Libero del 15 gennaio 2019
Il dibattito sul titolo di Libero
I meridionali alimentano gli stereotipi su se stessi
Al Sud si offendono per terroni, ma nessuno si indigna con Di Maio che non investe per lo sviluppo del territorio.
di Nicola Apollonio
Evidentemente, qualcuno (o più d'uno) ha dimenticato o ignora del tutto la storia del Mezzogiorno d’ltalia, storia che è tutt'uno con la vita di uomini e donne passata a coltivare la terra, dall'alba al tramonto, con la faccia bruciata dal sole. Finché, con l’emigrazione di massa verso Paesi che offrivano di più in termini di lavoro e di guadagni, quella “amata terra mia” cantata negli anni ‘70 da Domenico Modugno non divenne una terra orfana dei “volti come pietra” e delle “mani incallite senza ormai speranza”. Se ne andarono in migliaia, da ogni regione del Sud, con l’aspirazione di fare un po’ di fortuna e poi, con le esperienze fatte all’estero, tornare nei paesi di origine e costruire una mentalità nuova, che guardasse di più all’impresa e allo sviluppo economico, sociale e culturale di quella terronia amara e bella.
Soldi sperperati
Nemmeno gli esempi delle grosse industrie del Nord arrivate al Sud in quegli anni della ricostruzione (la Fiat - Hallis a Lecce, il Polo chimico a Brindisi, l’Italsider a Taranto, il nuovo porto a Gioia Tauro ecc.) bastarono a risvegliare le nostre coscienze e la nostra voglia di riscatto sociale ed economico rispetto quell’altra metà del Paese, il Settentrione, che intanto si era consolidata come forza trainante dell'intera economia nazionale.
Secondo me, chi oggi si sente in qualche modo offeso dal titolo di Libero (ma sono pronto a scommettere che si tratta di una esigua minoranza) non ha ancora trovato la forza per liberarsi una volta per tutte da quell’ombra del campanile che ancora si respira nelle nostre contrade, tanto da non farci nemmeno intendere quand’è che si scherza, come ha fatto Vittorio Feltri chiamandoci “terroni”. Certo, come cantava Caterina Caselli a metà degli anni Sessanta, la verità fa male. Specie quando non si è ancora attrezzati (!) per fare un po’ di autocritica, per individuare le responsabilità oggettive dei residenti che - salvo qualche sporadico scatto d’orgoglio - hanno portato al generalizzato lassismo delle regioni del Sud.
Perché non alzano la voce con il vice premier campano di Pomigliano d’Arco e con la ministra leccese per il Sud Barbara Lezzi, entrambi responsabili dei mancati investimenti per la crescita e lo sviluppo in quelle regioni che fino a pochi anni fa erano addirittura considerate “aree depresse”?. Perché ci dovremo offendere se il direttore Feltri ci chiama terroni e non diciamo invece una parola se in Sicilia mancano le ferrovie, se in Calabria si continua a non avere strade sicure, se in Lucania non c’è un linea che colleghi Matera a Potenza, se in Puglia - come scrive il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Giuseppe De Tomaso - resiste la filosofia del “rinvio“ e se in Campania non si capisce perché gli ospedali debbano ancora essere da terzo mondo?
Noi sbraitiamo (senza comprenderne appieno lo spirito e il significato di un termine) per un nonnulla. Ci sentiamo offesi non dalla nostra incapacità a liberarci da certi retaggi del passato ma per il fatto che un polentone ci definisce, scherzando, terroni.
Serbatoio di voti
Forse, anche questo è un modo per allontanarsi, meschinamente, dai problemi reali che i governi d'ogni tempo ci hanno lasciato irrisolti, perché tutti i governi hanno considerato questa parte di Paese come una specie di zavorra, un ampio territorio che andava assistito e non aiutato a svilupparsi socialmente ed economicamente. Il Sud era visto soltanto come un semplice serbatoio di voti democristiani e comunisti nel quale, ogni tanto, immettere qualche dose di ansiolitici (sotto forma di piccoli aiuti finanziari) per tenere a freno i bollenti spiriti che si temeva potessero esplodere da un momento all’altro. Questo passava il convento!
Perciò, in coscienza, noi terroni che cosa abbiamo fatto per risolvere la vecchia “questione meridionale” se non adagiarci sull'amaca di un'attesa che è ormai diventata palesemente senza sbocchi? Eppure, non come oggi, ogni squadra di governo ha sempre avuto al suo interno un bel numero di rappresentanti del Sud. E che cosa hanno fatto, i nostri deputati e senatori, anche quando i giornaloni che negli anni '80 si dedicavano ancora alle grandi inchieste sullo stato di salute del Paese indicavano il Sud come la potenziale California nazionale? Nulla.
E allora, bando alle chiacchiere: che cosa volete che m’importi se Feltri mi chiama terrone? E sapete perché non m’importa? Perché intanto, conoscendo a fondo il Direttore, so per certo che quel termine lo ha usato scherzosamente; e poi perché io sono nato e cresciuto in Terronia, in questa terra bella e amara. Però, detto fra noi, sottovoce: non potremmo smetterla con i soliti piagnistei e darci un po’ più da fare per rendere questa terra un tanto meno acre? Ne guadagneremmo tutti, soprattutto in dignità.
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Azzurra Noemi Barbuto: chi è la giornalista di Libero criticata per il titolo sui ‘terroni’
Giovanna Tedde
16/1/2019
Ecco chi è la giornalista Azzurra Noemi Barbuto, divenuta nota per un titolo sul quotidiano Libero, che ha scatenato il caos mediatico intorno a sé e al giornale.
Azzurra Noemi Barbuto è una giornalista divenuta famosa per via di un suo articolo dal titolo infelice, pubblicato sul quotidiano Libero nel gennaio 2019. Comandano i terroni: è questo il titolo, diventato subito motivo di discordia e accese polemiche, e al centro di un caos mediatico che ha persino scomodato i vertici del governo, in primis Luigi Di Maio, che dal suo profilo Facebook auspicava imminenti prese di posizione rispetto a una stampa che non fa informazione. Ecco tutto quello che c’è da sapere sulla giornalista di Libero, Azzurra Noemi Barbuto.
Chi è Azzurra Noemi Barbuto, la biografia
Azzurra Noemi Barbuto nasce a Reggio Calabria nel 1983 (non si conosce però la data esatta). Ha coltivato sin da subito il suo interesse per la scrittura, che l’ha portata a dedicarsi al mondo del giornalismo.
Ha collaborato con diverse testate, tra cui Il Tempo e Grazia, ma, come accennato, la sua fama esplode grazie alla sua collaborazione con il quotidiano Libero, fondato da Vittorio Feltri nel 2000 e diretto da Pietro Senaldi.
Il suo lavoro di giornalista non le impedisce però di coltivare anche le sue velleità di scrittrice, e, nel 2018, firma il suo primo libro, intitolato Spegni quel telefono. Ha un fratello che fa il giornalista come lei, e si chiama Fabrizio Maria Barbuto.
La vita privata di Azzurra Noemi Barbuto
Non si sa molto della vita privata di Azzurra, e non è chiaro se ci sia un fidanzato o un marito tra i suoi affetti. Nonostante la sua personalità fumantina e il carattere deciso, Azzurra Noemi Barbato è molto riservata rispetto al suo pro[i, NdR]vato.
Azzurra Noemi Barbuto vive a Milano, dove si è trasferita per motivi di lavoro, ed è qui che la sua fama si è accresciuta in modo notevole e l’ha portata a diventare una delle penne più effervescenti della carta stampata.
Non si conoscono i guadagni della giornalista e scrittrice calabrese.
Azzurra Noemi Barbuto in 4 curiosità
- La giornalista è una grande amante degli animali, soprattutto di cani e gatti.
