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Da Qualesammarco, n. 3 del 1993
Cronache dall’Italia che non muore
Ho composto questo poemetto nei dieci giorni successivi al ballottaggio elettorale del 20 giugno, e dopo, quindi, l'attentato di Firenze. Avevo intanto letto dell'uscita in nuova edizione del Viaggio italiano di Piovene, che è degli anni Cinquanta. Ecco scattare il cortocircuito, la consapevolezza di 40 anni e più di Repubblica distesi tra l'ultimo governo De Gasperi e passaggio allo sperabilmente nuovo, tra gite quasi ormai mitiche a Sammenaio e villaggio globale della maturità. In mezzo, il ricordo e la continuità di una gente semplice e pulita, l'ideale bellezza di un popolo sceso poi a patti con la violenza del benessere, e la vendita mercantile della politica. In mezzo, il pensiero fisso a coloro che hanno sofferto, scegliendo molte volte l'emigrazione pur di restare onesti e riscattare la loro povertà e sfortuna con il lavoro.
All'Italia operosa di sempre, all'Italia che non muore, appunto, devo soprattutto se questi versi sono usciti col cuore.

I

Dentro questo massimo incalzare
di speranze e di paure nate
sotto un cielo screziato di zagare

il tuo mistero, Italia, forsennate
colombe annunciano tra i soliti venti
la spuma del Tirreno, le toscane parate

di colori spalmati sugli eventi
e sulle sparse pietà residue.
Nell'ovatta deiettiva del tempo

si sfioccano le agende ambigue
di Piovene, quegli aspri anni Cinquanta
che misero in fuga l’infanzia mia continua 

tra il mare e i laghi, alla paranza
del vecchissimo nonno con la pipa
le mani asciutte al sole di levante. 

Italia, allora solo quasi sorta
tra gomme americane e le lambrette
più intima più schietta più sentita 

non eri che ruscello o pia pineta
o fischio di merlo tra le canne
cacciatore di piste senza meta. 

Ti vestivi di feste contadine
intrecciavi amori alle balere
e con Pavese giocavi alle silvane 

mitologie dei paesi e dei quartieri
i lampioni in piazza e le morose
i piovosi autunni e le guantiere 

offerte dalle zie come le rose
i confetti il rosolio e la fisarmonica
le polke le mazurche e le rosse 

tovaglie a quadroni. Italia semplice
giovane e viva attraverso Pasolini
riscoprivi le ceneri di Gramsci 

riaprivi gli orizzonti vespertini
chiusi dal nero fumo delle bombe
svelavi il seme antico del dominio. 

Cantava Firenze nell’Arno e Roma
scorreva nel Tevere di alghe molli
e sinuoso vibrava agli ampi ponti 

pizzicando chitarre ai colli d’oro
fino al Pincio boscoso e al Celio
il ponentino accarezzava le cupole 

e le piazze, si perdeva nelle celie
barocche dei palazzi, alle finestre
popolari, alle osterie domenicali. 

L’Italia risorta celebrava i suoi estri
i suoi aromi di Caffè Greco e Aragno
i teatri borghesi e le modeste 

cucine, “Sogno”, il primo bagno
le conserve di salsa, il matterello
la luce ancora a vite e allo sparagno. 

II

Ora non siamo più alla speranza
e nel mistero del tempo che ci tocca
di nuovo è gonfia la vela alla paranza 

solchiamo offesi e attoniti la rotta
in piena passione e dolci risse
alla linea d’ombra che anche Fofi 

segue dopo che ai Sessanta non s'arrese.
Questo elettronico presente
annulla attese ed esperienze 

occhieggia lucido dalla parete
dove sono i miei libri di sempre
il Curtius il Macchia il Mario Praz 

il faro di Virginia il suo Sussex
l’Omero di Auerbach i viaggiatori
le nostalgie romantiche Milocz. 

Anche oggi le nuvole hanno le ali
e oggi pure cerchiamo le parvenze
di una qualche lingua dell’altr’ieri. 

Italia bella, più schietta più vera
risorta pari da una popolare
democrazia occidentale. 

Amorosa Italia, oggi sei pura
come le dolci frittelle di mia nonna
hai le spalle nel verde pullover 

degli studenti anni Settanta:
nulla è cambiato dai tempi di Piovene
dall’età novella degli amori pronti?

III

Oh sì, Italia, certo sei cambiata
non sei più la vergine giovenca
che trovò Enea al suo fuggir da Troia! 

Sei mobile testarda partigiana
“indignata” ti dicono, impegnata
ad empir celle galeotte di strana 

gente, di carattere mezzana.
E tutto può la pietas le lacrimae
rerùm, la polvere e l'altare

il perdono dell’attico ed il crimine
il demolir lo Stato e la spocchia
di rifare alla testa la sua scrina.

