Ancorata a uno scoglio eminente, questa millenaria Nave, carica di fede di speranza e di carità, è dunque sostenuta dal ferreo abbraccio di un teatro di colli: regista dell’elegante scenografia sta il Celano; attore impegnato, il colle che fa da quadro e paesaggio in fondo al lungo corridoio della chiesa.
La punta di questo colle, una volta, pareva entrasse con violenza in convento; all’alba, la sua luminosa calvizie sfolgorava rossa nella lunga corsia tra chiesa e chiostro. Respinta dai frati la sua prepotenza, spaccata la roccia e spazzata la turba sfrigolante delle baracche, ora una vasta platea accoglie una scarafaggera di macchine turistiche, allotrie comitive, assemblee di muggiti di belati di nitriti, invocanti tutti l’onnibenedizione del Santo indigete.
È così fugata per sempre ogni tetraggine medievale e feudale, in un’aura magica di lieta fiducia. Sono però sempre più rari, i carri dipinti, i plaustri dalle grandi ruote e dai pennacchi versicolori, che con il loro stridore frustato destavano farfalle nelle celle addormentate.
Nasconde, comunque, quel colle un paradiso di panica gioia vegetale. Se lo interroghi, ti guida in alto alla tua destra, verso la 'Defensa' e alla sinistra verso la 'Fajarama'.
Vivo è tuttora nella comune parlata il caro nome di 'Defensa', oggi sempre più contaminata da bivacchi domenicali; e caduti i privilegi badiali e imperiali, vivi da remoti tempi sono ancora quelli del popolo.
Questo inesausto bosco, spesso oltraggiato da mano dolosa o distratta, alimenta d’inverno i focolari dei poveri; di primavera, modulata dal cuculo, spande un’aria odorosa con densi effluvi di mammole e di narcisi; d’estate, il vento genera un canale di fresco che al fondo della valle sfiora la fronte degli abitanti del borgo in attesa di questa serotina carezza; ma d’autunno, tacendo gli uccelli gli uomini e le cose, il bosco va in vacanza: riposato da ogni fatica, si abbandona all’estro dipintore di una inesauribile fantasia che, con la gamma dei suoi colori, accende zolle pietre alberi e colli.
'Fajarama, Fajarama': bel nome, caro all’infanzia! Fronda e ramaglia con iridi pendule: foglie, rame e oro di sole brulicante nel fogliame. A un vento di fronda, d’incanto si sollevano velari su mondi di fiaba. I rivoli del sole avvolgono e trasfigurano rami alberi bosco. Allora, immersi nell’oroverde di un sortilegio, si invocava Tarzan: alla candida puerizia, è sempre naturale vivere e parlare con piante, animali, gnomi. Biancaneve, santi e spiriti folletti.
Ora che quel mondo è concluso, pur vi si ritorna per un attimo di rifugio. Conforta ancora l’azzurrino saluto dei non ti scordar di me, il rosso delle fragole, e, nel mese di San Matteo, quello gridellino dei ciclamini; e poi dei prodighi avellani, degli agili ornelli e dei carpini. Ti investe ancora il bagliore dei gattici trascorsi da fulgida gioia. Se il vento scuote uno di questi alberi e solleva la pagina bianca della fronda, esso ti guarda con mille occhi di meraviglia. Gattice, o albanello come lo chiama la nostra gente rurale, che mai vuole quest’Argo sublime? ‘Ti vedo, dice, mentre ti veli e ti disveli’.
Ma, con questi poveri occhi terreni che mai più si può vedere, mio Dio, da una rupe, nella profondità di questo tuo Cielo?
Mentre scrivo, leggo (e la coincidenza mi esalta) che l’umanità sta perdendo il controllo della propria storia e della propria scienza, e che pertanto eminenti teologi, filosofi e scienziati di ogni dove si sono pensosamente radunati per rilevare con preoccupazione comune che 'c’è in giro una cecità epidemica, ossia l’incapacità di vedere l’armonia' di un Dio operante, intanto che si va mutando lo stesso concetto di umanità.
E vi è chi, con pensosa serietà, sonda gli abissi dell’atomo e vi scopre con meraviglia la luce di una guida ordinatrice, nei suoi ritmi riversibili e rigeneratori. Inoltre, vi è chi, seguendo il viaggio delle sfere, sgomento di fronte a esplosioni galattiche, conclude che non ancora 'riesce a spiegarsi tutti i fenomeni celesti' e registra però leggi e cadenze di un ordine luminoso, Vi è dunque, ci dicono 'qualcosa di nuovo oggi nel cielo'.
In limine, chi cerca, nel labirinto delle incertezze, stupito sospende alla fine ogni giudizio. E quale, allora, il nome della luce che trabocca dal cielo di questa rupe su un abisso?
Di colpo investe l’anima il vento di un messaggio perenne: con ‘la libertà che solo il deserto alleva spira in questo luogo una imperiosa volontà di credere, una sete di fede, 'una furiosa fame di essere'.
Qui è come tornare alle origini, alle radici del bene, all’assenza del male: l’effusa pace verde è, certo, igiene del corpo, salute dell’anima.
Si apre un varco nella selva l’occhio persuasivo del tozzo campanile, e anch’esso ti vede e ti dice:
"Ormai non c’è più distanza fra il cuore dell’uomo e l’immensa sfera dell’universo; e tu spera. Perché su questi rami del futuro, ancora la speranza ha fior del verde".