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Certezze storiche e dubbi di leggende non hanno consentito di misurare il peso reale di due eminenti indubbie presenze in questi luoghi. Per quanto il confusionario storico Strabone vagamente lusinghi, la taccia di campanile vieta di insistere nella ricerca del tempio di Podalirio, alla radice del colle, lontano dal mare cento stadi all’incirca' (venti chilometri?), dove 'scorre un rivolo le cui acque sono universale rimedio a tutte le malattie degli animali. La sorgiva che alimentava il ruscello non c’è più; dura, però, il romano nome di Jano e vi convergono gli animali per la benedizione che allontani ogni male.
Nè vanamente, almeno per ora, seguiremo le orme di Argiro e di papa Leone, che si opina qui convenuti, prima che il normanno Roberto, con decisa volontà di conquista, nell’alto Tavoliere imponesse un nuovo destino alla Puglia e al papa in cattività.
A ben altri, invece, è sortito passare per questa terra e rimirare questi odorati colli. Per una misteriosa ma puntuale coincidenza di ritmi storici, carico di destino fu il biennio dauno 1221-22. Qui convennero le due personalità più rappresentative della politica e della fede in quel tempo e, insieme, il più ricco e il più povero di beni terreni: Federico e Francesco. Celebrò l’imperatore le due festività natalizie del 21 e del 22 a Barletta e a Foggia e si rileva appunto in quel tempo la miracolosa presenza di Francesco, pellegrino alla grotta dell’Angelo. E, mentre il primo, dalla piana di Apricena e dalla vetta di Castelpagano, rubando occhi grifagni ai suoi falchi, con mira predace assiderò la potenza benedettina; l’altro, seguendo la via sacra dei Longobardi, di ritorno dalla montagna dell’Angelo, ospite di questo poggio, con i suoi smarriti occhi biavi stupì la valle. Era forse in lui una reminiscenza di Nazareth e di Greccio. Non sapeva della futura eredità che attendeva i suoi figli, la benedisse e le impresse il crisma congiunto della fede e della bellezza: i due agenti che rendono amabile ogni condizione di vita.
Da quattro secoli, ricomposto il volto di quest’Arca di fede, ora tutto parla di Francesco. All’ingresso lo ricorda l’operoso intreccio della mano stimmatizzata con quella crocifissa.
Chi scelse la povertà come premessa di felicità e la letizia nell’affrontare ogni male, per la sua fervida fantasia simbolica, è presente, quale inventore, in un presepio perenne. Nel sintetico giro di un giorno, la figurazione ripropone il tema della natività, la feconda creatività nel rinnovato messaggio d’amore dell’uno e l’altro Cristo, e che solo fa civile ogni umana convivenza. Con questo salutare avvio, qui c’è pace e bello in casta lindura. Cuore e mente, liturgicamente in armonia col giro del sole, delle stagioni e degli eventi umani e divini, si adagiano in una tranquilla sicurezza. Sono così celebrati, nei dovuti ritmi, i riti di sempre; mentre altrove seguendo false immagini di bene, l’uomo, consumando si consuma.
L’erboso incerto del chiostro, che si provvede di acqua e di luce, e la leggiadria di una loggetta, nella loro nuda semplicità, hanno il segno della grazia francescana. Dalle ordinate cellette del piano superno agli inferi anditi e saloni, ospitali al transito dei pellegrini, il cenobio era un tempo una rombante arnia di api operose. Mondo da ogni potenza mondana e feudale, il lascito benedettino era reinterpretato in chiave più nuova e fruttuosa. Telai ronzanti producevano lana abbondante per frati e per laici. Ma avvolgeva di tepore lo spirito la più fine e impalpabile lana della preghiera, della meditazione, dello studio. Il richiamo era atteso ed è inteso tuttora dalla famiglia degli uomini e degli animali. Non c’è più intorno intorno il grido lungo dei lupi, ululanti nelle forre. Estinti i lupi, Francesco avrebbe ancora da compiere opera di persuasione tra gli uomini, ma non potrebbe rinnovare il miracolo di Agobio. Numerosi, invece, greggi e armenti da pascolo, da tiro e da macello porgono mansueta la fronte crinita o cornuta al segno della Croce con la piuma di Matteo intinta di santo olio protettore.