- Nel gennaio 2019 è stata ospite di Piero Chiambretti, nella trasmissione CR4-La repubblica delle donne, per parlare dell’affaire intorno al titolo di Libero che l’ha vista sommersa da una valanga di insulti (e persino minacce, a suo dire).
- Adora i selfie che condivide soprattutto sul suo profilo Facebook per la gioia dei tantissimi fan, folgorati dalla sua bellezza.
- Il 18 ottobre 2020 partecipa alla puntata di Non è l’Arena ed è protagonista di uno scontro con il conduttore, Massimo Giletti, per differenti opinioni sul caso Bellomo, l’ex magistrato accusato di maltrattamenti e atti persecutori nei confronti delle sue collaboratrici, difeso dalla giornalista in puntata.
imilleperlitalia.blogspot.com/2015/05/gaetano-salvemini-il-risorgimento-e-la.html
Gaetano Salvemini, il Risorgimento e la questione meridionaleGaetano Salvemini, storico e politico, fu per tutta la vita un convinto sostenitore del Risorgimento e dell’Unità. Fu a Rionero in Vulture, nella casa di Giustino Fortunato (meridionalista e meridionale, amico di Benedetto Croce e di Gaetano Salvemini), che nell'ottobre del 1911 venne scelto il titolo L'Unità per il nuovo settimanale che Salvemini si apprestava a fondare e dirigere. Fu proprio Fortunato a suggerirlo, con ciò intendendo che questa rivista divenisse uno strumento per un compimento ulteriore dell’Unità nazionale ossia un suo rafforzamento. Il Salvemini, come anche il Fortunato,intendeva infatti l’Unità d’Italia non come un dato statico appartenente al passato, bensì quale una realtà dinamica ed in corso di realizzazione. Il Volpe, un grande storico d’idee politiche lontanissime da quelle di Salvemini, aveva espresso questo concetto nel suo saggio L’Italia in cammino, che delineava un processo d’unificazione iniziato ben prima del secolo XIX e che continuava anche dopo il 1861. Il Salvemini, come tutti gli altri principali storici del periodo risorgimentale, come i due grandi Gioacchino Volpe e Rosario Romeo, non fu una sorta di vuoto apologeta del processo d’unificazione e seppe mostrarne assieme gli aspetti positivi e negativi, le realizzazioni e quello che restava ancora da compiere. Il loro quadro espositivo ed interpretativo risulta quindi inevitabilmente articolato e molteplice, essendo la realtà storica essa stessa tale, sempre e comunque. Tuttavia, al momento del redde rationem, Salvemini diede un giudizio favorevole al Risorgimento come storico, mentre come politico sempre sostenne l’unità italiana ed il patriottismo. Ciò premesso, è possibile ora valutare le cause, secondo Salvemini, della “questione meridionale”. Egli ne indicava tre: 1) uno stato eccessivamente accentrato; 2) la concorrenza dell’economia settentrionale; 3) la struttura sociale feudale del Mezzogiorno. Egli supponeva quindi tre motivi, uno amministrativo, l’altro economico, il terzo sociale. Esaminiamoli ad uno ad uno.
1) Per ciò che riguarda il primo punto, il Salvemini suggeriva una riforma in senso federale dello stato italiano, poiché egli riteneva che questo avrebbe favorito lo sviluppo di tutte le regioni, del sud, del centro, del nord. Tuttavia, esiste un’importante corrente storiografica che afferma la positività per il Mezzogiorno dello stato nazionale accentrato. Ad esempio, Emanuele Felice ha spiegato il miglioramento degli indicatori sociali del Meridione a partire dal 1861 in termini di dipendenza da fattori endogeni, ovvero al miglioramento della condizione degli indicatori sociali nazionali: “La categoria interpretativa della “modernizzazione passiva” proposta da Luciano Cafagna appare la più consona per dare conto degli avanzamenti del Mezzogiorno nel campo sociale, forse più di quanto essa non lo sia relativamente al reddito. Il Sud, come già detto, si sarebbe semplicemente avvantaggiato dei miglioramenti del quadro generale, nazionale ed anche internazionale (per quel che riguarda, ad esempio, l’estensione dell’istruzione obbligatoria e di base, oppure la diffusione delle pratiche e delle infrastrutture igieniche e sanitarie); ne avrebbe beneficiato “passivamente”, ovvero senza particolare reattività da parte di autonomi soggetti locali, ed anzi con una certa lentezza, dovuta a condizioni endogene di ordine istituzionale e culturale”. Lo stesso Salvemini, che pure era un federalista, riconobbe che lo stato accentrato era stato una necessità per l’Italia: “quella monarchia burocratica, rappresentativa, censuaria, era, un secolo fa, il solo ordinamento politico ed amministrativo, con cui potesse essere soddisfatto in Italia il bisogno di indipendenza e di coesione nazionale”.Si deve inoltre aggiungere che la struttura statale accentrata, sul modello francese, assunta dallo stato italiano al momento dell’Unità era stata adottata anche con il concorso determinante della classe politica ed intellettuale del Meridione. Diversi pensatori settentrionali, come Balbo, Gioberti, Cattaneo, erano unitari in senso federalistico, mentre invece nel Mezzogiorno esisteva una netta prevalenza a favore d’uno stato accentrato sul modello murattiano, ossia napoleonico. Non è un caso che il grande giurista PasqualeStanislao Mancini, riformatore del diritto internazionale con la sua concezione di stato nazionale, fosse un meridionale (antiborbonico ed emigrato a Torino, dove divenne prestigioso docente universitario).2) La seconda ipotesi di Salvemini fra le cause della “questione meridionale” è quella definibile del meridionalismo classico, propria anche di Fortunato e Nitti, rivisitata da Gramsci e ripresa dagli storici marxisti, infine definitivamente confutata da Rosario Romeo. Essa riconosce che il divario preesisteva all'Unità, ma sostiene che si sia accentuato dopo di essa, o per le politiche governative sbagliate (quelle della Sinistra storica però, costituita in prevalenza da meridionali), o per la legge del "dualismo economico", ovvero che le aree già più sviluppate sono riuscite ad attrarre in misura maggiore capitali, personale ecc. dal resto d'Italia. Tuttavia, l’idea del Salvemini di un Mezzogiorno svantaggiato sul piano fiscale e degli investimenti statali da parte dello stato nazionale è stata confutata dallo studioso di statistica ed economista Corrado Gini. Questo studioso, conosciuto internazionalmente per il famoso “indice di Gini” che da lui prende il nome, nel suo saggio “L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni” smontò completamente le teoria del Salvemini e del Nitti su di un Meridione sfavorito nelle politiche economiche dello stato. Il Gini poté respingere le loro ipotesi sulla base di dati oggettivi di ordine matematico, che calcolavano quando il sud versava allo stato centrale e quanto riceveva indietro. L’opera del Gini segnò una pietra miliare nel campo degli studi e dei dibattiti su questo argomento specifico: neppure il Nitti ed il Salvemini lo contraddissero o pretesero di smentirlo. Anche l’ipotesi del dualismo economico quale puramente dannoso agli interessi del Meridione ha ricevuto poi confutazione da parte di uno dei più grandi, o forse il più grande, degli storici del Risorgimento, ossia il siciliano Rosario Romeo. Questi, che ha prodotto lavori finora insuperati per mole documentaria ed analisi sistematica di fonti, ha potuto provare come in Italia il dualismo economico abbia avuto valenze positive. È vero che il nord ha saputo attrarre a sé personale, capitali ecc. dal sud grazie ad uno sviluppo economico relativamente maggiore, ma è altrettanto vero che in questo modo ha funto da locomotiva per lo stesso sviluppo meridionale.
