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Da Qualesammarco, n. 1 del 1988
Forme di coscienza
Chiare, fresche, dolci naftaline
L'intellettuale di tipo “rurale” e il rischio della lacerazione - Un '68 un tantino catacombale - La lotta per una nuova cultura ha mostrato la corda - Occorre capire la trasformazione e allo stesso tempo prendere coscienza di una “questione meridionale” del paese.
La rassegna che ci offre Siani qui a lato ci da un’idea abbastanza precisa di un fenomeno che ha richiamato l’attenzione di osservatori anche da fuori provincia.
Siani si limita all’ultimo triennio, ma i titoli da considerare complessivamente nell’ultimo ventennio vanno ben oltre il numero dei cinquanta. Siamo in piena sindrome gutenberghiana? Certo, pane per i sociologi della cultura ce n”è e noi non staremo a recitare il mea culpa per tanta abbondanza.
Spiegazioni ce ne devono essere e noi azzarderemo qualche ipotesi di interpretazione, andando naturalmente al di là delle pareti di carta e sgusciando tra comportamenti, contraddizioni e conflitti che nutrono l’entroterra degli scrittoi. La parabola che ne verrà schizzata servirà da primo rozzo telaio di discussione.
A mano a mano che son passati gli anni si è avuta l’impressione, e anche la constatazione, che se i contenuti dei testi pubblicati sono venuti parzialmente cambiando, non sono cambiati tuttavia i metodi di diffusione del prodotto e la socializzazione di esso. Contraddittoria, quanto contraddittoria è la realtà di una periferia semicolonizzata, è stata tale produzione libraria. Dove sono stati gli interlocutori, a chi è stato rivolto il messaggio? Quanta consapevolezza c’è stata in chi ha prodotto tali manufatti delle radicali trasformazioni subite dalla funzione intellettuale nella società di massa?
Questo fenomeno di iperproduttività editoriale, derivante in via aritmetica dall’addizione di molte solitudini in colonna, ha accompagnato evoluzioni sociali ed economiche massicce, spostamenti di ceti, crescita di bisogni ed esigenze di nuovi servizi. C’è chi impavidamente ha continuato a crogiuolarsi nell’il1usione che i valori ritenuti supremi fossero inattaccabili sulla pagina e che la lingua della letteratura bastasse almeno a puntellare presunte rivoluzioni estetiche. È stato un po' questo il destino di una folta schiera di professori di Belle Lettere, assecondati dal compiacente orecchio dell’avvocato o del dottore orfano della rima. Il far versi, in particolare, è stato ritenuto il discrimine per essere apprezzati da una società avviata alla paralisi del perbenismo e del conformismo. In fondo una comunità cresciuta sulla disgregazione emigratoria e sulla terziarizzazione improduttiva e clientelare poteva volere di più? I ceti borghesi restavano ben saldi sul loro arcione, soddisfatti che il circuito idillico riposante sulla triade famiglia-lavoro-chiesa fosse accetto ad aggregazioni di potere che governavano miliardi in nome della continuità metastorica dei valori universali. La città, al massimo, era dell’emigrato o del più fortunato studente, non interagiva se non nei modelli maassmediali (TV anzitutto) con la tranquillità campestre dell’intellettuale rimasto in paese, dell'intellettuale di tipo “rurale”.
Questa esibizione di palesi contraddizioni tra modelli ibridati di disegno vetero-umanistico e tensioni e torsioni di uno sviluppo sociale ed economico indotto dalla penetrazione neocapitalistica, avrebbe prodotto -proprio in poesia nuove forme di espressione, nuovi bisogni di legittimazione estetica. Ricordo che nel 1974 (l’anno del divorzio!) uscì un libretto scritto da Michele Coco, Cosma Siani e Antonio Motta, che si intitolava Mitolatrìe (editore Rebellato), dove guardacaso la libertà di far versi tentava un'uscita più clamorosa dalle sue naftaline e si dava ai dadi di una tensione nuova, di un'intimità finalmente prosciugata e offerta a un rischio di “bruttezza”, di lacerazione. Era, a mio parere, un primo sintomo di una situazione coscienziale in movimento, che rifiutava la convinzione di una libertà in sillabe e cercava segmenti più distinti di retropiani storici, di fenomenologie rivelate sotto l’incalzare di una razionalità attenta alle analisi “territoriali” piuttosto che ad aprioristiche sintesi “continentali”. La lingua letteraria diventava anche qui, a S. Marco, luogo di rapporti conflittuali, di coscienze perplesse. La tradizionale “saggezza” dell'intellettuale di tipo rurale, portatore di un umanesimo formale, tentava la riclassificazione dei valori e avvertiva l’esigenza di altri prismi di sensibilità e di analisi della realtà.
