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Se, balzato sugli spalti supremi di questa acropoli, ti sporgi dalla balconata della chiesa sull’orizzonte in fuga, la vertigine ti assale. Cade un sipario di angustie e questa personalissima valle, improvvisa, ti svela il suo miracoloso incanto. Si spiega perché essa vuole popolo e coro. Cassa di risonanza a canti di gente devota e di gioventù festante, la conca si colma di una esultanza gridata ai quattro venti. Un infrenabile oh! di meraviglia sgorga concorde da ogni gola.
Sacra maestà di uno spazio aperto alla profondità di un cielo colmo di bontà infinita, sorretta da una rupe ardita e porto all’anima smarrita.
Imitando lo sguardo del tozzo campanile, occhio sornione e lungimirante che vede non visto, oltre la digradante serie dei colli, scopri la piazza del Tavoliere, un guizzo di mare e di lago, a ponente l’adamantina vetta della Maiella e, a mezzodì, scorrendo il cerchio dell’Appennino, il tetto della Puglia dallo sgradito nome di Monte Cornacchia.
L’occhio, girando intorno intorno all’infinito, sollecita il petto a un cosmico respiro. Il battito fondo del cuore si intona alla vita dell’universo e ne scandisce il ritmo in sintonia. (Una giovane scienza, la cronobiologia, ci offre, in merito, un consolante appoggio di conferma). In questi momenti di esaltazione incantata pare di toccare con mano l’anello che congiunge terra e cielo, presenza e trascendenza; il punto umano che già si fa divino.
E mentre il cielo dona azzurro ai più vasti sogni, con trepida speranza si attende che quest’Arca si stacchi dallo scoglio e, sciolti gli ormeggi, salpi verso l’infinito.
Con tacito palpito, a tale vertice sublime ti eleva questo ardito Santuario.
Precipitano giù dubbi e timori, che il cuore Impaurito adunava, e affidi sicura la mano all’inferriata che ti protegge dall’orrore del vuoto.
Se varchi la soglia, la chiesa ti accoglie con affabile familiarità. La soggezione dell’Apostolo si scioglie in amabile confidenza. La preghiera è un inno al conforto dell’ambiente. E chi sa (beato il popolo che non sa, ma che tutto spiega e giustifica nell’insondabile suo cuore che è tuttavia più illuminante della mente), chi sa non è più distratto dalla conturbante duplice metamorfosi subita dalla statua bizantina del santo e da quella triplice del tempio. Svelato questo dall’industre e paziente ansia ricognitiva degli odierni custodi, il Santuario mostra malinconici lembi mirabili di tre età, corrispondenti forse alla diversa vita dei tre Ordini di frati che l’ebbero variamente in cura e in tormentoso godimento: l’opulento benedettino, l’agitato cistercense, e l’umile, ma alacre, francescano.
A questi rupestri fondamenti visibili e invisibili si àncora e rinsalda una turrita fede. Irresistibilmente, l’animo di chi vede, ammira e contempla, oscilla fra la tensione lirica e la spinta metafisica. Allora, quasi per sé, sottovoce ripete queste aeree parole del poeta: 'Veggo dal cielo l’ultima luce venir sul mondo'... e 'ogni ombra redimere'. E infine:

'Domani ...
Se saran queste strade di sole
che un giorno (quando avremo ali)
ci porteran lontani;

e non più mireremo dai cari
colli le case gioviali
che c’invitano ai piani:

appena un persuasivo candore
vedremo, delle montagne,
come le vene d’erba,

e il mare, dentro nullo colore,
come un vano occhio che piagne,
come una gemma acerba.

In un aere senza il dolce azzurro
dove il sole è l’etern’onda
andremo via giulivi;

con stupend’ali senza sussurro
verso una riva gioconda,
profondamente
vivi'.

Chiara è la trasparenza dell’enigma tra realtà e simbolo.