Non si rinvengono tracce o relitti, in qualche modo significativi, che attestino la remota ma indubbia sacralità di questo luogo. Carenti o quasi nulli sono gli elementi o segni di culto dell’antico uomo della pietra. Eppure numerosi sono i manufatti litici delle prime due età che affiorano nei dintorni spontaneamente; o dopo un temporale estivo; o che vengono alla luce a un appena superficiale solco dell’aratro; o a una semplice sollecitazione della zappa. A differenza del Gargano nord-orientale, dove ricerche e scavi sono fruttuosamente praticati da gran tempo, i segreti che nasconde questa valle e quelli delle vaste distese carsiche tra San Marco in Lamis, Castelpagano e Sannicandro Garganico, sono ancora tutti da scoprire; come altri tra la grava di Zazzana e di Puzzatino, la più grande dolina carsica italiana.
Vaghi e incerti, anche se allettanti, gli indizi preclassici e specificamente greco-romani. Qualche sacello, a parte il dubbio luogo straboniano di un tempio a Podalirio, non può essere escluso. La testimonianza più valida è depositata nel linguaggio e collocata nella toponomastica tuttora persistente. Del culto al dio Giano si accenna nel testo, ma anche per questa presenza pagana e romana nessun serio tentativo di ricerca è stato mai intrapreso in loco e nei pressi. Molte le ipotesi, fragile la consistenza testimoniale, riferibile anche alla base della costruzione del Santuario.
Nel profondo medioevo, la prima presenza della 'vocazione' sacrale in questi luoghi, tuttora facilmente rinvenibile, nonostante la desolazione e la devastazione, è solidamente costituita dai non pochi oratori ed èremi disseminati sui dossi solatii delle due valli di Stignano e dello Starale.
Alla sommità di quest’ultima, sul colle a destra di chi guarda il convento, vi era un estremo èremo. San Nicola: vedetta eccelsa lungo la 'via sacra' e altro belvedere sulla valle dello Starale, che accoglie nel suo fondo la città di San Marco in Lamis. Di questo ritiro spirituale, come vuole una tradizione orale, non rimangono che sparsi avanzi e il nome della località.
Si entra nella certezza storica con l’ospizio longobardo: primo germe e impianto della futura costruzione badiale e tappa d’obbligo di chi si dirigeva alla grotta di San Michele, lungo il sentiero tracciato dalla devozione all’Angelo degli stessi longobardi; donde il nome di via sacra langobardorum.
Tenendo presenti avanzi minimi e resti eloquenti di una pietas plurimillenaria e memorie pur labili e confuse, si può senz’altro concludere per questi precedenti protostorici e storici sulla precisa evidenza della predestinazione di un luogo all’insegna della fede e della bellezza: la caratteristica sacralità di un genius loci.
Gli inizi di un culto cristiano, con un ospizio longobardo dedicato a San Giovanni Battista, al più potrebbe, come vuole una comune opinione, farsi risalire alla fine del VI secolo e forse meglio in quello seguente. Inaccettabile è però la data di fondazione dell’ospizio: 567 (anacronistica e acriticamente ripetuta dai cronisti locali; e immaginosa quella di affidamento dello stesso ai benedettini: 589.
Unico punto di riferimento, che forse ha dato poi origine ad arbitrii illativi, non è che il culto per San Giovanni: a Teodolinda, che nel 589 aveva sposato Agilulfo, si deve l’insigne monumento di San Giovanni in Monza. Circa la presenza benedettina i primi possedimenti Cassinesi, in Capitanata, si riallacciano all’intenso movimento di pietà, che, nel secolo VIII, si sviluppò fra il popolo longobardo, in una misura mai più superata. Le prime donazioni fatte, in Capitanata, a Montecassino, le troviamo a Lesina, sin dall’anno 788 (Leccisotti).
Pertanto, di là dall’assillo nella ricerca di una data imprecisabile, è da ritenere che i benedettini sono qui presenti tra il secolo VIII e IX. È però certo che essi elevarono il primo piano col chiostro trasformando l’originario ospizio nel più severo e maestoso edificio dell’abbazia dal nome di San Giovanni de Lama. Anche perché alle soglie del Mille (precisamente nel 1007 con l’Abate Alessandro) l’abbazia era già assurta al massimo splendore, quale centro di vita religiosa e culturale e quale potentato feudale; presupponendo, per altro, che tale rigoglio non può essere sorto d’incanto.
La sua decadenza ha inizio con l’affermazione preminente dei normanni. Questi neglessero i privilegi elargiti dal conte Enrico che si avvaleva, in un periodo storico confuso, di una poi contestata sovranità in Capitanata e sul Gargano; inoltre il Gargano, feudo anomalo e speciale, ossia l’ Honor montis Sancti Angeli, nel 1177 divenne, con tutti i suoi privilegi, dotalizio delle regine normanne, sveve e angioine a partire dalle nozze di Giovanna d’Inghilterra, figlia di Enrico II Plantageneto, con Guglielmo II il Buono. Ai contributi di ‘onore’ a cui tutte le abbazie garganiche furono così sottoposte, si aggiunsero poi le delimitazioni imposte dal re svevo Federico II e le varie autonomie rivendicate dai comuni garganici. Così i benedettini, spogliati nella massima parte di privilegi e possedimenti, agli inizi del secolo XIV ebbero un’influenza molto affievolita e una presenza variamente contrastata.
