Renato Serra [*], Scritti critici, La Voce, Società Anonima Editrice Roma, 1919
Le illustrazioni che accompagnano questo bel brano di (e su, di Prezzolini) Renato Serra, sono prese da l libro LITHOGRAPHIES D'APRÈS LES PRINCIPAUX TABLEAUX DE LA COLLECTION DE S. A. S. MONSEIGNEUR LE PRINCE CONSERVATEUR, stampato a Bruxelle nel 1829. Gli autori delle litografie sono enunciati nel libro; ma questo richiede troppo lavoro e il lavoro stanca ... Le litografie sono state fatte tra il 1500 e il 1600.
Di questo volume sono state tirate copie
venticinque su carta distinta numerate
che si vendono al prezzo di lire 6 ciascuna.
Antonio Beltamelli [**]
Ma per parlare della sua arte queste date non contano niente. Tutta l'opera di Beltramelli par nata dalla stessa ispirazione, in un sol giorno. L'impronta è unica, in tutte le pagine.
O stile o maniera o altro che s'abbia a chiamare, è pure una nota particolarissima, alla quale una scrittura sua si riconoscerebbe a colpo d'occhio, fra mille. Dire in che propriamente consista, e di che, è più diffìcile; e io non saprei rappresentare l'impressione mia se non con l'impressione che mi resta alla lettura di una poesia voltata in una prosa, da un'altra lingua.
Si sente un disagio, una scontentezza indefinita; pare una musica sorda, soffocata dentro uno strumento imperfetto: c'è qualche cosa che è fuor di posto, fuor di tono, qualche cosa di oscuro, che vorrebbe giungere alla pienezza dell'espressione, e non può.
Ora molte volte mi son chiesto se Beltramelli non scriva per avventura le cose sue prima in bellissimi versi, d'una lingua ch'io non conosco; e poi le volti o le faccia voltare, in prosa italiana; qualche volta bene, altre volte mediocremente, più spesso molto male. Bene o male, è sempre una traduzione; che riesce per eccellenza inadeguata. L'anima dello scrittore traluce come in uno specchio torbido. La dovizia dei vocaboli è grande, copiosa, eletta; ma non ha qualità espressiva propria.
Pare che il traduttore li abbia sostituiti un poco materialmente a quelli dell'originale, senza rendersi troppo conto della loro convenienza; talora s'è fidato troppo al caso, all’orecchio. Parla dell'arrubinarsi di un viso; dell'aggricciarsi dei capelli: di “un folle popolo che si affolla e si accarna ... “.
La sua intenzione è ottima, ma io temo molto che debba menarlo all'inferno. Egli riprende i motivi che non gli sembrano sviluppati abbastanza, e li commenta lungamente, affastellando le frasi sulle frasi, le metafore sulle metafore: alla fine ogni cosa è diluita in un brodo lungo di luoghi comuni, di astrazioni, di vernici generiche.
(Me ne capita sott'occhio una fra cento, Pujàn: “Il giovane taciturno, la scure scintillante, l'aspro grido della vittoria umana su la natura selvaggia”).
E poi ha la malinconia filosofica; di tratto in tratto interrompe il discorso per introdurre qualche sentenza; non abbandona una descrizione, una scena, una persona, senza aver soggiunto con quel suo tono d'oracolo una riflessione che vorrebbe esprimere la intima essenza delle cose, fissarne quasi per l'eternità l'anima e la ragione suprema. Non basta ancora: quando ha bene commentato e filosofato, egli si piace di abbellimenti minuti. La sua prosa gli pare ancor troppo sciatta, in paragone dei versi di cui gli giunge la lontana melodia, e ricomincia a adornarla: qui trova un nome senza aggettivo, e glie lo rende: qua apre una parentesi per una piccola descrizione di qualche accessorio dimenticato; aggiunge un po' d'oro e un po' di vermiglio alle tinte; arrotonda, lustra, rassetta.
Io non giurerei che le cose vadano proprio a questa maniera: ma son sicuro, che se andasse così, ne nascerebbe qualche cosa di molto simile a quanto abbiamo dinanzi. E valga il vero. Questo è un ritratto di fanciulla.
“Ell'era bionda, ell'era come il sole di maggio. In lei era il sorriso delle albe infinite, il balenio dei gioielli, il saettare della fìamma; ardente a un tempo e queta, impetuosa e mite; due estremi confini chiudevano l'anima sua e, nel segreto tesoro, era ogni sentimento ed aspro e squisito. Chiara a somiglianza dell'alabastro era Fiora d'Vurlàn, alla quale ogni parola d'esaltazione formava spontanea corona come a termine fisso”.
Non la bella figlia ci appare, ma alcuna sua qualità astratta, sorriso, balenio, ardore; illustrata con immagini molto generiche. Alla fine una cosa semplice è detta con ricercata solennità. Eppure, non si può dire che l'insieme sia brutto: o almeno, non è volgare.
Nella stessa novella la visione di Fiora addormentata sorge alla fantasia di un innamorato.
“Non eran forse in quel riposo aspettante le dolcezze delle albe prime? (Questa è la battuta, che chiude la strofe della visione; si sente la pretesa e la vanità. Poi riprende con lirica abbondanza).
”Frutto di more, soavità di biancospino, profumi di giardini e di vigne, e candori d'alabastro, tutto sarebbe stato suo ... “.
Ormai, la maniera si vede; osserviamola in un saggio più pieno.
Le “belle figlie del mare” son parte principale di una novella, il Gioco, dove si vedono prender diletto gaio e crudele di un povero mostriciattolo. Il poeta le presenta così:
“Andavano a gruppi le gioconde figlie del mare e delle sabbie ardenti, a stuoli numerosi che la pesca è un'opera grave! Partivano al levarsi della diana, seminude coi brevi capelli disciolti, e, poiché l'aurora saliva nei cieli erano su la spiaggia a gettare le reti”.
È il preludio; date le abitudini dello scrittore, è abbastanza misurato. Ma il calore crescerà a mano a mano. (Mi contento di sottolineare qualche particolare dove il buon traduttore si dimostra più ingenuamente).
”L'energica vita le aveva rese agili come fiamme guizzanti, forti come tanaglie e non v'era gagliardia ch'esse temessero”.
Noto soltanto che quelle immagini di fiamme e di tanaglie sono nate dall'aggettivo: che, sulla carta scritta, ha nascosto le fighe del mare.
