Da Qualesammarco, n. 1 del 1991
Femminino sammarchese del primo novecento.
Il vecchio emigrato spolvera d'oro i ricordi.
Ricordo il teatrino femminile della mia prima infanzia.
Sono stato sammarchese a pieno diritto fino ai nove anni; dopo ho passato in paese i periodi delle vacanze, dapprima feste comandate e le estati; in seguito le sole estati; infine, tagliati i fili più importanti che mi legavano al paese, mi sono imbozzolato forestiero.
In quei primi nove anni ho contemplato il teatrino femminile sammarchese. Non pensate male; ero un bambino pigro e tranquillo piuttosto contemplativo: passavo delle ore pomeridiane sul balcone della camera “dei figli” (che era esclusivamente mia; le mie sorelle erno già studentesse ed in collegio) a seguire dal secondo piano la vita del vicolo, che era vita femminile. Gli uomini sparivano in campagna dal lunedì al sabato. Oppure, se e quando lavoravano a giornata, da mattina a sera. Ritornavano a casa quando per me era già suonato il coprifuoco.
Le donne, rassettata la “stanza” al primo piano ed il “sottano”, che era poi il soggiorno, portavano la seggiolina impagliata fuori dell'uscio e lì vivevano; le più vecchie filavano la lana, le altre facevano la calza o si pettinavano o semplicemente chiacchieravano. I ragazzi più grandicelli erano corsi lontano per le loro monellerie.
Dell'infanzia rimanevano i neonati in fasce ed i bambinetti di due, tre o quattro anni, con la “pettolina” (che poi era il lembo della camicia) fuori e le innocenti vergogne scoperte.
Perché i calzoni di quegli ometti erano fatti di due gambe, tra loro separate in quello che i sarti chiamano “cavallo”, per poter corrispondere alle importanti esigenze biologiche in tutta libertà. A pulirli ed a lavarli a fondo poi, forse, provvedeva il Signore, se se ne ricordava.
I neonati erano “infasciati” come mummiette; braccia, gambe, tutto dentro. E quando venivano cambiati che succedeva? Fasce e pannolini lavati pendevano in gran numero da corde tese tra marchingegni vari sui balconi. A quei pannolini non pensavo; ma a quei bambini sì. Ero stato bambino anch'io e ne provavo ribrezzo e vergogna. Ancora oggi, quando vedo in TV maestre d'asilo o mamme che - rimesso a posto il famoso assorbente - baciano i sederini “tutto asciutto” preferisco essere lontano dal pasto.
Le bambine, se appena avevano raggiunto l'età della differenziazione sessuale, erano già "femmine" e tra le femmine come tali vivevano. Sì, perché quelle del vicolo femmine erano. Non ero razzista; le donne erano una cosa, le “femmine” un'altra: non distinguibili l'una dall’altra quelle del vicolo. Per me esse, anonime, sullo scenario del vicolo vivevano, lavoravano, socializzavano, tutte attrici di un coro.
Sull'altro versante della casa in cui abitavo, che guardava sul corso principale, le gonnelle erano per me “signore” o “signorine”. Era un modello femminile che non si vedeva.
Delle ragazze, per fuggevoli istanti, comparivano un naso od una mano dietro gli sportelli apribili delle persiane chiuse (ancora una volta senza alcun secondo senso: erano finestre e balconi di palazzi dignitosi e basta.
Anche perché, a suo tempo ho saputo, a San Marco non c'era niente di “chiuso”). Le signore invece non si vedevano affatto: sedevano in permanenza pomeridiana nelle cucine, attorniate dalle clienti (in senso latino: erano quel gruppo di donne di più modesta condizione, che costituivano corte, coadiutrici e conduttrici della notizia del giorno). Era un mondo che non mi interessava affatto. Sul retro, il versante del vicolo, le donne erano, dunque, “femmine”: anonime, “api operaie”. La loro azione, corale, poteva fissare la mia attenzione per ore; si vedevano per le strade, affacendate e socializzanti.
Naturalmente c'erano anche i maschi; ma non interessavano il teatrino del vicolo, di cui non facevano parte.
Oggi, ricordo anch'essi. Maschi erano i “signori”, che poi erano i meno interessanti perché non facevano niente. Forse un poco interessavano quando giocavano al bigliardo al “circolo”; l'unico bigliardo visibile in paese (ma questo è un altro discorso).