3) rimane infine la terza ipotesi di Salvemini, che non è sua originale poiché è stata formulata in modo indipendente e con una molteplicità di varianti da moltissimi altri studiosi. Essa individuava nella struttura socio economica meridionale, dominata dai latifondisti, con una classe borghese debole e subalterna ed una gran massa di contadini poveri, la causa principale dei mali del sud. Da questo derivava, secondo il Salvemini, immobilismo economico (per l’assenza di una classe imprenditoriale vera e propria, al posto di latifondisti assenteisti), corruzione ed illegalità (si perpetuava al di fuori della legge un insieme di rapporti di tipo feudale), mancato coinvolgimento nella cosa pubblica della netta maggioranza della popolazione ecc. Seppure con una grande differenza di prospettive ed analisi, questo punctum dolens è stato rilevato praticamente da tutti i maggiori studiosi della questione meridionale: il Fortunato, il Nitti, il Villari, il Franchetti, il Sonnino, il Banfield ed il Putnam, il Cafagna ecc.Anche se il giudizio di Salvemini sul latifondo meridionale presenta diverse imperfezioni, pure esso coglie certamente nel segno nell’essenziale. Questi faceva notare che l’Unità aveva segnato un mutamento nelle norme legislative ed amministrative, mentre invece le strutture sociali del Mezzogiorno erano rimaste quasi immutate nel loro impianto plurisecolare: proprio per questo egli parlava della necessità di realizzare pienamente l’Unità. Il predominio nel Mezzogiorno di strutture feudali particolarmente forti e radicate per tutto il periodo compreso fra il secolo XIV ed il XIX è indiscutibile ed ha avuto un ruolo decisivo in fenomeni come l’accentuata polarizzazione dei redditi (con un minuscolo ceto depositario della maggioranza dei beni, quindi con immense schiere di nullatenenti o poverissimi), la debolezza dello stato (dovuto al potere locale di oligarchi), l’insorgere di fenomeni di brigantaggio e delinquenza organizzata (ambedue largamente collusi, se non manovrati, dai latifondisti). In tutta la sua gigantesca produzione saggistica, il Salvemini non espresse mai alcun rimpianto del reame borbonico, anzi espresse giudizi perentori su di esso, con la durezza descrittiva che lo contraddistingueva. Questo meridionalista così presentava, ad esempio, le condizioni del Mezzogiorno borbonico per ciò che riguardava una infrastruttura apparentemente “minore” e molto trascurata dagli studi storici, quali i cimiteri: “Nella città di Napoli […] il cimitero destinato alle classi povere consisteva in tanti carnai quanti erano i giorni dell’anno. I cadaveri, in media 200 al giorno, erano portati al cimitero in carri municipali, come spazzatura, e buttati alla rinfusa nel carnaio della giornata, che era chiuso per essere riaperto e riempito l’anno dopo. Nella provincia di Potenza i cimiteri erano sconosciuti. I benestanti avevano le tombe di famiglie nelle chiese […] I poveri erano portati a seppellire e […] buttati giù a imputridire alla rinfusa nel carnaio comune […] Vi erano luoghi in cui i poveri erano buttati in voragini il cui fondo era sconosciuto, oppure erano abbandonati senz’altro fra le erbacce dei così detti cimiteri; i cani vi si raccoglievano per far festino” (Cfr. Gaetano Salvemini, Scritti sul Risorgimento, a cura di Piero Pieri e Carlo Pischedda. Feltrinelli editore, Milano 1961; compare nel tomo secondo di Opera omnia di Salvemini, Scritti di storia moderna e contemporanea; citazione a p. 469).
Questo meridionalista non fu un apologeta del reame borbonico (nonostante i tentativi fatti da alcuni sedicenti revisionisti d’attribuirgli un tale atteggiamento, appropriandosi di brandelli del loro pensiero e dimenticando tutto il resto). Salvemini fu un convinto unitario: sostenitore delle idee di Mazzini (a cui dedicò lavori come Il pensiero e l'azione di Giuseppe Mazzini e La formazione del pensiero mazziniano), ammiratore di Garibaldi, irredentista e favorevole alla guerra contro l’impero asburgico. Il suo lavoro Scritti sul Risorgimento offre un quadro del processo unitario che è un insieme di luci e di ombre, com’è inevitabile in ogni fenomeno storico. Pure, il Salvemini sempre difese l’Unità con motivazioni assieme ideali e materiali.
huffingtonpost.it/entry/ritirate-il-progetto-di-autonomia-differenziata-come-ddl-collegato-alla-legge-di-bilancio-2021_it_5fb536dec5b664958c7ca6ac
Ritirate il progetto di autonomia differenziata come Ddl collegato alla legge di bilancio 2021
18 novembre 2020La pandemia ha squarciato il legame che in uno stato unitario deve tenere uniti i diversi livelli di governo territoriale, evidenziando le debolezze del regionalismo “all’italiana”, che ha innescato, complice la scellerata riforma del Titolo V del 2001, meccanismi normativi divisivi e deresponsabilizzanti, che lasciano i cittadini e le cittadine privi e prive di un solido punto di riferimento politico.
E a farne le spese sono le persone più fragili, gli anziani e i giovani: stiamo così assistendo a un collasso della sanità e dell’istruzione pubblica, emblema del fallimento del regionalismo, ma anche dell’esercizio delle responsabilità da parte del governo centrale: entrambi impreparati alla seconda ondata pandemica.
Sono passati sette mesi dalla dichiarazione dello Stato di emergenza - cinque mesi dal primo lockdown - senza che le Regioni, pur avendone tutte le competenze per farlo dal 2001 ed essendo stati stanziati gli 8 miliardi (siamo sicuri che il dato sia questo? Sembra basso per sanità e scuola. Non è meglio scrivere svariati?) di finanziamenti ad hoc, adottassero i provvedimenti necessari a fronteggiare la seconda ondata pandemica (potenziamento del personale sanitario e scolastico, delle strutture diagnostiche e dei piani di tracciamento; adeguamento degli spazi scolastici e dei trasporti, e così via). E senza che il Governo centrale sia intervenuto a fronte dell’inadeguatezza degli interventi regionali.
Eppure, mentre i cittadini e le cittadine accettavano i più duri provvedimenti restrittivi delle libertà fondamentali che la storia della Repubblica italiana rammenti con comportamenti responsabili e solidali, mentre morti e contagiati aumentano, in sistemi sanitari che spesso sono ormai al collasso, la politica non ha fermato il treno delle riforme: dopo il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari rientra spudoratamente in scena l’autonomia differenziata.
La legge quadro, circolata in due bozze alla fine del 2019 e che sembrava anestetizzata dalla pandemia, è stata annunciata nel NADEF 2020 (“Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, 3 comma, Cost.”), disegno di legge collegato alla manovra finanziaria che potrebbe già integralmente e definitivamente devolvere la sanità alla potestà legislativa delle regioni, come prima materia di attribuzione di autonomia differenziata.
Si tratta di una legge ordinaria collegata alla legge di bilancio; in quanto tale, facilmente modificabile dalle maggioranze parlamentari, ma sottratta alla volontà di abrogazione tramite referendum popolare.Inserire l’autonomia differenziata come “costola” della legge di bilancio significa introdurre un pericoloso precedente per sottrarre in futuro altre delicate materie al circuito democratico deliberativo. Non sono temi che si possono affrontare nelle chiuse stanze del potere. Tanto più che una seria attuazione del regionalismo impone dapprima lo stanziamento di un adeguato fondo pluriennale di perequazione del divario tra i territori – cosa che il Recovery Fund non garantisce, essendo un finanziamento una tantum - e solo successivamente si potrebbe avviare una seria riflessione sui livelli uniformi delle prestazioni sociali su tutto il territorio nazionale, condivisione e partecipazione sociale.