“Sotto il vento, sotto le grandi tempeste passavano indifferenti, le chiome scompigliate, superbe nella perfetta linea della loro magnifica persona”.
La bella immagine risorge; e con essa un desiderio di rappresentarne tutta la bellezza nel canto, un ardore che si esalta a un tratto e prorompe con foga vasta.
“Gaie e selvagge; dal colore del grano e delle arene e del ferro; dai candidissimi denti che ponevano, sul vermiglio delle tumide labbra e sul tono caldo del volto, improvvise dolcezze nel sorriso che trasfigura (!); passavano come le procellarie dal volo possente, tutta animando l'amara vastità della landa e la verde solitudine del mare. Nel loro cuore era la placida indifferenza dell'infinito e, negli occhi, il saettare della luce”.
“Gole d'oro, ocelli di smeraldo, verdi, vivi di bagliori metallici, esse cantavano, come in maschia sfida, dall'aurora ai pallidi crepuscoli, ininterrottamente a simiglianza del grande mare del quale erano figlie; cantavano al piacere, all'offerta, senza la vereconda ipocrisia delle vecchie fole”.
Qui c'è, almeno fino a un certo segno, vita, movimento, splendore; il poeta ha quasi vinta la mano al traduttore. Ma non è questi uomo da restar molto al di sotto; si rifà subito, con uno dei suoi commenti più mirabili, muovendo da quella nota astratta, “il piacere, l'offerta”, così malauguratamente accennatagli.
“L'amore era il miglior frutto della terra, esse lo sapevano e lo stimavano esaltandolo. Così ai loro occhi di belle, libere fiere, tutto, che non fosse sincrono alla loro forza di vita, appariva detestabile e doveva essere distrutto. Ogni energia superiore è come un vortice nel quale le cose miserande scompaiono”.
Parole non ci appulcro. Cito ancora, dove mi par di sentire strider la penna del traduttore alla goffa chiusa, ma piccola descrizione.
Si parla della pastora di Cerbiatta.
“Ella contava le stelle: tante notti serene, stesa su l'erba, all’agghiaccio, vicino alle bianche pecore che mettevano un languore ne l’oscurità, s'era divertita a contare le stelle e ne aveva contate a centinaia, poi s'era addormentata con qualcosa di bianco nel pensiero: con una inconscia leggerezza di spirito, fra le corolle che le si curvavano sul viso, ed aveva sognato di volare”.
Questa è la poesia nella sua purezza. Io ricordo, da una novella di Daudet, un'altra notte deliziosa, d'un pastore e d'una fanciulla, all'agghiaccio, col profumo delle pasture intorno e il fresco delle stelle sul viso. Ma non la invidio; e qui forse son qualità di poesia più lieve, più alta.
Consoliamoci ancora un poco. È un'altra notte; non tanto sentita dentro l'anima questa, ma offerta con semplicità alla gioia dei nostri occhi; una notte di primavera.
“Devila si scioglieva i capelli, alla luce lunare, per evitare le malìe del maggio. La vedevo eretta in un quadrato di puro argento e vedevo le sue chiome farsi opache e il profilo di lei accentuato da un albore diffuso; dietro e, più lontano era la trama di una siepe e l' incrociarsi di qualche rama in fiore”.
Il traduttore qui non si rivela se non a quell’accentuato; e forse all'uso costante di introdurre le immagini con una nota generale (ponendo non le rame che si incrociano, ma l'incrociarsi delle rame). Se non si rivelasse mai altrimenti! Ricordo una descrizione della pineta d’inverno, a lume di luna.
“Un bianco mantello di bioccoli e diamanti, di lane, di cristalli, di gemme aveva disteso su tutti i rami, su ogni piccola foglia, per interminato cammino, la galaverna. Folgoreggiò la foresta, fatta quasi più viva in quel lumeggio di cristallo (e parve un immobile mare acceso dall'apparizione del piccolo mondo morto che la legge eterna sospinge con noi verso ignote costellazioni).
Qui vedete il poeta e il traduttore: l'uno ha veduto lo spettacolo con occhio puro e 1'ha ritrovato mirabilmente nelle sue parole leggere: l'altro ha trasportato tutto questo un poco rigidamente in astratti, ha aggiunto una sua parentesi - io l'ho segnata sulla carta - esornativa [02], s'è provato a rialzare il tono alla fine ... Ma non è riuscito a disperdere l'incanto.
Questa qualità di espressione, che anche per pochi esempi ha potuto rappresentarsi nettissima ad ogni occhio, non è una particolarità, come si sarebbe detto un tempo, formale, accidentale; un difetto che si possa togliere ... Tutte le operazioni dell'arte di Beltramelli sono ordinate ad essa. Se ci si pensa mi poco, si capisce che non potrebbe essere altrimenti. Dal modo com'è scritta sola una pagina si può comprendere quale sia in lui il novellatore; l'osservatore di uomini e il descrittore di paesi; il celebratore della Romagna.
***
È un paese, dove alle solitudini alpestri succedono le pianure, popolate di immense città, e poi le amare lande interminate, le foreste millenarie. È un paese vasto e selvaggio; il mare lo circonda urlante, livido, con le ignote voragini. Le cose vi appaiono come trasfigurate da una luce apocalittica; hanno bagliori foschi e sanguigni, iridescenze portentose; ad ora ad ora si rivelano nel lume roseo dell'aurora, o nel lividore spettrale di un lampo che squarci la tenebra. Un esempio solo. Una città, che porta il nome di Ravenna, vi appare “come un'enorme muraglia frastagliata, fusa nel più solido metallo di fronte al cielo vesperale, luminoso di rossi violenti ... Le sue alti torri erano come antenne nere, accennanti un saluto al mare ... Io vidi la Taciturna coronarsi di immobili incandescenze per i fuochi del sole ... “.
Essa è anche
”la terribile città nascosta in fondo agli orizzonti, Ravenna cupa, circondata perennemente da un'immensa turba di uomini che la fame sogguarda e il mistero assedia”.
