Ho trascorso a San Matteo, specialmente nella Biblioteca, molti anni della mia vita. A giugno del 2014, avendo notato il disinteresse dei monaci tutti per il mio decennale lavoro (non retribuito) e l'insofferenza di certuni per la mia presenza, ho pronunciato un sommesso ma chiaro 'vaffa...' nei confronti di quei francescani e di certi sedicenti ed ignoranti collaboratori. Verso la fine del 2012 ho tenuto in mano gli oggetti di seguito illustrati, li ho fotografati, ottimizzato ed inviato le foto al Boraccesi.
Sono manufatti molto belli, che potrebbero essere un vanto per San Marco in Lamis e l'intero Gargano.
Il grassetto è stato inserito dallo scrivente.
Il webmaster
Dal punto di vista dell’oreficeria profana non si può non dare risalto alla particolare e ben nota vocazione artigianale di San Marco in Lamis per la lavorazione di monili; in un lungo lasso di tempo compreso tra il XVIII e il XX secolo, qui sono, infatti, attestati numerosi maestri orafi e argentieri (Mavelli 2005, p. 128; Boraccesi 2007a.), chiaro indice della floridezza economica della città garganica. In passato anche la vicina e importante città di San Severo registrava la presenza di argentieri e perfino, seppur per un breve periodo, di una Zecca ove si ideò una particolare tipologia monetale, ossia un tornese fatto coniare nel 1463 da Nicola II di Monforte, conte di Campobasso (Ruotolo 1997, pp. 82-83; D'Andrea-Andreani 2008, pp. 236-239; Boraccesi 2011a, pp. 13-14).
Nell’agro di San Marco in Lamis – un centro strategicamente importante lungo il cammino per il santuario di San Michele Arcangelo – da secoli insiste il monastero benedettino di San Giovanni in Lamis, dal 1578 convento di San Matteo dei Frati Minori Osservanti (Forte 1978; Corsi 1980; Soccio 1985).
Fra le mura della fabbrica francescana, a seguito di una mirata ispezione compiuta nel 2009, mi sono imbattuto in un gruppo di argenti di uso liturgico, esattamente una decina, conservati sia in chiesa, sia nel Museo del Convento di San Matteo, con un’importante raccolta di memorie storiche e artistiche ovviamente provenienti dallo stesso edificio minorita, come pure dalla città e dai conventi francescani della provincia.
Pur dinanzi a un complesso religioso di pregio e di vetusta fondazione, purtroppo nulla è pervenuto dell’oreficeria medievale. Peraltro, tra i manufatti a suo tempo posseduti dal cenobio si deve deplorare la sparizione di un Piatto per elemosina, così annotato da Matteo Fraccacreta nel 1834: «Un bacile di rame nella Chiesa largo palmi 1-1 ½, tondo 4, nel cui fondo tra due cerchi concentrici di rilievo leggonsi tre volte queste cifre inesplicabili: (sua scrittura apografa) WAR T GELUK ALZEIT», cioè un’iscrizione in lingua tedesca che per maggior precisione va letta ICH BAR T GELUK ALZEIT (Io attendo felicità eterna) (Fraccacreta 1834, vol. III, p. 317; Boraccesi 2001, pp. 40-41, 43).
Il perduto esemplare di San Marco in Lamis s’inseriva in una serie di analoghi manufatti di ascendenza nordica (Germania e Fiandre), diffusi ovunque e per lo più databili tra il XV e il XVI secolo. Trentacinque, finora, i piatti rinvenuti in Puglia (Boraccesi 2001; Id. 2005, pp. 90, 92)1, la gran parte in Capitanata: sei nel Museo Diocesano di San Severo; uno nell’ex cattedrale di Volturara Appula; due nella chiesa di San Domenico di Lucera; uno nella Reale Arciconfraternita Santa Croce, SS. Trinità e Maria Addolorata di Lucera; uno nella chiesa dell’Annunziata di Bovino; uno nella chiesa della Madonna delle Grazie di Bovino; uno nella chiesa di Sant’Orsola di San Giovanni Rotondo; uno nel Museo di Palazzo Varo a Orsara di Puglia. Un altro esemplare, a suo tempo registrato in collezione privata a Mattinata, è stato poi espunto dall’elenco perché rubato dal convento dei Cappuccini di Giulianova (Boraccesi 2005, p. 66).