L’esistenza di documenti, tra cui due Brevi pontifici, consentono di meglio delimitare il periodo che va dal 1311 al 1578. Esso è genericamente e impropriamente detto periodo cistercense, per l’aggregazione avvenuta nel 1311 dell’abbazia di San Giovanni in Lamis (questa ora la sua nuova denominazione) a quella cistercense di Santa Maria di Casanova nella diocesi di Penne in Abruzzo.
Periodo di transizione agitato da forti contrasti e interessi. La presenza cistercense, impostasi con discussa legalità e deplorata violenza, non escluse di colpo, anche se assottigliata, la famiglia benedettina. Come si legge nei documenti del tempo, per l’inevitabile conseguenza di una lite sorta tra benedettini neri (cassinesi) e bianchi (cistercensi), il monastero nel 1320 era ancora ‘fiorente nello spirituale e ricco nel materiale’; sia pure con i ridotti diritti di vassallaggio sui casali di S. Giovanni Rotondo, di San Marco in Lamis e di Faziolo.
La cattività avignonese dei papi, assenti o mal rappresentati negli affari e nelle cose in loco, male informati per situazioni artatamente deformate che giungevano alla Curia centrale; gli inseriti interessi della stessa Curia; sequestri di beni per ordini papali; posteriori usurpazioni e dilapidazioni resero tale periodo tristamente infelice. Per tali motivi la decadenza dell’abbazia ha, si può dire, una data ufficiale nel 1327 quando il papa Giovanni XXII affidava, in commenda, all’arcivescovo Matteo di Siponto tutti i beni della badia di San Giovanni in Lamis. Cominciava così il triste periodo degli Abati Commendatari, sempre più assenti e sempre più esigenti nei riguardi dei monaci e dei vassalli.
Ma già nel secolo XVI, ancor prima del 1578, nelle due valli, a Stignano e a San Matteo, è presente la discreta operosità francescana.
L’insediamento dei Frati Minori Osservanti e il nuovo cambio della denominazione, da San Giovanni in Lamis a Convento di San Matteo, precedono di fatto il riconoscimento ufficiale sancito col Breve del papa Gregorio XIII del 1578. Con esso, infatti, si rileva esplicitamente quanto era stato ormai concordato, o in corso di attuazione, tra l’Abate Commendatario perpetuo, il cavaliere di Malta Vincenzo Carafa, e il Ministero della provincia monastica di San Michele in Puglia, P. Luigi da Nola.
Pertanto, oltre a dover ritenere inesistente la presenza dei cistercensi a Stignano, essa, a parte la pura nominatività dovuta alla presunta o inesatta qualifica di 'cistercense' del Carafa, ci appare assai fragile, o inconsistente, nell’antica abbazia. Circa i due Santuari, c’è da tener presente la prodigiosa attività del frate Ludovico da Corneto che precede a Stignano l’insediamento ufficiale dei Minori (1560). Inoltre, nel suo Viaggi in Abruzzo, dell’autunno 1576, il domenicano S. Razzi annota che all’epoca della sua visita a Stignano la divozione, cioè il culto, da sessanta anni fu data ai padri Zoccolanti. A conferma che prima della data del Breve il nuovo nome del monastero è già diffuso nella comune parlata del tempo, ancora il Razzi così esplicitamente annota: Salendo per la valle trovammo…S. Marcuccio (ora San Marco in Lamis) e più in alto a un miglio S. Matteo.
La benemerita opera di ricostruzione francescana con il conseguente periodo di prosperità durò ininterrottamente per circa tre secoli con il crescendo incremento del culto, degli studi e della pratica, e fruttuosa, attività materiale.
Nell’Ottocento essa fu tormentosamente contrastata, legata inevitabilmente ai contraccolpi storici. Il monastero pur risparmiato nel periodo napoleonico non sfuggì a dure avversioni, alle seguenti non meno dure limitazioni borboniche e alle leggi repressive con l’Unità Italiana. Non di meno il tessuto del racconto storico, reso più consistente e documentabile, pone in drammatica evidenza l’ammirabile capacità di resistenza e di ripresa dei Frati Minori. Un dato significativo del popoloso monastero: Quarantanove Francescani, entro il 31 dicembre 1866, furono sfrattati, sotto i vigili occhi delle Guardie Nazionali, dal convento di San Matteo.
Tuttavia la tenace devozione del popolo, la sagacia dei dirigenti locali, la comprensione delle autorità civili e il tatto dei Francescani consentirono via via di contemperare, e talora anche di eludere, i vincoli della legge fino a rendere possibile una effettiva ripresa tra le due guerre mondiali e rientrare nel pieno possesso del Convento nel 19 giugno 1940. Tale opera di rinascita, iniziata negli anni Trenta, è tuttora in corso col definitivo riassetto dell’intero edificio, con la costituzione di una voluminosa biblioteca ricca di opere pregevoli, di collezioni rare e di documenti di vario interesse, e, soprattutto, con un sempre più esteso fervore di culto e presenza di popolo, di turisti, di studiosi e di quanti, chiedendo e ottenendo facile ospitalità, desiderano trascorrere ore o giorni di serena e salutare spiritualità.
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