V’hanno fra loro esseri strani; creature tra il pazzo e il selvaggio, che vagano senza posa mai e senza comunione con l'uomo, per le selve e per le lande; altri che han perduto quasi l'uso della parola e delle facoltà umane, e vivono come fauni in fondo alla foresta. È una folla di solitari; gente che vive in capanne perdute, che si nutre dei frutti della terra, o piu' campa di caccia e di pesca; strani filosofi naturali, come Rabièl, “il semplice filosofo dalle inesauribili amarezze ironiche”, “che scrutava il pensiero delle bestie” e “andava sempre a capo scoperto in omaggio a sua madre: la Terra; in onore al Grande Spirito: il Mistero”; come Maraviè, il saggio della landa, che “il giorno andava a visitare i malati e la notte guardava le stelle” come tanti altri, cenciosi, vagabondi dai piedi nudi e dalla misteriosa sapienza, stregoni e indovini di virtù non umana, figli della solitudine e del silenzio di cui rendono fra gli uomini le voci con apologhi e
La religione ha una parte suprema nella vita di queste tribù. È una specie di paganesimo mistico, di naturalismo orgiastico. Essi vivono in comunione profonda con la natura; ne adorano le potenze, ne celebrano i fasti con fervore assiduo e violento. Una strana mitologia si rispecchia nei loro discorsi; con oscure allusioni al Grande Spirito che vive nella Casa dei Tuoni (il cielo): ad animali misteriosi, come Nigar, il Corvo che conosce le origini dei mondi, e la serpe Amstrèss (mi striscio): a cento altri fatti ed esseri strani. Ma sopra tutto adorano il sole, le stelle, la terra, li invocano con nomi religiosi, li cantano in canzoni svariate, dal ritmo oscuro, che hanno insieme dell'inno e della preghiera. Il sole è invocato “anima dei grani, signore dei sorrisi, signore delle stelle, grande vecchio dei cieli … “; la luna “corpo ferrigno, anima di bambace, sorella luna ... “.
Altri inni, altri canti vanno alla primavera, all'amore, alla divinità del mare. Cerimonie speciali festeggiano le stagioni con solennità di danze, di musiche, di orgie. Il culto ha anche una parte magica, più segreta, per cui si vincono le malìe imponendo i corpi affatturati ai roghi innalzati in mezzo alle dune, o facendo recitare alle turbe versetti e formule virtuose, o suonando musiche secondo gli antichissimi riti. Questa gente porta dei nomi simbolici e pittoreschi. Le donne si chiamano Nuvola, Gelsomino, Alloro, Allodola, Rossa di Splendore; gli uomini Ardito, Vincitore, Olmo, Meravigliato, Velluto, Sicuro, Sole; i bimbi Cardellino, Azzurrino ... Si apostrofano col patronimico solenne; - Senti Gabriele di Glafira, e tu Zurdana di Era, e tu. Ombra di Telespar! - Singolari in ogni altra cosa, negli atti, nei nomi, nei visi, nei riti, non sono meno singolari nelle parole. Parlare è una delle occupazioni principali della loro vita; per quanto l'autore ce li soglia rappresentare in principio muti, in posa di severità assorta. Parlano dunque con un linguaggio immaginoso e fiorito, tutto di metafore, di sentenze, di enimmi. Si sentono, fra contadino e contadina, frasi come questa “Svegliati ... nube del mare, viso di perla ... “; oppure “addio, occhi di fumo; addio, suora di Cristo!”.
Si potrà dire, al più, che egli ha messo, per bizzarrìa, nomi romagnoli a certi sfoghi tra lirici e romantici e fantastici del suo animo riscaldato dalla lettura. E forse avrebbe potuto con effetto più verisimile collocare le sue finzioni nelle praterie, dove vivevano un tempo gli eroi di Fenimore Cooper o di Gustavo Aimard c'è tanta somiglianza fra quei poetici Pellirosse e le tribù beltramelliane! Viso, nomi, costumi, mitologia, linguaggio, pose e fioriture fantastiche; senza i moccassini e il ciuffo delle penne in capo, ci sarebbe da scambiarli. Se non che il poeta nelle sue creazioni è libero. Ha voluto servirsi del nome di Romagna? E Romagna sia. A patto, s'intende, che non s'abbia a prender sul serio, come una testimonianza della nostra terra bellissima e cara. Che testimonianza non v'ha in ciò d'altro che della infelicità dello scrittore, della sua insufficienza a osservare e rappresentare nettamente. La realtà gli sfugge.
Delle cose resta nella sua mente solo un'ombra informe, una impressione vaga e astratta. Egli s'affatica a realizzarla; se così posso dire, vorrebbe esprimerla in tutta la pienezza; e non riesce ad esprimere se non lo sforzo suo vano e la pretesa e l’impotenza. Egli è sempre e sopra tutto un poeta tradotto in prosa, come dicevamo inadeguatamente. Il lirismo oscuro della sua anima, i suoi ardori di passione di eroismo e di magnificenza riescon sulla carta figure d'uomini e di paesi; e gli uomini son fantocci e i paesi sono scenari di cartone. Egli è l'uomo di tutte le contraddizioni e di tutte le stonature. Scrive delle novelle, ma non sa novellare. I suoi racconti non hanno né ordine né economia né svolgimento; le sue favole non hanno né consistenza logica né interesse drammatico. Sono descrizioni, o meglio pretesti a descrizioni.
Quando la descrizione dei personaggi e dei luoghi è finita, anche la novella è finita. O se qualche cosa segue, è un altro quadro, un'altra descrizione; una successione di visioni staccate, come lampi che squarcino la notte e rivelino col breve splendore gli oggetti fissati in una immobile posa. Inoltre la descrizione è poetica, cioè intesa a soddisfare i bisogni e i desideri del poeta. E come questi bisogni sono oscuri, ma generali, e in quel che rendono le qualità o i caratteri del suo lirismo immutabili, la loro impronta sulle cose e sugli uomini è inevitabile e monotona.
Infine, è un romantico; non meno violento che ingenuo. Dovrò io dimostrare anche una volta tutto quel che c'è nella sua arte di coreografìa e di dismisura? Gli eroi, tipi convenzionali ed eterni, della bruttezza, della bellezza, della forza o della miseria; il tragico destino che li avvolge; la qualità portentosa dei loro dolori, dei delitti, delle passioni; l'eccesso dei chiaroscuri e delle antitesi; l'enfasi delle descrizioni e delle tirate; e quell'accento ispirato e quella posa di vate e di filosofo; quella tumultuosa signoria infine del temperamento lirico su tutte le cose, non son questi i segni, o se volete, gli scenari e i ferri vecchi del romanticismo?
Romantico è il suo paganesimo: nella mistura bizzarra degli antichissimi miti della terra latina (non certo della Romagna) con reminiscenze letterarie modernissime; nel contrasto fra un sentimento della natura squisito nativo con la goffaggine preziosa e spettacolosa dei riti e delle orgie, che dovrebbero simboleggiarlo.