La raccolta argentaria del convento di San Matteo è di produzione napoletana e copre un arco di tempo compreso tra il Seicento e il Novecento. Di tale suppellettile sono sinora mancati sia gli studi che il ritrovamento dei documenti, fatta eccezione per una testimonianza d’interesse storico-artistico rinvenuta nell’Archivio di Stato di Foggia.
Si tratta di un inventario de’ semoventi, industriali, sacri arredi redatto il 14 agosto 1808, a seguito di una direttiva del Ministro del Culto del 30 luglio 1808. Va detto che il convento non fu soppresso in età napoleonica (Clemente 1993, pp. 183-184); al contrario, lo sarà nel 1866 con le leggi eversive dell’Unità d’Italia, tant’è che nel 1867 verrà acquisito dal Comune di San Marco in Lamis. Si dovrà attendere il 1902, per rivedere i frati rioccupare il loro cenobio e solo nel 1939 entrarne nel pieno possesso.
Dell’inventario del 1808, riporto la sola registrazione degli argenti in dotazione.
Siegue il notamento de vasi sacri ed argento
Una sfera d’argento con statuetta d’Angelo, che la mantiene, ed il Cielo di lama cipro indorato
Otto calici intieramente d’argento con le patene
Una Pisside d’argento
Un Ostensorio d’argento, con il sacro dente di S. Matteo
Una croce di rame indorata, con due statuette d’argento, cioè il Crocifisso, e S. Matteo, due raggi, iscrizioni, e morto d’argento
Due secchietti, con due aspersorj d’argento
Un incensiero con navetta, e cocchiaro d’argento
Sieguono diversi voti
Un pajo di fibie d’argento
Cinque crocette d’argento compreso il soretto con S. Michele in alabastro
Diecinove anelli=tre paja di navette d’oro, e talune fili di segnacoli d’oro e granatelli
Nello scorrere questo elenco e confrontandolo con gli attuali argenti, appare evidente la sparizione o il rifacimento di taluni pezzi. L’episodio più antico e interessante della raccolta sammarchese è rappresentato da una Croce astile in argento e bronzo fuso che, pur non punzonata, è d’indiscutibile manifattura napoletana.
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Proprio perché destinata a essere osservata da entrambi i lati, l’opera propone sul recto la figura del Crocifisso e sul verso quella del titolare della chiesa, nel nostro caso San Matteo evangelista, scelta evidentemente determinata dalla volontà dei frati Minori Osservanti.
La croce subì un rimaneggiamento come testimoniano i quattro raggi di gusto tardosettecentesco conficcati all’incrocio dei bracci. Sia il montante, sia la traversa sono interessati da una ornamentazione di fioroni, di boccioli e di volute contrapposte includenti minuscole pigne; le terminazioni della croce sono impreziosite da testine angeliche e da un giro di perline e di gigli. Di notevole fattura sono le statuine a fusione del Crocifisso e del san Matteo. L’impostazione iconografica di quest’ultimo è quella canonica: l’evangelista è rappresentato nell’atto di scrivere il Vangelo ispirato dall’angelo, suo simbolo di riconoscimento; la statuina presenta la rottura della mano sinistra che stringeva il Vangelo. Il nodo, dalla struttura elaborata ma sostanzialmente ovaliforme, è connotato da un repertorio non immemore del gusto manieristico: due belle protomi angeliche decorano le estremità e alle loro ali si avviluppano ghirlande floreali trattenute, dall’altro capo, da volute che contornano uno scudo liscio. L’innesto a tubo ha perimetro movimentato.
La data più probabile di realizzazione della croce astile è da ricercare tra il 1610 e il 1620. Va ricordato che i frati subentrarono al preesistente cenobio benedettino dopo il 1578, tramutandone il titolo in San Matteo. Del 14 aprile, infatti, è il Breve di Gregorio XIII che ufficializzò il passaggio del monastero di San Giovanni in Lamis, ormai sotto la giurisdizione di un abate commendatario, ai Minori Osservanti. La qualità di questo pezzo è elevata e la delicatezza dell’esecuzione notevole; ha legami stilistici e strutturali – per segnalare solo due casi di questo territorio – con la croce processionale della chiesa di San Bartolomeo a San Bartolomeo in Galdo e con quella di Santa Maria Assunta di Volturara Appula, quest’ultima riparata nell’Ottocento dall’argentiere Raffaele Sisino (Doc. 1850-1897) (Boraccesi 2002, pp. 13-14; Id. 2003, p. 12; Id. 2009, p. 217 n. 36). Un altro ragguardevole esempio è la Croce astile di un paese della Valtellina, realizzata a Napoli nel 1628 (Perotti 2002, pp. 152, 311).