Varie voci del mondo culturale ed accademico si sono levate contro questo processo di “balcanizzazione” del Paese, e tra queste quella del “Comitato nazionale per il ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica e la rimozione delle diseguaglianze”, che ha da tempo messo in guardia contro il pericolo eversivo insito nelle spinte autonomistiche innescate dalle bozze di Intesa firmate il 28 febbraio 2018 da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna e dal Governo Gentiloni.
E’ la Costituzione che impone di tutelare l’unità e l’indivisibilità della Repubblica - garantendo identicamente i diritti universali su tutti i territori - e che deve dunque guidare la scelta di cosa possa essere ragionevolmente attribuito alla singola regione e di cosa debba invece rimanere sotto l’egida statale, sulla base dei principi fondamentali declinati nei primi articoli della Carta. Non il contrario!
Emerge forte l’esigenza di ripensamento sull’impianto regionalista, che segni prospettive di maggiore chiarezza nel riparto delle competenze tra Stato e Regioni, che riconduca alla dimensione statale la tutela dei diritti fondamentali e affidi allo Stato il compito della loro concreta realizzazione in una cornice di eguaglianza sostanziale e riduca la spinta competitiva tra i territori, foriera solo di conflitti sociali e di privatizzazione selvaggia.
E’ giunto dunque il momento di fermarsi!
E il primo passo che la classe politica deve aver il coraggio di fare, sulla scorta della drammatica esperienza che il nostro Paese sta vivendo, è il ritiro del Ddl sull’autonomia differenziata collegato alla legge di bilancio 2021.
L'Unità del 10.07.2010
Gerardo D'Ambrosio
Il senatore Pd già magistrato ai tempi dell’Ambrosiano: il malaffare penetra di più e meglio; la situazione è drammatica ma sono ottimista perché i cittadini danno segni di consapevolezza.
di Tony Jop
Dottor D’Ambrosio, è tutta colpa di Flavio Carboni se abbiamo pensato a lei. È riemerso il faccendiere di tutti i faccendieri, è il passato che torna e che forse non se n’è mai andato, un incrocio epocale tra malaffare, misteri, politica, potere, un brandello della nostra più triste mitologia. Da Calvi all’Ambrosiano, da Moro alle cosche ed eccolo qui vivacissimo e ficcante, di nuovo, titolare di quell’incrocio, nei servizi offerti a un potere che si sviluppa come una gonna plissettata, fatta di angoli acuti disegnati però sempre dallo stesso filo. Carboni momentaneamente in cella, un presentimento oscuro nel cuore, uno scandalo nuovo dai contorni fin qui sfocati che, per via di quel nome, pare già vecchio.
Saremo dei sentimentali, dottor D’Ambrosio, ma abbiamo pensato a lei che aveva ficcato il naso nel crack dell’Ambrosiano.
Che effetto le fa ritrovare il nome di Flavio Carboni nei titoli di testa delle nostre cronache?
“Non me ne meraviglio, pochissimo tempo fa è riemerso perfino Chiesa dalle nebbie della Prima Repubblica ...”
Prima, seconda … dobbiamo stare al gioco?
“Ciascuno faccia come crede. Il malaffare in Italia non ha subito traumi significativi negli ultimi decenni, si muove allo stesso modo, penetra forse meglio e più di un tempo nei gangli della pubblica amministrazione, governa mercato e politica. Dov’è che inizia la Seconda Repubblica?"
Dicono da Mani pulite. Da quando lei e altri bravi colleghi avete dato uno scossone a quel sistema di relazioni di potere ben nascoste dai caveau e dalle segreterie ...
Non siamo passati dal paradiso all’inferno, sia chiaro. Anche in altri tempi le commesse, pur passando dalla fase della gara d’appalto, veleggiavano sulla base di sentieri spesso oscuri e predefiniti; ma oggi con ciò che si è fatto e si tende a fare distribuendo pass “politici” per urgenza e “grandi eventi”, si saltano formalità deterrenti rispetto alla spudoratezza dell'agire a “man bassa”, soprattutto si legittima ciò che la forma condannerebbe all’illegittimità, è una virata etica notevole, del tutto al passo con la nostra contemporaneità ..."
Che l'Italia è più marcia di allora, di quando si faceva suicidare il padrone di una banca sotto un ponte londinese e uno come Carboni veniva accusato di aver collaborato a quel “suicidio”; non solo, gli si imputava persino di aver fatto mercato dei segreti custoditi nella borsa di Calvi su un “banchetto” gestito dallo Ior?
“Sì, confermo, stiamo peggio ma sono ottimista: mi pare che la gente, i cittadini, la base del paese stia dando segnali incoraggianti, non ne può più di questo stato di cose, ne ha consapevolezza, lotta. Dai cittadini de L’Aquila ai disabili: troppe crepe in questo presente che si vorrebbe blindare, anche con la legge bavaglio ...”
Come si fa a raccontare alla gente che Mani Pulite è servito così a poco?
“Basta spiegare che Mani Pulite è finita mentre stava per affrontare il passaggio più alto e impegnativo nella lotta al malaffare e alle sue connessioni con la politica. Alla vigilia di quella fase, la magistratura fu messa al centro di un vortice tremendo in cui la parola d'ordine era una sola: sono i giudici i criminali, e quella parola d'ordine ci fu sistemata sulla testa come una lapide … come stanno facendo anche oggi ...”
Per essere sinceri, ricordo anche illustri esponenti della sinistra accodarsi, con qualche garbo in più, a quel coro ...
“E mica l'hanno concluso. Che senso ha garantirsi - come proponeva qualcuno nel Pd - che il presidente della Repubblica possa insediarsi al Quirinale anche se è sotto processo per un grave reato? Ce l'ha solo se si pensa di voler stendere uno zerbino in vista della salita al Colle di Berlusconi.
Fortuna che questa cosa è rientrata, ma che aria è questa? Ci vuole uno scossone, lo dicevo prima ...”
Generale Teodoro De Cumis, Il Mezzogiorno nel problema militare dello Stato, Laterza Bari 1914
Il problema
Che cosa è, e dove comincia il Mezzogiorno d’Italia?
Al Tronto: rispondono tutti. La Commissione parlamentare sulle condizioni dei contadini del Mezzogiorno ha, appunto, fissato al Tronto il confine nord delle sue esplorazioni. Si osserva, subito, che quasi tutto l’Abruzzo giace a nord del parallelo di Roma; e Roma non è ancora Mezzogiorno. Ed è pur vero, che l’Abruzzo rimase aggregato al Mezzogiorno, più che per altro, per le sue convenienze economiche. Se, facendo cerniera lungo il parallelo di Foggia - che passa per lo stretto di Bonifacio - noi facciamo compiere al margine inferiore d’una carta geografica dell’Italia un giro di 180 gradi, Capo Passero va a finire nella conca di Klagenfurt. Il Mezzogiorno, adunque, pur limitandolo, a nord, al Candelaro anziché al Tronto, ed escludendone la Libia, è una superficie italiana abbastanza vasta. Il Mezzogiorno continentale misura 76.970 chilometri quadrati con una larghezza che varia da 160 a 28 chilometri, sopra una lunghezza di Km. 720. E poiché la Sicilia ha una superficie di 25.739 Kmq. e la Sardegna, che è fra i termini del problema meridionale, di 24.109 Kmq., ne consegue, che il Mezzogiorno ha una superficie totale di circa 128 mila chilometri quadrati su 286.682 del Regno. La Calabria e la Basilicata, nel loro complesso, hanno un’estensione che supera di molto la Sassonia ed il Baden uniti insieme, ed è di poco inferiore al Belgio. La popolazione residente del Mezzogiorno è di 13.004.490 su 32.965.504. E codesto rapporto esisteva nel 1876, quando la popolazione nel Mezzogiorno era di 10.396.070 abitanti su 26.801.154 del Regno.