Romantico anche quel che meno sembra; per es. lo sfarzo della lingua e l'artifìcio accademico dell’elecuzione, in cui si sfoga l'odio del volgo, la posa aristocratica e fastosa, il bisogno di singolarità che sono in fondo di ogni natura romantica.
I vocaboli rari e i periodi numerosi sono qui un poco come il gilet rosso e la berretta di velluto dei primi cavalieri del romanticismo francese.
Ma romantica sopra tutto in lui è la tensione e l'accensione poetica, nella quale, così come nel cieco abbandono alla foga della torbida ispirazione, è da vedere la ragione ultima della sua maniera.. E la maniera è unica per tutto. Regna ugualmente nelle novelle, e nei libretti descrittivi, dove l'immagine della città o del paese traluce come incerto miraggio in mezzo agli inni e alle parabole; e nei romanzi. Non parliamo del Cantico, dove i soliti procedimenti fanno dei pescatori di Comacchio una schiera di comparse da operette, tragiche, selvagge e ridicole; di Roma una specie di Babilonia delle maledizioni dei profeti biblici.
Se non che qui la maledizione ha avuto il suo effetto, e travaglia libro e lettori col flagello delle descrizioni implacabilmente estetiche; innanzi al quale ogni interesse, della parte autobiografica e di confessione, vien meno.
Ma gli uomini rossi sono una rappresentazione, che vorrebbe riuscir nuovamente satirica, dei repubblicani di Romagna. E come satira valgon poco; poiché l'autore ha troppo voglia di descrivere e troppo si lascia andare a spiegare le ragioni e magari a far la teoria scientifica del carattere romagnolo. La sua fantasia è troppo accesa od enfatica per esser gaia. La fata ironia consola più volentieri la povera gente, che della sua condizione mortale accetta tranquillamente ogni disgrazia, che non i vati e gli eroi, stirpe divina: e Beltramelli era forse, o voleva essere, troppo in alto per riceverne i doni. Così egli è condannato a prender tutte le cose sul serio; a far del bello stile, delle antitesi, delle tragedie, ma non a ridere mai, con la fantasia o con la parola. Ma nei limiti d'una rappresentazione un poco carica ed esagerata del vero.
Gli uomini rossi hanno qualche grazia non volgare. Cercando lo spirito e l'arguzia, l'autore ha trovato almeno la semplicità: si è contentato di accennare, di abbozzare. Certe figure come il cavalier Moscardo, Bortolo Sangiovese, il gruppo degli anarchici; certe scene come il banchetto e l'inaugurazione del monumento al naturalista; pur non superando di molto il pupazzetto convenzionale o la cronaca, acquistano, dallo stile accademicamente, ma sobriamente fiorito, un sapore non comune e non ingrato. La materia non è trasfigurata tanto da perdere ogni segno proprio e ogni interesse: ma abbastanza per riuscirci, in quel tramutamento tenue e bizzarro di cose tutte famigliari, piacevole.
V’ha poi una scena al castello degli Elei, su nell'Alto Appennino (“in quelle solitudini dove non si udiva se non il muggir delle mandre e le grida che mandano i venti passando nel loro viaggio vertiginoso”), degna di speciale ricordo.
È la prima notte di due timidi adolescenti, su cui la paura, alitando notturna nelle vecchie sale del castello, opera quel che solitudine e amore insieme non aveano saputo. Alle linee e alle figure leggere manca solo un tocco, un alito, un nulla per uscir libere e vive dagli ultimi ritegni della maniera. Né questa scena è sola. Ma dovunque la mano dell'artista ha avuto ventura di calcar meno insistente, dovunque un'esile trama o reale o fantastica può rivelarsi, pare che una grazia particolare l'accompagni.
Ricorderò la novella di Pirigiuli, il campanaro che rinnova, non senza efficacia propria e forse con più gentilezza psicologica, la difformità e l'amore di Quasimodo [07]. E se lo spazio mi consentisse vorrei mostrare la bellezza, non importa se disuguale o imperfetta, del Gioco, dove indimenticabile è la visione delle belle pescatrici danzanti in una limpida mattina torno torno al povero gnomo attonito, nella gaiezza serena e crudele della loro gioventù trionfante. Vorrei ricordare la figura del vecchio novellatore che incanta i bimbi con le vecchie fole.
Sono tre belle figlie della montagna, votate dal padre a perpetua verginità che le consuma; e scendendo per guarire alla marina di Cervia il dì di S. Lorenzo, il mare è galeotto alla loro voglia d’amore. La rustica avventura non perde il suo sapore romagnolo, di visi e costumi e paesi colti dal vero che ci è più famigliare; ma pur dalla sostenuta e talora squisita eleganza del narratore, acquista gentilezza; e l'idillio, nella grande spiaggia piena di sole e di risa e di gioia, ha una felicità, che oserei dire poetica. Le stonature, e sieno pure stridenti, non bastano a spegnerla. Infine, meno felice forse, ma più significativa di tutte, ricordo la novella Alle porte del cielo.
Il tono del racconto per la prima volta si trova che conviene all'argomento. È una scappatella di ragazzi, i quali han creduto a quelle porte del cielo, di cui contavan loro le fole, e giù dai loro monti, come in fantastica avventura, sono discesi un bel giorno fino ai limiti della pianura, fino alla pineta, dove le porte del cielo si aprono veramente per le loro piccole anime curiose: e mostrano il mare.
In questa pagina di ricordi infantili è naturale che ogni cosa, anche piccola e comune, risorga come nuova, grande e strana in vista; con quello splendore che dopo la prima volta nessuno di noi ha saputo più ritrovare, trasfigurata quasi, in una luce di sogno e di nostalgia. Ma tutta l'opera di Beltramelli io vorrei dire che è nata così; da una nostalgia di sogno infantile!
Le montagne e le lande e il grande bosco misterioso di cui egli ci narra, dovettero alcuna volta apparire all'occhio meravigliato di un fanciullo. In quell'età in cui tutto è nuovo e miracoloso, in cui basta un campo di terra nuda, e un rio, e un ciuffo di salici o di robinie a render nella piccola anima l'impressione di ogni infinito di lande e di acque e di selve, egli visse certo, fanciullo muto e assorto in qualche parte più selvatica della nostra terra, dove il monte è più aspro, dove la pineta è più folta. In quei luoghi, fra gli uomini d'aspetto e di parola rude, che sorgevano intorno a lui come ombre gigantesche, egli vide ciò che dal cuore non gli doveva cadere mai più.