Se tale era il preannuncio nella proiezione dell’immaginario, una sempre più chiara definizione operativa dei propri bisogni soggettivi riusciva a far emergere la lunga onda soggiacente di un '68 (sì, proprio lui!) a circolazione carsica, un tantino catacombale, inconsciamente caricato di eresie anticapitalistiche. Che cosa significava, infatti, inventarsi per Motta e Siani, anno '76, il veicolo editoriale dei Quaderni del Sud e, tramite il prodotto-libro, far passare il dialetto sociale di Borazio o l'italiano “tendenziale” di Salvato? Cosa significava gestire la pubblicazione di Atti di Convegni di storia locale o di etno-antropologia, e ancora di più sollecitare un”informazione e una riflessione su alcuni momenti del movimento contadino e operaio di Capitanata, tentando per questa via una sensibilizzazione etica, se non politica, di forze intellettuali, stanche di assimilarsi ad una piccola e media borghesia di provincia, generalmente propensa all'arricchimento economico, all’ostentazione di “status”, alle grige e frustranti carriere burocratiche, piuttosto che a smuovere le certezze assicurate da un analfabetismo profondo e dalla servile omologazione a una cultura (quale?) sussiegosa e acquisita per sempre?
Lo scavo nelle periferie e nei margini, l'addentrarsi nelle microstorie, la consapevolezza dell'esistenza di una cultura "locale” e “popolare”, l'esperienza dell’autogestione produttiva e diffusiva avrebbero potuto essere una premessa importante per il passaggio ad un impegno di attivazione di spazi etici e di bisogni soggettivi. In una comunità del Mezzogiorno come S. Marco. violentata dall’emigrazione e dalla crescita di una classe politico-affaristica legata alla rendita e alla speculazione e quindi profondamente antidemocratica, occorreva forse non fermarsi alla pura gestione del prodotto-libro. I limiti di tale operazione si sono visti.
Da una parte, sono cresciuti, probabilmente in funzione emulative e concorrenziale, tentativi di raggruppamenti editoriali e redazionali, che hanno confermato la rinuncia ad andare avanti sulla via di un'autentica ricerca di identità progettuale; dall'altra parte, non si è assistito ad una concreta attivazione di dibattito e di analisi dei conflitti, dialetticamente presenti in una società divaricata tra “cultura della povertà" e rinnovata violenza del potere neocapitalistico italiano.
La lotta per una nuova cultura, non platonicamente deducibile da valori sovrastorici, ma razionalisticamente e materialisticamente passante per i circuiti di teoria-prassi applicabili a territori storicamente definiti e antropologicamente omogenei, questa lotta ha mostrato la corda, ha evidenziato le contraddizioni stesse del suo porsi e ha rinunciato infine a rintracciare metodi di ricerca e a socializzare capillarmente i prodotti delle sue analisi. La produzione intellettuale continuando unicamente a lanciare asettici ballons d’essai in un cielo troppo alto, si è ricacciata nel tunnel dell’esercizio privato della sua solitudine, lasciando scoperti spazi e tecniche di comunicazione.
Non si è capito o non si è voluto capire che i processi di massificaficazione e di proletarizzazione della funzione intellettuale lasciano disponibile, se non una volontà di resistenza, almeno una volontà di democratizzazione. La coscienza degli intellettuali di S. Marco non è ancora scesa nelle piazze del paese, non ha incontrato ancora le frizioni e le tensioni della trasformazione in atto, e rimasta aggrappata ad una pericolosa recinzione corporativa e non ha saputo o voluto organizzare flussi culturali all’altezza dei tempi. Non ha preso nella dovuta considerazione esperienze che andavano sostenute, come il Laboratorio d’Arte di Nick Petruccelli, che avrebbe meritato non sguardi diffidenti ma solidarietà attiva, nella prospettiva di una solidarietà più generale con i giovani che attorno a lui si erano raccolti per produrre una nuova realtà. Non si è forse neanche accorta che esistono nuove associazioni e cooperative che vogliono ribaltare tanti scetticismi qualunquistici. Non sa, o non vuole questa coscienza, riprendere seriamente in considerazione la possibilità che persista, purtroppo grave, una “questione meridionale” del paese, che partecipa a quel “divario democratico” su cui si allarmano gli annuali rapporti SVIMEZ e le relazioni del governatore della Banca d'Italia Ciampi. Occorre, a tale coscienza, procurarsi steccati ideologici pur di negare la validità di una rilettura delle pagine più vive di Fortunato, Salvemini, Gramsci, Fiore, Dorso, De Martino? Perché rimandare sempre al domani queste occasioni di reimpegno nella realtà, attraverso la conoscenza di nodi strutturali che portano dalla questione agraria alla “questione urbana” lungo la discontinua via allo sviluppo delle regioni meridionali; o, più in particolare, attraverso la conoscenza della questione demaniale, già richiamata nel precedente numero del giornale? (su cui aspettiamo altri interessanti contributi dello storico Tommaso Nardella, al quale vorrei qui pubblicamente proporre una raccolta organica dei suoi saggi che attestano la sua sensibilità meridionalistica). Perché, infine, riannodando i fili del discorso, far finta di non accorgersi che i problemi di questo paese si convogliano tutti verso una ritrovata centralità del lavoro e quindi una cultura del lavoro, sconfiggendo lo spettro della disoccupazione e le deformazioni ribellistiche e individualistiche dell’alienazione, e creando e favorendo forme vive di cooperativismo e associazionismo, tanto utili ad una società civile organizzata su basi di autonomia e di democrazia?
Restituiamo pure la letteratura ai professori e liberiamoci dalla supposta superiorità universalistica della cultura e dalla sua altrettanto supposta immunità ideologica, se essa non ci aiuta a rintracciare un nuovo umanesimo valido per tutti e circolante tra memoria e progetto, tra identità e integrazione dei nuovi soggetti emersi dalla storia.
Sergio D’Amaro