Né meglio appropriata, a rigor di termini, sarebbe la denominazione di ex Reame delle Due Sicilie, dappoiché la Sardegna e Benevento, non ne furono, o non ne furono sempre, parte integrante.
Il Mezzogiorno, è, forse, un’espressione geografica?
L’impalcatura rocciosa dell’Italia meridionale, passa senza alcun distacco a quella dell’Italia centrale e settentrionale.
E nell’interno della sua fisica struttura il Mezzogiorno è il regno della discontinuità.
La Calabria presenta caratteri ed esigenze diverse dalle altre terre meridionali. Essa è una gran montagna ricca di acque, pur disordinate. La Puglia è piana e siticulosa.
La Basilicata non possiede i grandi altipiani caratteristici della Calabria; i suoi terreni nord-orientali hanno già carattere pugliese ; e quelli nord-occidentali non si distinguono da quelli delle Province di Avellino e di Salerno. Non minori contrasti offrono, per struttura e per forme, l’Abruzzo e la Campania.
Etnicamente il Mezzogiorno è un mosaico. In Calabria una ventina di paesi (popolazione di alcune diecine di migliaia) parla albanese o è bilingue. Sulle pendici e sull’altipiano di Aspromonte vivono popolazioni di cinque o sei Comuni (Roghudi, Ghorio, Roccaforte, Ghorio di S. Lorenzo) che parlano ancora il greco di Omero.
Bizantina è la Puglia, originariamente illirica. Nel Circondario di Taranto cinque paesi costituiscono un’isola etnografica albanese. Nella parte meridionale della Terra d’Otranto esiste una Grecia di piccoli paesi, alcuni dei quali (Calimera, Martano, Corigliano etc.) parlano e professano il culto greco. In Calabria esiste una piccola colonia valdese. E colonie albanesi esistono nell’Abruzzo.
Taluni ravvisano l’esistenza di una mentalità meridionale.
Qualche cosa di vero c’è, ma nelle qualità negative: la concezione frammentaria dell’onnipotenza dello Stato, specie di scudo fatato, vero pozzo di S. Patrizio; l’orgoglio atavistico, comune ai nobili decaduti, e troppo accarezzato dagli scrittori: la fede eccessiva nel proprio ingegno. Ma sarebbe necessaria una forte dose di buona volontà per iscorgere linee simmetriche di mentalità, di costumi, di propositi, di tendenze fra gl’italiani di Bari, di Aquila, di Sassari, di Cosenza. Eppure recentemente, in Parlamento, un deputato ha messo in un fascio la civiltà della Magna Grecia con le antiche civiltà della Sicilia. Ciò che forma il fascio intellettuale, il comune affratellamento delle popolazioni del Mezzogiorno può essere tutt’al più la negligenza del Governo: e il parlarne male in tutti i toni.
Il Mezzogiorno si differenzia dal resto d’Italia, in quanto possiede una storia politica e militare di otto o nove secoli. E le sue popolazioni si differenziano dalle altre del Regno in quanto offrono, tutte, sintomi di depressione e di malessere. Ma ognuna di esse ha bisogno di speciali terapie. Esiste, infatti, una quistione siciliana, una pugliese, una sarda, una della Basilicata, una calabrese, una, gravissima, di Napoli. Ne son prova le leggi speciali regionali, che dal 1897 si seguono con varia fortuna. Tutto ciò non vide lo Stato italiano nei primi anni. Si ritenne che l’unità politica bastasse a formare, in breve tempo, un’Italia tutta di un pezzo e tutta di un colore. La parola Mezzogiorno riduceva, nel pensiero e nel linguaggio universale, al medesimo denominatore territoriale, demografico, sociale un aggregato di popolazioni dissimili, dissociate, lontane fra loro e dal resto.
Essa, inoltre (errore più grave), inglobava in un diminutivo geografico inesatto, un vasto ed eterogeneo aggruppamento di 16 province continentali su 60, scaglionate nella profondità di 720 su 1200 chilometri (da Monte Bianco a Capo Spartivento) e in totale di 25 su 69 province del Regno.
La penisola calabrese è lunga oltre 260 chilometri da Monte Pollino a Capo delle Armi. La Puglia, da Foggia a Gallipoli, è lunga, misurando sulla ferrovia, 326 chilometri che si percorrono con treni diretti in nove ore. Contrariamente a quel che avviene nelle altre regioni rivierasche d’Italia, il mare separa, non unisce, la penisola salentina e la calabrese.
Lo Stato italiano avrebbe avuto il mezzo di correggere la natura matrigna abbreviando le distanze con le ferrovie. E non può negarsi che ne ha costrutte. Ma le distanze permangono; e p. es.: viaggiando in ferrovia - finché possibile con treni diretti e per le vie più brevi – s’impiega:
Napoli-Reggio Km. 473, ore 20 (Nota)
Lecce-Taranto Km. 109, ore 3 circa
Bari-Gallipoli Km. 203, ore 6,25 circa
Catanzaro-Cosenza Km. 90, ore 6 in automobile
Catanzaro-Cosenza Km. 233, ore 8 circa (ferrovia)
Catanzaro-Reggio Calabria Km. 173, ore 6,30 per la ferrovia orientale
Catanzaro-Brindisi Km. 366, ore 12,37
Bari-Catanzaro Km. 411, ore 11,40
Bari-Reggio Calabria Km. 589, ore 17,32
Bari-Potenza Km. 240, ore 8 circa.
Non metto in conto il disagio inflitto ai viaggiatori dagli orarii, dai cambiamenti di treno, dalle fermate snervanti - sopratutto nella stagione invernale. Da Catanzaro a Caltanissetta, centro dell’Isola di Sicilia, son necessarii otto trasbordi. E le stazioni su nominate di partenza e di arrivo (eccetto Catanzaro e Potenza) sono alle porte delle città rispettive. Non son poche, invece, le stazioni, giungendo alle quali si impone al viaggiatore un’ulteriore imprevista ascesa di due ed anche di tre ore con mezzi di trasporto impossibili, quando vi si trovano; e anche a dorso di mulo. Devesi aggiungere, che in Italia si viaggia poco, a cagione, sopratutto, delle alte tariffe, ognora più inasprite. Infine la ferrovia senza una rete di strade carrabili e vicinali che vi facciano capo, è fiume senz’acqua. Le popolazioni del Mezzogiorno, adunque, lontane dal centro per fatto di natura, sono tuttora segregate fra di loro.
L’errore geografico, o di prospettiva, fu causa non ultima di quel tirare in lungo di studi e di provvedimenti che ha condotto il Mezzogiorno alle sue attuali miserevoli condizioni. Senza volerne esagerare l’importanza, è pur sintomatico il fatto, che soltanto dopo il 1876 si pose mano ai lavori per tracciare la carta topografica del Mezzogiorno, mancavano, tuttavia, nel 1911, alla carta geologica d’Italia gli Abruzzi, il Molise e alcuni fogli della Campania.
Le esplorazioni del Mezzogiorno datano dal 1862.
L’ultima, deliberata il 21 giugno 1906, ha partorito i trenta, mi pare, grossi volumi della seconda Commissione d’inchiesta parlamentare agraria, che costituiscono l’Enciclopedia del malumore meridionale, ignota ai più, come le precedenti.