IV

In questo cielo del Novantatré
screziato di zagare e d’influssi
un posto c'è per la dialettica del tre 

l'opposto il negativo il non tutto
l’irrazionale correre dell’uomo
a nascondersi nella buca dello struzzo.

V

L’Italia del Sessanta, ricordi?
Io giocavo ai trenini e alle corde
tese per un salto e alle vigne andavo 

a cogliere i primi chicchi d’uva asprigna.
Gli operai sudavano alle bocce
bevevano birra Peroni alla bottiglia. 

Coppi moriva ma ormai c'era Nencini
gridavamo al bar i nostri applausi.
Fellini rubava la vita coi suoi intrecci 

e dolce la chiamava ma era erosa
da nuove malattie esistenziali
che l'Italia facevano più chiusa. 

C’era già il presagio di fatali
cadute nelle offerte del benessere
nei vani possessi materiali. 

Milano ospitava Rocco e il suo malessere
il rock il Pirelli e anche Torino
diventava città meridionale.

VI

Oh Italia, com'era profonda
la tua anima più semplice
i tuoi istinti di donna proletaria. 

Avevi un mare antico di alici
azzurre e di tonni lottatori
barche impeciate e reti complici 

che tornavano all'alba nei porti
tra le voci grosse degli uomini
cosparsi di essenze salse e di sudore. 

Rompevano la sera i fuochi nei camini
e il cuore si saziava di canti
e di storie librate al sole saraceno. 

Eri schietta, Italia, così vibrante
di colori riaccesi nella luce
delle piccole lanterne parlanti. 

Dal vaso muto sulla tovaglia lisa
uscivano i fiori secchi del mercato
i muri erano coperti dalla muffa 

stavano appesi i quadri di zio Aldo
il rosario e una vecchia stampa
di Treviso. Nella cucina al caldo 

preparavano i taralli di Sant’Anna
cantavano le prime note di Modugno
infornavano con la lingua su “volare”

VII

Ai vent’anni il miracolo si spense
alla banca di Milano e a Valle Giulia.
Cominciarono le lotte e le esperienze 

d’una tragica sequenza di paure.
Gramsci era perduto e morto Pasolini
più non s'andava al cinema ed al club 

sbocciavano gli amori e le pistole
poco prima del Settantasette.
Gli inverni erano lunghe parole 

strette nell’eskimo e nelle sciarpe
all’incontro dei compagni per le vie
nei bar della piazza principale. 

Come fu inutile la sociologia
ed ogni ideologia sommersa
nella neve dell'Italia pia! 

VIII

Anch’io me ne partii per il Nord
in cerca del posto tanto amato.
Eppure erano gli anni miei migliori 

con molto Leopardi ed Ungaretti
Thomas S. Eliot e l'Emily di Amherst
un po' di Moravia ed Elio Vittorini 

le città della Ginzburg e di Bassani.
Fuori del Sud mi sentii più Sud
e con Franco diedi una tesi 

Sul Cristo si è fermato a Eboli di Levi.
Non potemmo più scordare i nostri archetipi
gli orologi rotti, la distanza dei tempi.

IX

Caro Franco, il futuro ha un cuore
antico, impastato al dolce miele
dei croccanti nei tiretti di Matera. 

Ora che il giallo denso delle ginestre
si attacca maturo alle rocce
della piccola contrada di Marchese 

ora che l'estate si fa lenta al poggio
e riarde le sterpaglie di Lantauro
sicuro è il mio animo dall'odio 

e febbre salutare il suo contrario.
Oggi vi amo, anni faticosi
degni di pietà e di veli mortuari. 

Lungo le marine dei miei occhi
vedo le superbe vele di Ulisse
e le genti che salutano benevole 

alla nuova terra che risorge.
Oggi vi amo, anni crudelissimi
che venite da una storia senza mete 

e sparite nel cosmo di galassie.
Siete come questo cielo triste
venato di candide ovatte 

e di lame penetranti di rosso
sorriso tra i monti lontani.
……………………………

X

A Firenze, a quest’ora, gli Uffizi
immortali odorano di zagare
e dei pennelli che hanno unto i suoi supplizi. 

Non più morte ma suono di fanfare
non più fuoco ma acqua di fontana
che rimedio sia per la barbarie. 

Zefiro torna e il bel tempo rimena
dorme il giglio fermo sullo stelo
denso il muro degli anni sotto i ponti.

Libertà va cercando ch’è sì cara
all’uomo nato a non vivere da bruto
ma per cercar della vita l’erba rara.

Leonardo e Michelangelo, tornate!
Quant’è bella giovinezza che si fugge
e quant'è eterna la gaiezza

dei popoli a cui l'orgoglio rugge
e si fa durevole certezza
che il vizio non offende e non aduggia.
(giugno 1993)
Sergio D’Amaro