Gli toccò forse - e qualche traccia ne traluce dalle sue pagine - una giovinezza solitaria e chiusa? In cui gli ardori dell'animo o dei sensi lo consumavano silenziosi e segreti, in cui l'uso e l'esperienza delle cose reali gli mancò, e realtà per lui fu quella che il violento desiderio gli fingeva? E forse il mondo interiore gli scemava voglia e potere di mescolarsi al commercio comune; e forse il senso della sua solitudine in mezzo al mondo reale lo spingeva a esaltarsi più fortemente nella visione interiore; e tutti gli impeti e le forze del suo sangue e della sua giovinezza erano dentro lui come un fuoco, che in quelle fantasie consumava oscuramente il suo caldo e i suoi bagliori.
Tutto questo gli cresceva dentro una piena di lirismo tanto più torbida e bollente quanto più il silenzio e la solitudine valevano a far fioca la voce, che avrebbe dovuto sfogarlo. Alle quali disposizioni e qualità dell'artista se s'aggiunga che molto probabilmente egli non ritrovò se stesso, con lenta e tranquilla ricerca, nella consuetudine di una cultura vera; ma forse si riconobbe, con improvviso stupore, nello specchio delle più vili scritture moderne, nelle prose decadenti, preziose, simboliche, estetiche e peggio s'è possibile, sì che in quei modi e in quello stampo gli proruppe il torrente della poesia che nel suo animo non aveva né forma né nome, alla fine io credo che l'arte di Antonio Beltramelli ci sarà rappresentata in un modo molto simile al vero.
E ne sorgerà, anche nella nostra mente, un'immagine un po' oscura, un abbozzo confuso, il cui profilo non è netto, in cui l'impronta del viso non si riesce a distinguer chiaramente. Ma tale è lo scrittore; a cui le qualità e le virtù abbondano per riuscir grande, ma l'eccesso quasi di esse e il confuso tumulto lo fermano a mezza via. Nulla dalla natura par che gli manchi; se non la felicità.
La bellezza gli resta ribelle; non cede al suo desiderio se non rara e fuggitiva; più spesso par che irrida i suoi sforzi vani, o lo inganni grossamente, con immagini false. Ma non importa. Noi vediamo - ed io ho posto ogni cura in rilevarli senza riguardo - i difetti, le disuguaglianze, le goffaggini; e sentiamo insieme che tutto questo procede da un'origine non volgare, da un'ispirazione pura, anche quando i più vili mezzi la aiutino a manifestarsi. Sien pure vecchi e falsi e frusti gli artifìci; a lui sono nuovi, e nel suo ardore è come se li ricreasse per sé.
La sua retorica è violenta, dicemmo, ma ingenua; e questo lo salva. La poesia si sente nelle sue pagine come un dio che è fuggito; ma l'aura del suo passaggio ancora non è venuta meno.
Si fermerà alcuna volta?
* Da claudiogiunta.it di Matteo Marchesini Su Renato Luigi Giuseppe Giulio Serra (Cesena, 5 dicembre 1884 - Monte Podgora, 20 luglio 1915)
Il risultato di questa inappartenenza è una forma appena larvata di nichilismo. Di qui l’isolamento: che si rivela allora tutt’altro che astratto, e anzi complice di un clima storico molto preciso. Se Serra è diventato un mito, è anche perché ha espresso con accenti indimenticabili le angosce comuni a una generazione orfana delle certezze dei padri - una generazione che si sente “sciupata” prima che bruciata, e che per non consumarsi invano cerca anzi disperatamente una prova del fuoco capace di strapparla alla palude della rassegnazione, a una corrosiva tisi ideologica. Contro il senso sempre più vertiginoso di gratuità, i suoi intellettuali provano a definire un irraggiungibile ubi consistam: e ne deriva un aut aut già esistenzialistico, fissato in maniera esemplare da Michelstaedter e da Lukács.
Da una parte, Serra parla quasi come un tolstoiano, e giudica la guerra un puro fatto insensato - fatto certo enorme, e tremendo, che l’uomo non sa dominare, ma che a sua volta non riesce a dominare l’uomo fino in fondo. Può distruggerlo, è vero: non però trasformare la sua identità, né il ritmo millenario della vita: “non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura”.
Dopo queste constatazioni, infatti, non solo arriva ad accettare la guerra, ma addirittura - lui sempre inappartenente - vi aderisce, ansioso di affrontare un trauma che chiuda finalmente la bocca a una letteratura percepita ormai come parassitaria o perfino oscena, e tuttavia inasportabile dalla propria esistenza quotidiana. Serra immagina qui che i soldati in marcia, senza più fede né in Cristo né nella nazione, possano raggiungere comunque una paradossale comunione nell’insensatezza, pronta a rovesciarsi nel suo discorso in una forma di assurda speranza. Non è vero, insomma, che la guerra non cambia niente, se calma le angosce consuete in un’angoscia così definitiva da autoannullarsi, e se permette di abbandonare senza rimorsi una routine culturale o politica ormai logora. Ecco dunque la crepa, la sfasatura: da un lato si riconosce che il conflitto imminente non ha senso, e dall’altro si affida a questo nonsenso una funzione redentrice. Allo scettico stoicismo si mescola così un orgoglio sinistro, che l’autore stesso considera letterario, ma che presto - a riprova che la letteratura può essere tutt’altro che innocua - pagherà insieme a molti con la morte.
E già da un aldilà sembra venire questo Esame, come del resto altri saggi di Serra. Parte del loro fascino sta infatti in una finzione purgatoriale, in un tono dove l’eco dell’Ottocento umanistico scivola nel cupio dissolvi del Novecento eliotiano.nPer chi vede così la realtà, anche l’arte si riduce a un velo trasparente davanti al nulla. Perciò Serra finisce per interessarsi, più che ai testi in se stessi, alla condizione esistenziale in cui ci si trova mentre li si legge. In questo senso, come ha osservato Alfonso Berardinelli, più che un critico l’autore dell’“Esame” è un “critico della critica”, e forse un poeta della saggistica. Attraverso le sue panoramiche, le sue note occasionali e i suoi ritratti, costruisce una delle più suggestive autobiografie individuali e generazionali della nostra letteratura moderna; e lo fa, cosa decisiva, in una prosa dove le sottigliezze del ragionamento sono inscindibili dall’aura lirica.