Non mancavano i lavori interessanti (non certo i professionisti né i commercianti): alcuni artigiani lavoravano all'aperto, al piano. I “zocari” ad esempio, quelli che facevano le zoche, le funi. Una ruota girava e le cordine si attorcigliavano tra loro a formare la corda più grossa che man mano diventava più lunga. O i carrai quando mettevano in terra il cerchio di ferro e ve ne accendevano sopra uno di fuoco: onde il metallo si dilatava e vi potevi immettere la ruota di legno; poi si versava l'acqua ed il ferro friggeva e si stringeva all'anima di legno della ruota.
O lo spaccapietre: a sinistra aveva il mucchio dei ciottoli, a destra quello dei frammenti, ordinati in solido geometrico per il più facile computo della paga. Il mazzolo correva veloce; al momento dell'impatto col ciottolo, le dita che lo tenevano si aprivano fulminee.
Il ciottolo era frantumato, la mano rapida prendeva un altro sasso. Il sincronismo era affascinante e perfetto; se sbagliava una battuta partivano le dita! Serviva per “brecciare” le strade.
Anche il “cavatore” era interessante: potevi guardarlo per ore, quando scardinava un masso o “parava” (preparava) le mine. Mi sembrava Ercole o il grande Ciclope. Ne ho incontrato, uno, che avevo conosciuto nell'infanzia, quando ormai ero diventato “grande”: era un omarino.
Né mancavano altri lavori interessanti; ma la massa, il popolo, era “contadino”. Ognuno di loro aveva un palmo di suolo “appoderato”nel pubblico demanio. Intorno una macera tirata su alla meglio a segnare il confine; dentro uno o più gragnarili, che erano i mucchi dei sassi raccolti o scavati dal suolo per liberarne la scarsa terra, magari arricchita con qualche cesto di terriccio di riporto. C’era anche una capanna. Qui il contadino passava i giorni o la settimana: un coltelluccio, poco più di un temperino, serviva a raccogliere le erbe selvatiche commestibili.
Un filo d'olio, una fetta di pane e la zappa. Alla fine si raccoglieva forse un mezzo sacco di grano, o le patate; il vello di qualche pecora (attenti all'abigeato: per una pecora si poteva arrivare alla coltellata od alla fucilata). Infine i lavori stagionali nel latifondo pugliese, al soldo degli “agricoltori”, che erano fittavoli. I "Signori" aspettavano le decime.
Penso che tutto ciò sia tornato alla natura.
Nel vicolo le galline, “femmine” anch'esse; chioccolavano, razzolavano e dividevano con le umane il palcoscenico che mi affascinava; insomma le “femmine” vivevano, lavoravano, badavano alla specie ed a fare il loro verso, chiacchiera o coccodè che fosse.
Così erano gli aspetti della vita del vicolo; ma non crediate che fossero brutti.
Non mi accorgevo del problema della femminilità: le donne erano per me solamente l'oggetto dell'attenzione al teatrino animato. Vestite di scena, portavano tutte un corpetto stretto, strettissimo, cosicché il busto era un cilindro. Se poi in alcune era un pò deformato il davanti non ne capivo i perché, anzi non ne facevo caso. Dal corpetto usciva un pezzetto di pettorale e le maniche della camicia, arrotolate fino al gomito. Giù, le gonne di lana a piegoni e lunghe fino ai piedi. Il colore prevalente era il marrone, i disegni a quadroni. Ai piedi calze di lana o di cotone, sempre fatte a mano, e pianelle.
Non mi sembravano donne anche perché, ritardato in quel ramo e piuttosto selvatico, non accettavo carezze femminili (troppo petulanti), non ero educato in alcun modo ad apprezzare l'eterno femminino, e da me non ci arrivavo.
Mi sembrava tuttavia misteriosamente attraente il loro camminare. Si muovevano leggere, quasi scivolassero sulla terra, ondeggianti in ampi cerchi le gonne per il sommerso ancheggiare: erano abituate a portare in bilico sulla testa pesanti anfore piene di acqua. Le trattenevano blandamente con le dita di una mano, il braccio piegato graziosamente ad anfora anch'esso.
Oggi, vi riconosco il passo delle indossatrici.
Negli ultimi anni della mia permanenza a San Marco ci eravamo trasferiti dalla casa del centro città ad una in periferia popolare. Lì ho visto la vita famigliare, col ritorno degli uomini a sera; ma soprattutto la vita delle donne nelle ore di lavoro. Il teatrino del vicolo era da qualche anno scomparso nel baule dei ricordi, da cui solo le nostalgie senili hanno rievocato.