La questione meridionale ha offerto agli scrittori una ricca varietà di temi - è economica, industriale, idraulica, morale, forestale, demografica, stradale, agricola, di malaria, di analfabetismo, di emigrazione. Sinteticamente è il problema della miseria. Tuttavia un solo aspetto della questione non è stato abbastanza studiato: l’aspetto militare. Si è, tutti, convinti, che quale sarà l’avvenire del Mezzogiorno, tale sarà quello del nuovo Regno, poiché se non si rialzano le sue sorti, esso impoverirà anche le altre parti d’Italia (grassetto mio). Tutti i Ministeri, ossia i loro bilanci, collaborano, con maggiore o minor profitto, alla redenzione del Mezzogiorno, eccetto il Ministero della Guerra - quello della Marina avendo, da qualche tempo, dato, ancor esso, segni di vita. Le Province del Mezzogiorno dànno, annualmente, all’Esercito circa il 24 o il 25 per cento del contingente di leva; e l’Esercito, che assorbe tanta parte del nostro bilancio, fu sempre rappresentato nel Mezzogiorno in misura affatto inadeguata, non rispondente ad alcun criterio militare, politico, sociale.
Facciamo un po’ di storia.
Un errore politico riconosciuto da Silvio Spaventa, ed un errore militare stigmatizzato dal nostro Stato Maggiore portarono, nei primi anni del nuovo Regno, all’occupazione militare, tumultuaria e scriteriata, di buona parte del Mezzogiorno. Metà della fanteria attiva era disseminata in esso, per soffocare la reazione che il Governo aveva, inconsapevolmente, alimentata di capi e di provetti gregarii.
Il 9 giugno 1861 l’Italia fu divisa in sei Gran Comandi di Dipartimento militare. Le sedici Province del Sud continentali ne ebbero uno a Napoli (Divisioni di Napoli, Chieti, Bari, Salerno). La Sicilia ebbe un Comando di Divisione a Palermo, il quale senza averne il titolo (e non si capisce il perché) era, nel fatto, il Comando Generale di tutte le truppe mobilizzate nell’Isola; e quattro Comandi di Sotto-divisione a Palermo, Caltanissetta, Messina, Siracusa. Il 4 agosto 1861 venne creata, e l’8 settembre successivo venne chiamata alle armi, la Guardia Nazionale per cooperare alla repressione del brigantaggio. Il 23 marzo 1862 furono ricostituiti, nei Reggimenti Fanteria, i quarti Battaglioni, e distaccati, tutti, nel Mezzogiorno. I fatti di Aspromonte condussero, nell’agosto 1862, a dichiarare in istato d’assedio tanto il Napolitano quanto la Sicilia, nella quale furono concentrati sessanta Battaglioni, tre Reggimenti di Cavalleria, undici Batterie da Campo. Nel 1863 su ottanta Reggimenti Fanteria (di quattro Battaglioni) ventotto, oltre il reggimento Real Marina, erano nel Mezzogiorno, e cioè dodici in Sicilia, sedici nelle Province di qua del Faro (Napoli, Teramo, Salerno, Chieti, Cosenza, Catanzaro, Isernia, Campobasso, Sansevero, Bovino).
Erano, inoltre, nel Mezzogiorno, quarantasei quarti Battaglioni: ventitré nel Continente, tredici in Sicilia.
Dei trentatré Battaglioni Bersaglieri, due erano in Sicilia, ventitré nel Mezzogiorno Continentale. Dei diciassette Reggimenti Cavalleria, sette erano a Caserta, Salerno, S. Maria di Capua, Bisaccia, Foggia, Aversa, Palermo. Delle quattordici Legioni RR. Carabinieri, sei erano a Napoli, Chieti, Bari, Salerno, Catanzaro, Palermo.
Nel 1864 Bovino perdette il Reggimento; Melfi e Capua ne ebbero uno, ciascuna; dei diciannove Reggimenti Cavalleria, nove erano nel Sud; e fra le nuove Sedi erano Ariano, Catania, Guardia-Lombardi, Termoli, Lucera; ventuno Battaglioni Bersaglieri permanevano nel Sud.
E si andò avanti, così, per un paio d’anni ancora; ed alle RR. Truppe si univano, per la guerra al brigantaggio, le Milizie locali, le Squadriglie ecc.
Dopo la Campagna del ’66 s’iniziarono riduzioni di ogni genere, a cominciare, naturalmente, dalla soppressione del Gran Comando di Palermo e della Sotto-Divisione di Messina. Mentana interruppe il programma; si ricostituirono le quarte Compagnie dei Battaglioni Bersaglieri e i quarti Battaglioni, da poco risoppressi, nei Reggimenti Fanteria. Ma l’esodo dell’Esercito del Mezzogiorno non si arrestò. La spedizione di Roma vuotò, quasi del tutto, le stazioni militari del Sud. L’Irpinia ed il Molise, che avevano avuto quattro Reggimenti di Cavalleria, cinque Battaglioni Bersaglieri ed una gragnuola di quarti Battaglioni; la Capitanata che aveva avuto un Comando di Brigata, due Reggimenti di Fanteria, un Reggimento Cavalleria, e tre o quattro Battaglioni Bersaglieri, oltre la sua ricca tangente di quarti Battaglioni, perdettero ogni cosa. Le Legioni RR. Carabinieri di Chieti, di Salerno, di Catanzaro furono soppresse. Cosenza perdette, ancor essa, tutto. Catanzaro, stata, per anni, sede di Comando di Divisione e di Brigata, con un Reggimento di Fanteria, un Battaglione Bersaglieri, uno Squadrone di Ussari, una Legione RR. Carabinieri, e che nel Circondario formicolava di truppe, fu retrocessa, per così dire, al Presidio di un Battaglione, tratto or da Catania, or da Bari.
Il trasferimento della Capitale non modificava la condizione essenziale della Radunata alle frontiere. Il nostro massimo teatro di guerra terrestre era e sarà sempre al Nord. E l’Esercito, nel tempo di pace, dee preponderare in quella direzione. Bensì il programma per la difesa dello Stato, come lo avevano formulato i generali Luigi e Carlo Mezzacapo nel 1857, riceveva la sanzione del fatto compiuto. Nella ipotesi, dannata, della perdita della Valle del Po, bisognava essere preparati e forti per difendere, con ogni cura, tutto il territorio nazionale. Roma essendo al limitare del Mezzogiorno, la ragione politica avrebbe dovuto arrestare, per misura di guarentigia, quel processo di svalutazione militare delle Province del Sud, verso le quali il centro di gravità del nostro sistema politico erasi spostato. Processo che, se non favorito, certamente non combattuto da alcuno, portò alla deformazione, difficilmente riducibile, del nostro assetto militare territoriale.
La nostra letteratura militare, che traeva dalla Topografia dell’Italia Continentale, limitata al Rubicone, i suoi temi di guerra, contribuì non poco a quella deformazione.
E’ malagevole, ed anche ingrato, indagare se essa abbia rispecchiato fedelmente la mentalità politica del tempo, ristretta ma sincera, o abbia, più o meno inconsapevolmente, favorito, con la sua forza di propaganda, interessi egemonici coalizzati ai danni del Mezzogiorno.
Essa ebbe maestri di alta autorità, e fu feconda di bene nel campo degli studi militari in genere. Ma il suo peccato di origine, la visione circoscritta ad un Regno dell’Alta Italia, il cui ridotto, ultima ratio della difesa territoriale, era vincolato a questo o a quel crocevia della calotta padana, ci costò, fra l’altro, milioni a centinaia.
Dal 1873 al 1885, tre leggi provvidero allo sviluppo ed al perfezionamento progressivo dei nostri ordini militari. Si aumentarono i Corpi d’Armata, i Reggimenti di Fanteria e di Cavalleria; si sdoppiarono i Reggimenti di Artiglieria da Campagna; nuovi servizi vennero impiantati.
