atteggiamento. Noto, ripetute su tutte le porte delle case popolari, tre croci, tre grandi croci tracciate col bianco di calce, messe là a salvare i fanciulli dalle malie delle streghe che scendono da Benevento. Le case delle persone agiate, recano in contrapposto, in una piccola nicchia, una statuetta di San Michele, scolpita in pietra del Gargano. Mi dirigo al porto mentre il cielo si annuvola. Il mare assume, sotto il rapido variare delle luci, bagliori ed ombre improvvise; il suo colore è indicibile tanto rapidamente trasmuta. La parte della città che guarda il mare è più sudicia e povera; essa segue la curva della spiaggia come in un soave abbracciamento.
Quando ritorno, il cocente meriggio ha arrestato la vita della città; tutto è quieto, tutto è chiuso, tutto dorme.
Ritorno all'Hotel Manfredi (perché non chiamarlo così se ciò può far piacere a Don Michele Rosari de Tosquez) e dopo una sommaria refezione vorrei prender sonno se proprio nella mia via un gruppo di fanciulli i quali non sono d'avviso che l'Italia sia la terra dell'analfabetismo, non cantassero, sopra un motivo simile al ronzio delle pecchie, le lodi della scuola:
- ..... si legge, si scrive
si impara di parlare.....
Oh se imparassero di tacere!