Gravita nell’orbita culturale di Napoli anche un Reliquiario di Santa Colomba Martire, conservato nei locali del Museo. Il manufatto, un autentico pasticcio, è il risultato di due pezzi disomogenei. La base e il fusto, in bronzo dorato fuso, sono l’avanzo di un probabile ostensorio; la loro superficie è interessata da elementi decorativi piuttosto consueti come ovoli, baccelli, palmette e foglie d’acanto.
Alla sommità del fusto, con nodo piriforme, è inserito il ricettacolo della reliquia con l’effigie dipinta di santa Colomba, con corona e palma del martirio, e il sottostante cartiglio scritto in forma errata: S. Columbani M.. Due rami di palma, annodati in basso da un fiocco e in alto da una corona regale con crocetta apicale, delimitano una piastra in argento dorato. La teca ovale è circondata da una teoria di foglie acantacee. A mio parere, i due pezzi del reliquiario corrispondono di massima il primo alla seconda metà del XVII secolo, il secondo all’ultimo quarto del XVIII secolo.
Il Settecento si apre con una Pisside di realizzazione piuttosto comune. In argento fuso sono sia la base circolare, leggermente rigonfia, sia il fusto con nodo piriforme; queste parti del manufatto sono prive di ornato. La semplice coppa, in argento dorato, è sovrastata da una crocetta a rocchetto. Priva di punzoni ma stilisticamente di produzione napoletana, andrebbe datata agli anni Trenta-Quaranta del Settecento ed è tipologicamente accostabile alla pisside della collegiata di San Martino a Martina Franca (BoracceSi 2007b, pp. 36-37).
Nel corredo di argenti settecenteschi del Museo di San Matteo rientra, anche, uno Sportello di tabernacolo, rimosso chissà da quale altare marmoreo. Sulla lastra, di forma rettangolare e centinata, è sbalzato il motivo, piuttosto comune, dell’ostia consacrata con il trigramma cristologico IHS e i tre chiodi della Passione. Sul piano della manifattura, pur in assenza di punzoni, non sembrano esserci dubbi sull’origine napoletana del reperto.
In pari tempo si dovette realizzare un Calice, anch’esso esposto nel Museo, caratterizzato dall’assenza di un qualsivoglia ornato e da un fusto dal contorno movimentato. Il punzone camerale della città di Napoli (NAP), ripetuto per tre volte, ha purtroppo il millesimo consunto, ragione per cui non è possibile appurare l’anno di esecuzione. Un convincente confronto si può istituire con l’analogo calice della chiesa di San Domenico a Martina Franca (Boraccesi 2010, pp. 74-75).
Una certa importanza documentaria riveste il successivo Calice, ancora una volta di pertinenza della raccolta museale. Rispetto al precedente manufatto le reminiscenze tardobarocche sono qui completamente scomparse, per lasciare il posto a una nuova decorazione d’ispirazione neoclassica, il cui gusto dilagò in Europa verso la fine del XVIII secolo dopo le scoperte archeologiche di Ercolano (1738) e di Pompei (1748).
Il piede circolare, in bronzo dorato come anche il fusto, presenta un gradino bordato di foglie lanceolate e di perline, motivo che ricompare sul fusto colonnare e sul sottocoppa. Il marchio di garanzia della Corporazione dell’Arte, ovvero NAP/7(?)(?) purtroppo consunto nelle ultime due cifre, colloca l’oggetto nella produzione di un ignoto argentiere della capitale attivo negli anni finali del Settecento e, dunque, sensibile al neoclassicismo. Sul prezioso metallo sono incise le lettere SV, probabilmente la sigla del committente. La tipologia e i motivi qui riscontrati sono diffusi nel Mezzogiorno.