Le singole grandi Unità territoriali furono, com’è nostro costume, imbastiti sullo schema consueto di desolante uniformità; ma l’Esercito, con i suoi organismi essenziali, rimase qual’era; Capo pletorico, arti anemici.
Nel 1883 venne istituita una scuola di applicazione di Sanità militare, a Firenze. Nel 1884, dopo l’aumento dei due Corpi d’Armata, mentre le Province meridionali rappresentavano il terzo della popolazione del Regno, in esse era di stanza meno del quarto delle forze militari; e prendendo a considerare soltanto le Province continentali, la differenza cresceva ancora, dappoiché la popolazione era del quarto e la forza meno del sesto.
“La sproporzione dei Reggimenti Fanteria nel Sud in rapporto alla popolazione, e quindi anche alle risorse di reclutamento, ha condotto fra le altre cose, al ripiego dei depositi staccati e delle Sezioni di Deposito di Reggimenti, i quali sono stanziati più a Nord, con complicazioni ben note ai conoscitori di tal materia”.
Nel 1878 la carta politica dell’Africa settentrionale, di fronte alla Sicilia, erasi modificata così, da metterci risolutamente in guardia contro una possibile nuova Cartagine.
E più tardi noi seguivamo con ansia il dramma egiziano. Nel 1885 la rotta della nostra politica estera volge al Sud. I fati d’Italia venivano compiendosi con le imprese coloniali, e il flusso di truppe e di ricchezza si dirigeva, con crescente intensità, al Mediterraneo. Durante le nostre spedizioni in Eritrea, Napoli, Taranto, Brindisi, Messina, Augusta, Siracusa, Palermo si erano dimostrate indispensabili alla preparazione della guerra ed alla vita del Regno. Eppure, nulla si organizzò, o almeno si trasferì, di ciò che era esuberante altrove, nelle regioni del Mezzogiorno, ormai designate per essere centri di espansione, anziché vie di transito, delle nuove correnti dell’attività nazionale.
Mentre le nostre spedizioni dell’Eritrea si adunavano, inevitabilmente, per le ferrovie e nei porti del Sud, le scarne guarnigioni dell’Adriatico inferiore, del basso Tirreno, dell’Jonio contribuivano alla loro formazione. Ma le popolazioni del Sud, nelle quali l’entusiasmo, la fede, la dignità non vennero mai meno nella prospera e nell’avversa fortuna, dovevano limitarsi a rimanere spettatrici bene auguranti delle truppe in partenza.
Nuovi aumenti delle nostre forze militari furono sanciti dalla legge del 1887; il bilancio della guerra venne, provvidenzialmente, proporzionandosi alle necessità politiche e demografiche dello Stato. Ma, sebbene dal 1904 in poi le organizzazioni operaie, gli scioperi nell’industria e nell’agricoltura, dal Nord e dal Centro si propagassero nel Sud, dove le elezioni specialmente amministrative assumevano, man mano, carattere sempre più sedizioso, rendendo manifesta, non di rado dolorosamente, l’insufficienza quantitativa dei presidi d’oltre Tronto, il Mezzogiorno militare rimaneva immobile.
Dopo il 1885 Foggia e Lecce perdettero il Comando di Brigata, Barletta perdette il Reggimento Bersaglieri, pur ricevendo un Distretto e due Depositi; Pescara nel 1894 perdette il Reggimento di Fanteria; Capua, che nel 1891 aveva un Reggimento Artiglieria da fortezza, lo vide, nel 1893, emigrare ad Alessandria; Caltanissetta perdette Comando di Brigata e Reggimento.
Dal 1897 al 1912 si sono: creati 4 Comandi d’Armata, 3 nel Nord, 1 nel Sud; 3 Comandi di Divisione di Cavalleria nel Nord; 3 Comandi di Brigata Alpini nel Nord; aumentati: 1 Reggimento Alpini nel Nord, 8 Reggimenti Artiglieria da Campo, 6 nel Nord, 1 nel Sud, 1 nel Centro: 5 Reggimenti Cavalleria, 4 nel Nord, 1 nel Centro. Le 22 Brigate da Costa e da Fortezza (11 nel Nord, 6 nel Sud, 5 nel Centro) son diventate 10 Reggimenti (7 nel Nord, 1 nel Sud, 2 nel Centro). La Brigata Ferrovieri del Genio si è trasformata in Reggimento, rimanendo a Torino. Gli Stabilimenti di Artiglieria e Genio, che erano 15, si sono aumentati nel Nord di 3.
Si soppressero la Fabbrica d’armi di Torino ed il Polverifìcio di Fossano; ma fu creata l’officina di costruzioni di Piacenza. Fu soppresso il Tribunale Militare di Messina, prima che se ne occupasse il terremoto. Il X ed il XII Corpo d’Armata han perduto, ciascuno, un Comando retto da un ufficiale generale. I Magazzini centrali, che erano 1 nel Nord, 1 nel Centro, 1 nel Sud, si sono accresciuti di 1 nel Centro.
Nel 1911 noi da 40 anni non avevamo fatto guerre, né nel Nord né nel Sud. La spedizione di Roma fu al limitare del Mezzogiorno; ed una delle Divisioni operò da Napoli su Roma. Da 26 anni, bensì, noi facevamo guerre coloniali, e le regioni del Sud erano state, costantemente, in funzione di zona avanzata sempre più operosa, sempre meno proporzionata alla sua complessione militare. Scoppiò la guerra libica. E i reggimenti del Sud furono chiamati fra i primi a battersi. E infatti il primo Corpo di spedizione partito ai primi di ottobre fu così composto:
Reggimenti di Fanteria Nord 1 (su 55)
Reggimenti di Fanteria Centro 3 (su 25)
Reggimenti di Fanteria Sud 5 (su 28)
Reggimenti di Cavalleria Nord 0 (su 20)
Reggimenti di Cavalleria Centro 0 (su 4)
Reggimenti di Cavalleria Sud 2 (3 squadroni da Aversa; 3 da Caserta).
Viceversa, agli ultimi di ottobre 1911, noi, ravvisando l’urgenza di rinforzare il Corpo d’operazione, fummo obbligati a mandare in Libia qualche Reggimento dal Piemonte.
Ed in complesso presero parte alla guerra sino al Trattato di Losanna:
Piemonte Reggimenti Fanteria 4
Lombardia Reggimenti Fanteria 3
Liguria Reggimenti di Fanteria 1
Veneto Reggimenti di Fanteria 2
Emilia Reggimenti di Fanteria 3
Umbria Reggimenti di Fanteria 1
Totale: 14 su 55
Toscana 2
Marche 1
Lazio (oltre i Granatieri) Reggimenti di Fanteria 2
Totale: 5 su 25
Mezzogiorno – Sicilia: 10 su 28.
Le Amministrazioni locali del Sud protestavano incessantemente, nel tempo stesso che le Relazioni ufficiali della Leva, con le percentuali che le regioni del Mezzogiorno davano al contingente annuo, rendevano sempre più manifesto l’errore di giustizia distributiva.
Caratteristiche le trattative di Cosenza, iniziate sin dal 1877 per riavere il Reggimento. Verso il 1882, votatasi la Legge per l’aumento dell’Esercito, quel Comune insistette, presentando una Relazione sulle condizioni igieniche della Città, ed offrendo i locali per le truppe.
Il Ministero fu negativo. L’esclusione di Cosenza dalle nuove sedi di reggimento dipendeva, nel pensiero del Ministro, dal fatto principale, che le esigenze militari ed altre di vario genere non richiedevano che nella Divisione di Catanzaro vi fossero distaccati più di tre Reggimenti.