Qui sta la forza, ma insieme la debolezza di Serra. Perché scivolando con aristocratica nonchalance dai testi ai contesti, finisce per promettere più di ciò che dà, anche sul piano di quella analisi stilistica in lui spesso piuttosto suggerita che concretizzata. E d’altra parte, il suo personaggio-critico è così credibile, che il lettore gli si affida ugualmente volentieri, attratto almeno quanto insoddisfatto dalla sua fascinosa inappetenza.
Tuttavia, le divagazioni “atmosferiche” serriane non hanno sempre la stessa forza poetica: e gli scorci paesistici, con le loro acquerugiole autunnali, le foglie al vento, e l’uggioso cielo romagnolo che di là dai vetri rischiara appena la pallida luce della biblioteca, spesso non sembrano di buona lega. Sono più efficaci i ritratti, dove l’artista dipinto si dissolve a poco a poco nell’uomo. Si veda ad esempio il saggio su Pascoli, o la spietata pietas dantesca con cui Serra omaggia il mite e svaporante carducciano Severino Ferrari: “egli dura accanto al poeta come l’ombra presso il corpo; che non può stare senza questo e non si può capire”. E a proposito del “corpo”, cioè del vate Giosuè, straordinario è il profilo che Serra dedica a lui e a Croce in Per un catalogo (1910). “Con uno”, sostiene alludendo all’autore dell’Estetica, “si può parlare di tutto; con l’altro no (…) Il Carducci ha delle angustie che Croce non conosce”.
Eppure, dice Serra, “il giudizio di lui, anche nell’ira, investiva la mia persona come un raggio di luce, ne fermava il carattere con pochi tratti scultori; mi sento signoreggiato”.
Dentro i suoi limiti magari antiquati, ogni cosa suona “vera”. Il che spiega perché il giovane critico, malgrado non riesca più a credere alla religione delle lettere, ma solo a tributarle un malinconico omaggio, continui a sentirsi vicino al vecchio maestro “in tutto quel che più mi importa, nel leggere un libro e nel tollerare la vita”. Sebbene a un’altra latitudine poetico-emotiva, sotto questi aspetti la sua opera si situa su un terreno già delimitato da Carducci. Come lui, Serra oscilla tra l’analisi ravvicinata della forma e la “confessione” etico-umorale; e come lui, pur essendo dotato di un cervello molto più filosofico, oppone alla critica delle grandi tragicommedie concettuali la nota filologico-autobiografica e il commento asistematico, ossia “qualche segno sui margini” dei libri, per dirla con la sua consueta ostentazione di trascuratezza.
Ma a volte, lo si è visto, questi segni diventano poi formidabili ritratti, di relazioni oltre che di soggetti; e altre volte, lo sguardo elegiaco e distante con cui Serra sembra essere nato al mondo gli ispira dei virtuosi pezzi panoramici. E’ il caso di Le lettere (1914), una mappa della letteratura italiana d’inizio anni Dieci che descrive il tramonto della civiltà umanistica nell’industria culturale.
Sono gli anni delle avanguardie e delle riviste militanti; eppure Serra registra qui una immutabile impressione di sazietà e di noia, come se tutto fosse la piatta ripetizione di un déjà-vu, rotta al massimo da qualche chiassata effimera e pubblicitaria. Gli ultimi autori significativi sono per lui quelli che appartengono già alla storia: oltre a Carducci, Pascoli e Verga.
Ma se i pontefici della cultura primonovecentesca si mostrano già composti nella loro bara di aspiranti classici, il tempo nuovo non annuncia neppure per il futuro analoghe figure a tuttotondo. Inizia l’epoca degli agit-prop alla Papini, paragonati dall’umanista Serra ai Franco e ai Doni, cioè agli spregiudicati poligrafi rinascimentali; oppure dei massimalisti etici, inibiti da un dramma interiore autentico e tuttavia ambiguo come quello di Jahier, di cui ci è offerto un notevole ritratto. E inizia, soprattutto, l’epoca della produzione in serie. Molti hanno imparato a scrivere meglio, ma mancano le eccellenze, e vince la mediocrità.
Col mélo verista di Luciano Zuccoli, “lo scrittore ridotto a macchina”, e anzi a “una macchina per far dello Zuccoli”, cioè subito trasformato nella caricatura di se stesso, trionfa la novellistica “anonima” per la stampa, cucinata secondo una ricetta che a un vago aroma di Maupassant mischia un lessico dannunziano, dialoghi verghiani e sentenziosità alla France. Poche le eccezioni, che Serra liquida in fretta.
Nemmeno la poesia gli dà gusto. Lascia cadere appena qualche osservazione acuta su Palazzeschi, che proprio perché lavora su una base culturale più labile potrebbe andar più in là dei suoi compagni; ma alla fine, come Croce, pensa che oltre a Di Giacomo il solo o quasi ad aver scritto dei versi durevoli sia Gozzano. In senso lato, però, il vero poeta è secondo Serra il prosatore Panzini, autore di “qualcuna delle novelle che si scordò di scrivere il Carducci”. E’ una scelta miniaturistica e provinciale, che sembra giustificare in un circolo vizioso la sfiducia del critico nella società letteraria. Davanti al campo lunghissimo del suo sguardo svogliato, tutto si rimpicciolisce e livella: così, Pirandello non sembra meritare più attenzione di Beltramelli o Brocchi; e i poeti nuovi come Saba, che stampavano allora dei capolavori, vengono giudicati en passant generici e sbiaditi.
Non sono difetti da poco. Li indicò mezzo secolo dopo Luigi Baldacci in un essenziale panorama della critica novecentesca, sottolineando quanto c’è di inattendibile nel mito di Serra; ma che fosse ancora un mito resistente lo confermò subito Sapegno, rifiutando d’inserire il saggio baldacciano nella storia letteraria Garzanti per cui era stato concepito.
Irritante, per i decani di allora, era anche la scelta di opporre a Serra Giuseppe Antonio Borgese, a lungo considerato, secondo una vulgata diffusasi proprio a partire da una pagina delle Lettere, l’alfiere di una critica sorda ai “particolari”, approssimata e oratoria. Baldacci dimostrò invece che mentre Serra si sdilinquiva su Panzini, Borgese si occupava della grande letteratura europea, e lo faceva con risultati robusti.