Le popolane di quell'ultimo tempo, sia perché discinte quel tanto che il lavorare imponeva (non le vedevo più solo il pomeriggio) sia perché il costume di vita si stava muovendo, sia perché ormai avevo l'età, mi apparivano donne; ed erano belle, ora che ci ripenso. Non è solo abbellimento da ricordo.
Recentemente una giovane e graziosa coppia di lontani partenti felicitò la mia solitudine con un pomeriggio di visita. Mi dissero che più di uno dei giovani sangiovannari (loro compaesani) calava a San Marco in cerca di una bella moglie.
In seguito, dopo molti anni, credo tra il 50 e il 60, sono tornato per alcune estati a San Marco, a passare parte delle mie ferie in una mia casetta di campagna. Ho potuto constatare la scomparsa del “costume” nelle giovani; non erano più “femmine”, erano ormai signorine o signore; e tuttavia anch'esse socializzavano circolando per lavoro o per diporto nelle strade.
Alcune giovani “cacciavano” tuttora acqua da un pozzo a metà della strada della Chiesa Madre: vestivano una specie di “costume”, però modernizzato. Erano, perlopiù, belle ragazze. Forse così mi apparivano perché esse erano giovani, ed io non lo ero più?
Ho potuto, dunque, seguire oltre un cinquantennio di vita sammarchese. Non credo di dire cose nuove o strane ripensando il passato; ma cose ignote ai meno vecchi, sì.
Nei primi anni del secolo, fino alla guerra della Libia, una discreta emigrazione americana semipermanente aveva portato una ventata di aria nuova in paese. Dopo la guerra mondiale (la prima) tornarono uomini, che erano partiti giovani, i quali avevano vissuto per anni in altri mondi ed avevano nuove esigenze.
Nello stesso tempo, cessata per “fine servizio" l'epoca della “Ianua”, il passo obbligato verso il centro garganico (falsa “Giano”), il minor traffico contribuiva alla riduzione progressiva dell’artigianato e del commercio, che fino allora avevano fatto di San Marco un centro emergente di vita garganica.
Tra le due guerre mondiali infine e specie dopo la seconda, il riassorbimento della civiltà contadina in quella industriale, che dominò questo nostro secondo mezzo secolo, trasformò il popolano, il contadino sammarchese, in “tuta blu”, inducendo una massiccia emigrazione, temporanea o permanente (più questa che quella), verso il nord d'Italia e d'Europa, conseguendo una drastica riduzione della popolazione residente ed il definitivo cambiamento di vita.
Mi risulta che la trasformazione del costume, delle abitudini, della vita tutta, sia ora completa. Né dimentico l'effetto della diversa, ben più evoluta cultura. Il paese non è più quello accovacciato sotto il monte, sulla riva destra del torrente; ma ha dilagato in tutto il fondo valle. Era giusto ed era ora: non vi è luogo, razionale, per le nostalgie.
Non ho avuto modo di apprezzare il “femminino” compaesano; solo qualche innocuo flirt-scambio di occhiaie e non altro.
Qualche ricordo, però, non manca.
Una ragazza, giovane, forse non proprio bella, ma piacente, veniva qualche volta per casa a dare una mano. Soprattutto per fare il bucato. I nostri sguardi qualche volta si incrociarono e qualche cosa si dissero. Lei qualche volta arrossì; io non so. Andò sposa in America, per quel che ne seppi; ero già forestiero.
In una delle mie ultime tornate sanmarchesi, forse trenta o più anni dopo, le vicine della mia casetta, aggiornandomi sulle vicende paesane, mi dissero che era tornata ... dall'America, in visita e per suoi motivi di famiglia.
Anche quella ragazza, come questa Americana, si chiamava ... Qualcosa coincideva: era forse lei?Ho incontrato per la strada una vechina, piccola graziosa: tu sei ...?, (mi riconobbe forse, o forse avevo fatto notizia anch'io) e tu ... ?
Ci siamo scambiato un casto abbraccio ed un bacio sulla guancia.
Un altro ricordo giovanile ho: questa era bellissima. Senza ombra di errore. Sorrideva molto bene. Poiché era già donna fatta, mi fornì possibilità di un incontro; non seppi approfittarne.
Se ci ripenso (e qualche volta ci ripenso!) mi ripeto ancora: che scemo!
Sono i miei due ricordi di San Marco: di quella San Marco.
Vittorio De Filippis
1991 - Femminino sammarchese del primo novecento
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