Più tardi, in nota ufficiosa, il Ministero aggiungeva, che in via di massima ciascun Corpo d’Armata avrebbe avuto otto Reggimenti di Fanteria. Ma questo principio non era applicabile a tutte le Divisioni, essendovene alcune che hanno bisogno di un maggior nerbo di truppe: “oltre di che per presidiare l’isola di Sardegna occorrevano due Reggimenti, i quali non potevano esser tolti che da due Divisioni, la cui importanza militare sia molto minore di talune altre, come appunto è il caso della Divisione di Catanzaro”. Infine, nel 1888 il Ministero avvertiva, non potersi arrecare alcun cambiamento, perché esistevano contratti a lunga scadenza fra il Governo e le città e paesi, nei quali erano divise truppe. Oltre di che “gravi ragioni d’interesse militare imponevano di non far modificazioni”. Erano implicite, in coteste linee, due confessioni: che le guarnigioni erano state messe, per così dire, all’asta: e che fra le gravi e misteriose ragioni d’interesse militare non erano comprese le nostre imprese coloniali, alle quali il Mezzogiorno, pur decimato dall’emigrazione, partecipava con i suoi contingenti, con i suoi risparmi.
Son note le vicende delle Sedi dei nuovi Reggimenti di Artiglieria da Campagna. Nella discussione avvenuta nella Camera dei Deputati il 24 e 25 maggio 1911, fu osservato, che il Ministero, anziché fissare prima la regione nella quale l’interesse militare consigliava di stanziare i Reggimenti ed avviar, di poi, le pratiche con i Comuni per l’accasermamento, operò in senso inverso.
In quella stessa tornata parlamentare, il discorso dell’on. Cannavina intorno alla penuria di truppe nel Molise; quello dell’on. Lucifero intorno alla dislocazione, in genere, delle truppe nel Mezzogiorno; le dichiarazioni lucide e taglienti dell’on. Pala sulle condizioni militari della Sardegna nella doppia ipotesi di guerra a Levante e a Ponente delle Alpi, e le risposte del Ministro, attestano, ancora una volta, delle disposizioni d’animo del Mezzogiorno e dei propositi del Governo.
Ma il Governo, e il Ministro della Guerra in ispecie, non sono i soli responsabili della colpevole e prolungata anormalità del nostro assetto militare nel tempo di pace.
Quando la questione dell’assurda penuria di truppe nelle Province del Sud d’Italia fu portata alla Camera, l’Ordine del giorno - 27 maggio 1911 - dell’on. Lucifero, che suonava così: “La Camera invita il Governo a provvedere perché le guarnigioni sieno equamente ripartite fra le varie regioni del Regno” non fu approvato.
La Deputazione politica del Mezzogiorno si acquetò alla dichiarazione del Ministro, che “la dislocazione delle truppe non può, non dev’essere subordinata a considerazioni di equanimità (vive approvazioni) ma esclusivamente a ragione di ordine militare, quali che esse siano”. In quel tempo, appunto, le ragioni militari si aggiungevano alle politiche, per mettere in valore il Mezzogiorno militare. E fra le ragioni militari una, geografica, culminava pur sempre; dei 7.600 chilometri di perimetro dell’Italia, i tre quarti son frontiera marittima.
Dei 2.828 chilometri di costa dell’Italia peninsulare (dalla foce della Magra a quella della Marecchia) ben 2.000, circa, appartengono al Mezzogiorno continentale. Si offriva, ad ogni modo, propizia la circostanza ai 200 deputati del Mezzogiorno per chiedere, una buona volta, al Governo quale fosse questa famosa ragione militare.
E tanto più, che una ragionevole perequazione di armi è, forse, la sola delle rivendicazioni del Mezzogiorno, contro la quale nessuno può elevare la consueta accusa di voler vivere a spese dello Stato, coll’annessa deplorazione della debolezza psicofisica delle popolazioni. E invece i quattro interpellanti rimasero, se non erro, quattro.
Un’altra attenuante, forse di maggior peso, può concedersi al Ministero. La Commissione d’inchiesta per il R. Esercito ha scritto, ancor essa, la sua Enciclopedia.
Tutte le questioni militari, tattiche, economiche, amministrative, morali, industriali essa ha discusso. Ma non una parola essa ha pronunziato, nelle sue Relazioni ordinarie, sulla questione militare del Mezzogiorno. Senza dubbio buona parte dei suoi lamenti e delle sue proposte è constatazione implicita della sperequazione di truppe fra Nord e Sud. Ma quando anche ragioni, inaccessibili alla mia mente, sconsigliassero di affrontare direttamente il problema, era, almeno, necessario che con qualche suggestivo frazionamento di statistiche la Commissione richiamasse l’attenzione del Parlamento su di esso.
Non io ho la pretesa di scoprire, a mia volta, il Mezzogiorno militare. Devo, anzi, rassegnarmi alla parte di carillon. I generali Luigi e Carlo Mezzacapo studiarono la questione sotto l’aspetto strategico - nel periodo preunitario. Il generale Marselli studiò profondamente il problema sotto l’aspetto morale, politico, sociale, e, specialmente, militare. Nel 1898 il colonnello Raffaello Serpier era riuscito a ripartire, con mirabile esattezza di analisi, le spese militari sopportate dallo Stato, nel Nord, nel Centro, nel Sud d’Italia. E nel 1910 il Ten. Col. del Genio in cong. barone Pietro Sanseverino, nel suo perspicuo studio - Nord, Centro-Sud d’Italia - poté ripartire esattamente la dislocazione dell’Esercito nei tre grandi scaglioni. La stampa quotidiana proseguì la crociata. Un articolo del giornale Avanti! del 5 dicembre 1904; un altro di Il caporale nel giornale La Tribuna del 14 marzo 1905; uno studio di Enrico Barone in La preparazione del 20-21 agosto 1910; gli studii che da tre anni l’Esercito Italiano va pubblicando a firma di “Serenissima” hanno oramai esaurito ogni specie di indagine; sicché la quistione dell’aumento delle guarnigioni del Sud non è soltanto matura; è pronta alla soluzione.
Ed io mi propongo di offrirne le prime linee in questo libro, raccogliendovi e coordinandovi le voci sin qui solitarie. Scelgo, come punto di partenza, nei calcoli e nelle deduzioni, le Stanze dei Corpi del R. Esercito, dell’ultimo quinquennio. E porterò specialmente la mia attenzione sui territorii dei Corpi d’Armata X (Napoli), XI (Bari), XII (Palermo) e della Sardegna. Escludo il territorio della Divisione Militare di Chieti, sia perché essa è demograficamente mista, comprendendo la Provincia di Ascoli, sia perché l’inclusione di una sola delle due Divisioni militari del VII Corpo d’Armata renderebbe un po’ artificiose le deduzioni finanziarie del bilancio della guerra.
1 Giuseppe di Lorenzo, Geologia e geografia fisica dell'Italia Meridionale, Bari, Gius. Laterza.
2 Toccando un centinaio di Stazioni, i cui paesi, piccoli tutti, sono a grandi distanze dalla linea ferroviaria, ed i pochi che sono sulla linea hanno una popolazione complessiva di poco più di 100.000 abitanti. (Da uno studio del tenente colonnello Sanseverino).
3 La politica della Destra. Scritti e discorsi di Silvio Spaventa raccolti da Benedetto Croce, Bari, Giuseppe Laterza, 1910.
4 Cinquanta anni di storia italiana. Esercito Italiano: sue origini: suo successivo sviluppo, Fiorenzo Bava Beccaris, pag. 49 e seguenti, Roma, Tipografia della R. Accademia dei Lincei.
5 L'Esercito Italiano, 4 ottobre 1912.
6 Atti parlamentari, pag. 14770.
7 Gli Italiani del Mezzogiorno (1884).
8 L’Esercito Italiano, anno 1898, num. 103.