Questa opinione, poi ripresa da Massimo Onofri, è più che condivisibile. Ma al di là del caso Borgese, qualche ragione Serra l’aveva, quando lamentava l’abuso delle formule a effetto. In una pagina delle “Lettere”, del resto vicina a certe future polemiche di Baldacci, osservava ad esempio che “lo schema della nostra critica (…) è il dramma spirituale”, dove l’individualità delle opere si dissolve in un racconto di astratte battaglie ideali, e dove si finisce quindi per dar conto con lo stesso tono e taglio dei problemi posti da Dante e da Amalia Guglielminetti. Oggi, cento anni dopo, abbondano gli studi sui sensi allegorici del Nome della rosa, s’insegna all’università il rapporto tra il vero storico di Manzoni e quello dei Wu Ming, e alcuni accademici mandano le saghe della Ferrante a braccetto coi Viceré del ben diversamente appartato De Roberto. Non c’è quindi bisogno di insistere sull’attualità dell’osservazione.
** Dalla Treccani www.treccani.it /enciclopedia/antonio-beltramelli_(Dizionario-Biografico)/ Antonio Beltramelli.
Renato Bertacchini, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 8, 1966
Anna Perenna rimane una delle opere giovanili più significative del Beltramelli. La scelta del tema, cioè la Romagna, descritta con passione epico-lirica, poteva sembrare puramente regionalistica e tale da collocarsi sul piano di ritardate esperienze verghiane e dannunziane; sennonché proprio queste due suggestioni, dannunzianesimo e regionalismo, aspetti abbastanza tipici e caratterizzanti di quegli anni, venivano integrate con il gusto realistico di una tematica campestre e plebea, che andava oltre gli stessi presupposti folcloristici, per diventare piuttosto liricamente soggettiva e mitologica.
Così, dietro la guida di una antica ninfa o dea latina, Anna Perenna, nella raccolta omonima di novelle, il B. conduce l'esplorazione di una Romagna riarsa dal sole, come perduta in certo stupore panico e naturalistico, arrivando a scoprire costumanze primitive e grandiose: la sacra festa dell'agosto e l'incontro gioioso e taumaturgico con l'Adriatico (nella rustica avventura de Le figlie di Judèc); il rito vindice che ancora vige nei paesi vegliati dalle montagne e vuole spenti i traditori e le spie (e vede consumarsi la tragedia di Biarù in La spia); con figure di pastori e pescatori che nella loro selvatica rudezza assumono volto e proporzioni da semidei (nel gioco di una dionisiaca e magica trasfigurazione che investe Il dio degli uomini rudi, Il Fauno, Il vecchio della landa, Il campo delle biscie); con vampate di passione, irruenze elementari e tremende che animano i personaggi, dalla vendetta di Ardì pescatore in La nave rossa alla foga d'amore dei tre fratelli per la bellissima Anzula nei Ciechi; dalla breve e mortale dolcezza di Arabella in La cerbiatta a quella sensibilità così scoperta e acuta che uccide Azurèn, il piccolo cantore di La tribù.
Ancora ambienti e gente di Romagna entrano nel primo romanzo del B., Gli uomini rossi (Milano 1904), contemporaneo di Anna Perenna.
Del 1905, edita a Bergamo, è l'inchiesta Da Comacchio ad Artegna. Le lagune e le bocche del Po, che centra il problema della pesca di contrabbando e mette a fuoco il contrasto di due categorie, quella delle "guardie vallive" e quella dei "fiocinini". Su dati di ambientazione simili si costruisce il romanzo Il Cantico (Milano 1906), specie nella prima parte, che tratteggia la vicenda di Duccio della Bella, il quale abbandona il misero impiego di avvilito travet, per il mestiere rischioso e libero del "fiocinino", del pescatore di frodo nelle valli di Comacchio.
In questa prima parte del Cantico, così diversa dalla seconda, sullo sfondo di una Roma corrotta, biblicamente maledetta, che ricalca il peggiore estetismo dannunziano, il paesaggio nebbioso della laguna, tra le ombre sinistre delle "casone" e i canali, al tempo delle prime burrasche novembrine, risulta per molte pagine tradotto direttamente e giornalisticamente dal vero.
Le prime prove del B. giornalista e narratore, se registrarono un buon successo di pubblico, lasciarono in gran parte diffidente o almeno perplessa la critica. Tanto che, ancora nel 1908, dopo l'avvenuta pubblicazione di Anna Perenna, di Gli uomini rossi e del Cantico, Renato Serra in un saggio famoso poteva rimproverare al B. l'esuberanza descrittiva e lo pseudorealismo, compromesso per di più da uno stile volontaristico e inadeguato.
Il fervore avventuroso che lo spingeva, in qualità di giornalista e di inviato speciale, a lunghi viaggi europei ed extraeuropei (come redattore viaggiante del Corriere della sera pubblicò dal 1907 al 1910 corrispondenze dalla Norvegia, dalla Grecia, dal Nord Africa, che costituiscono il materiale di alcuni suoi libri, da L'ombra del mandorlo a Fior d'uliva), la molteplicità sempre entusiastica delle esperienze che lo faceva rivolgere contemporaneamente alla poesia (con i Canti di Faunus, Firenze 1908, e Solicchio, Milano 1913) e al teatro (con Le vie del Signore, ibid. 1926) contribuirono a farne un convinto interventista alla vigilia della guerra mondiale e quindi, scoppiato il conflitto, ufficiale e valoroso combattente.
Due opere in questo senso restano significative e pertinenti: il romanzo Il Cavalier Mostardo (Milano 1922), come prosecuzione del giovanile Gli uomini rossi, e il volume liricamente biografico su Mussolini, dal titolo L'uomo nuovo (ibid. 1923). Per quest'ultimo, per il profilo evocativo del "duce", né migliore né peggiore di tante altre monografie su Mussolini destinate poi a moltiplicarsi nel ventennio, e del quale la stampa del regime sopravvalutò la portata, basterà ricordare il giudizio osannante e clamoroso di V. Piccoli, che, nel leggerla, ripensava "di pagina in pagina a Tiziano o a fra' Galgario", e per la violenza di certe espressioni credeva di dover ricordare la "somma potenza espressiva del Buonarroti".
Per Il Cavalier Mostardo e L'uomo nuovo non mancò al B. il riconoscimento e il plauso di Mussolini. Militante nei ranghi del partito fascista, console della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, firmatario nel 1925 del manifesto degli intellettuali fascisti promosso da G. Gentile, il B. diventò uno dei maggiori e più qualificati rappresentanti della cultura protetta dal regime. Anche se una sincera passione per l'arte gli salvarono certa dignità e indipendenza letteraria, unitamente a un senso pessimistico della vita, sofferto e irriducibile.