Interessante nell’excursus degli argenti di San Marco in Lamis, in virtù del fortissimo legame con il convento, è il Reliquiario di san Matteo costituito da una lamina in argento su supporto ligneo. Sulla movimentata base, ingentilita da una ghirlanda floreale, insiste il fusto figurato con l’evangelista Matteo accompagnato dall’angelo. A una committenza dell’ordine francescano, segnatamente dei Frati Minori Osservanti, allude il relativo emblema posto nella parte apicale.
Il reliquiario contiene un dente di san Matteo, che secondo una tradizione sarebbe pervenuto da Salerno nella prima metà del XVI secolo; la città campana, infatti, fin dal medioevo è depositaria (duomo) del corpo dell’evangelista. Pur con citazioni tipologiche e decorative desunte dal barocco, il Reliquiario di san Matteo, privo di punzonature, andrebbe datato – sempre che non sia addirittura un revival del primo Novecento – alla prima metà dell’Ottocento; un indizio, al riguardo, è il minuto decoro a greca, visibile nel contorno del basamento.
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La morfologia del reliquiario ora descritto ci indurrebbe a non riconoscerlo in quello annotato nell’inventario del 1808: Un Ostensorio d’argento, con il sacro dente di S. Matteo; ragion per cui, l’attuale dovrebbe essere il frutto del rifacimento di quello più antico.
Un altro pezzo del Museo è un Turibolo dal piede circolare decorato da baccelli; questi stessi motivi, assieme a palmette, impreziosiscono il braciere e il cupolino traforato, ravvivato in alto da cordonature. Lunghe catenelle legano il corpo del manufatto al piattello. Il turibolo in esame, tra i più comuni nella produzione napoletana della stagione storicistica, andrebbe datato alla seconda metà dell’Ottocento.
La successiva Navicella non ha alcuna corrispondenza col turibolo prima analizzato, dato che v’è incusso il punzone dell’Italia turrita col sottostante numero 3, simbolo del terzo titolo, valido dal 1° giugno 1873 al 24 aprile 1935 (Donati 1999, pp. 11, 200); in virtù della morfologia e dei decori che la caratterizzano, va, a mio parere, assegnata a un argentiere napoletano. Il piede ovale presenta un fusto svasato con baccellature piatte. La coppa è decorata da foglie lanceolate e, più in alto, da un sinuoso ramo di foglie. Il coperchio è ugualmente contraddistinto da motivi vegetali.
Concludiamo questa disamina delle suppellettili liturgiche del convento indicando un imponente Ostensorio, dalla tipica struttura a sole; sul piano stilistico esso è nel solco della produzione storicistica di fine Ottocento, intenta a imitare forme e decori del passato. Il pezzo, probabilmente databile al primo Novecento, è una realizzazione del napoletano Vincenzo Catello (1858-1950), l’artista più qualificato di questo periodo, che ebbe come collaboratori i figli Eugenio e Giuseppe (Catello 1995). Sul manufatto, invero, ho rilevato il punzone CATELLO e la sigla M800, marchio di garanzia di bontà del titolo.
La base, di forma circolare, è ornata da un repertorio di vegetali racchiusi entro forme geometriche. Il fusto è costituito da una statuina a fusione di un angelo panneggiato a braccia conserte, una tipologia che riscontrò largo successo. La raggiera, con gli immancabili simboli eucaristici, si rifà a quelle d’età barocca.
L’ostensorio, dunque, obbedisce alla moda del tempo, così come in altri esemplari dell’Italia meridionale. Si può citare, al riguardo, l’Ostensorio della chiesa di San ta Maria Assunta di Volturara Appula, eseguito nel 1891 dallo stesso Vincenzo Catello (BoracceSi 2004, pp..51-52), e quello del Museo Diocesano di Nocera Inferiore-Sarno, licenziato nel 1886 e già assegnato a un ambito italiano (Gentile 2008, p. 63), andrebbe a mio parere restituito alla mano dello stesso Catello proprio per la stretta analogia con il manufatto in esame (Boraccesi 2011b, pp. 176-177, 179 n. 55; Liuzzi 2008 pp. 121-122; Boraccesi 2011c, p. 165).
Ringrazio padre Mario Villani, Bibliotecario e Direttore del Museo del Convento di San Matteo, per avermi favorito in questa indagine.
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Fonte: http://www.archeologiadigitale.it/attidaunia/pdf/33-boraccesi.pdf