Romagnolo fu il temperamento dell'uomo, romagnola la sua personalità. Tipicamente romagnola anche la sua prediletta dimora quella celebre "Sisa", una vasta costruzione a mezza strada tra Forlì e Ravenna, in frazione Coccolìa, che poteva sembrare una specie di Capponcina dannunziana, per certi abbellimenti, certe rifiniture e arredi bizzarri, in stile tra romagnolo e nipponico, ma rimaneva in realtà una robusta e vecchia casona della piana, schiettamente romagnola, con gli epigrammi, i distici, i motti dipinti dal faentino Luigi Emiliani.
Tra il 1922 e il 1925 i suoi soggiorni alla "Sisa" si fecero più frequenti. Qui, nei suoi possedimenti romagnoli, lo scrittore "fascista" viveva mesi di solitudine, con un sincero compiacimento per il suo ruolo di gentiluomo-agricoltore; e alla "Sisa", nel 1925, portò Yoshiko-San, una giapponese che diventò sua moglie.
Il quinquennio che precede la morte del B. è un periodo di intensa attività. Direttore de La rivolta ideale (1925-1926), organo ufficiale della "Gioventù universitaria", fondatore e condirettore de Il raduno (1927-1928), settimanale dei sindacati fascisti degli autori e scrittori, redattore ordinario per le lettere del Popolo d'Italia, il B. scrisse tra l'altro due nuovi romanzi diversamente importanti, e che valgono a definirne ulteriormente la fisionomia: Fior d'uliva (Milano 1926) e Gli Antuni. Il passo dell'Ignota (Milano 1927).
In Fior d'uliva, come del resto nel precedente L'ombra del mandorlo (ibid. 1923), fa le sue prove estreme un B. di maniera, distratto dietro situazioni preziosamente estenuate, amori viziati da uno pseudo-estetismo languido e corrotto; il tutto complicato da un insopportabile commentare e ricommentare episodi, gesti e figure, nella pretesa di sublimarli come fatti eccezionalmente riservati ed eletti. Diverso e senz'altro migliore è Il passo dell'Ignota. Ancora un romanzo a sfondo politico, che riprende la polemica contro il socialismo dilagante nelle campagne. Qui la cronaca diventa più viva, i personaggi e gli ambienti sono meglio delineati. Certo, i socialisti delle leghe sono sempre presentati dalla parte dei "cattivi", ma le loro gesta precipitano nella narrazione diretta di alcuni forti e realistici episodi.
Questo è il migliore B., che tratteggia figure vigorose e patriarcali di uomini romagnoli, che sa abbandonarsi alla figurazione gentile di fanciulle e di bimbi. Il B., dietro la nostalgia di un sogno perenne, riesce a placarsi, a redimersi in una sorta di limpida castità espressiva. Questo si può dire anche per tutto un gruppo di libri nati dai suoi interessi per la letteratura infantile (da ricordare anche in questo senso, la fondazione e direzione del Romanzo dei piccoli, 1913-15, e del Giro giro tondo, 1921-24); libri delicatissimi e schietti dedicati ai fanciulli, da L'albero delle fiabe (Firenze 1910), al Piccolo Pomi (ibid. 1915), da Le gaie farandole (ibid. 1921) a La Signorina Zesi (ibid. 1921).
Nominato accademico d'Italia per la sezione lettere il 18 marzo 1929, morì a Roma l'anno successivo, il 15 marzo 1930.
01 Dalla Treccani Heinrich Heine. Poeta tedesco (Düsseldorf 1797 - Parigi 1856)
07 Dalla Treccani Salvatore Quasimodo.
Avviato agli studi tecnici, apprese poi da sé le lingue classiche; dal 1941 al 1968 insegnò letteratura italiana nel conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Formatosi nel gusto della poesia ermetica, dopo iniziali riecheggiamenti ungarettiani e montaliani, trovò appropriata espressione alla sua densa e dolente sensualità in trepide visioni di terre, acque, stagioni, in un'aura arcanamente memore di metamorfosi e di miti (Acque e terre, 1930; Oboe sommerso, 1932; Odore di Eucalyptus ed altri versi, 1933; Erato e Apollion, 1936; Poesie, 1938; Ed è subito sera, 1942, in cui confluirono le raccolte precedenti); e successivamente, con l'approfondirsi di quel senso a coscienza del dolore, in evocazioni più aderenti alla realtà storica e sociale, dai modi sempre elegiaci ma più articolati ed effusi, anche se insidiati talora da cadute nel prosastico (Giorno dopo giorno, 1947; La vita non è sogno, 1949; Il falso e vero verde, 1956; La terra impareggiabile, 1958). Negli ultimi anni di vita intraprese molti viaggi in Europa e fuori d'Europa che gli suggerirono diverse composizioni di Dare e avere (1966), la sua ultima raccolta, che è anche un testamento spirituale. L'ossessionante incontro con la morte (già affiorante ne La terra impareggiabile) è un evento dal poeta avvertito come non lontano nel tempo per il peggiorare delle sue condizioni fisiche (“Non ho paura della morte, / come non ho avuto timore della vita”). Ne deriva soprattutto un distacco dalla materia quotidiana e dalle occasioni contingenti che possono aver ispirato le singole liriche. Al graduale affrancarsi del suo linguaggio dallo stretto analogismo iniziale contribuì la sua assidua opera di traduttore dai poeti greci e latini (Lirici greci, 1940; Il fiore delle Georgiche, 1942; Dall'Odissea, 1946; Edipo re, 1947; Canti di Catullo, 1955; Fiore dell'Antologia Palatina, 1958). Curò anche alcune traduzioni da Shakespeare, e compilò un'antologia della Lirica d'amore italiana, dalle origini ai nostri giorni (1957) e un'altra della Poesia italiana del dopoguerra (1958). Un complessivo cenno a parte, inoltre, meritano varie introduzioni prevalentemente dedicate a opere di artisti contemporanei (ma non manca una su Michelangelo), nonché quelle ai volumi della collana «Poeti italiani contemporanei» diretta dallo stesso poeta. Da ricordare anche i volumi Scritti sul teatro (1961), Il poeta e il politico e altri saggi (1967), Poesie e discorsi sulla poesia (post., 1971), A colpo omicida e altri scritti (post., 1977).