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In questa valle (lo Starale: alato nome squillante), campeggiata dal sacro luogo, il culto della pietà è scandito dal ritmo delle stagioni. Ha un doppio volto, svelato in due tempi: quello autunnale e invernale, da ottobre a marzo, e l’altro da aprile a settembre. Si può dire che il secondo è circoscritto, come in parentesi, dalle due apparizioni, di maggio e di settembre, dell’angelo Michele.
Destino bifronte: già questa valle fu cara al dio Giano. L’infanzia esploratrice e le tremule libellule cercano ancora sotto il bosco a pié del monte, umide persistenti tracce di una fonte esausta. Sorgeva là quel torrente che, rigando il borgo e la seguente valle di Stignano fino alla gran porta occidentale del Gargano, tuttora ricorda nella varia toponomastica il nome del dio dal duplice volto.
Nella buona stagione, con voci voti voli il Santuario invoca una pietà corale. Ora rumorosa, ora armoniosa, per canti di varia natura, collettiva è la pietà che invade e percorre la valle dalla primavera al primo autunno, dopo la sagra dell’Apostolo e il transito di San Francesco. Salgono alla Rocca litanianti corteggi di pellegrini, comitive di turisti motorizzati, gitanti in festa e brigate di artigiani e di paesani lunedianti tra i casolari sparsi su colli solatii: armonia di fede e di fiducia nella vita; beatitudine distratta dagli assilli d’ogni giorno, di baraccanti tra fumi di arrosti e vortici di birra.
Ma quando, spenta la febbre dell’estate e scomparse le mosche turistiche, il vento d’autunno, dirompendo dal monte e dalle gole, abbrividisce di ruggine bosco erbe zolle nel freddo incendio di un immoto tramonto, allora il sacro luogo entra in una dimensione più sua, in un elemento più proprio, in un’esistenza più verace. Quando di settembre tutta l’aria imbruna e l’armoniosa ellisse di questa conca valliva si colma e carica d’ombre e di memorie, contenute in basso dalla protervia di Monte di Mezzo e in alto dal limpido volume del Celano, emergendo su nebbie e su lame, allora di pure che San Matteo splende di luce propria e riprende il suo tranquillo viaggio nel tempo.
Il culto della pietà ha una tempera più fine: esaltata dalia solitudine, è melodiosamente più casta. Si prega e s’impara a pregare da soli. Nel tempio disabitato, dall’alba a vespero e a compieta, è solitario anche il coro dei frati officianti: s’incide nitidamente su un immenso e petroso fondale di solitudine.
Pia, l’onda canora erra nei corridoi deserti, indugia tra la defunta riconoscenza degli ex voto, si estenua tra le ragnatele di ampi ànditi abbandonati, una volta sonori di opere e di memorie, un’impalpabile polvere di vita, caduta in un tempo scandito in strofe millenarie.
Vedeste mai la vita solitaria di un raggio di sole nel silenzio di un èremo sepolto dalla neve? Se verso sera, il sole fa puntualmente capolino da un’angusta finestra di fondo, e s’infila, spada che fende la tenebra dell’interminabile corridoio, l’incanto mistico esulta. Nel quasi tangi­bile raggio pulviscolare scorgi danzare innumerevoli punti luminosi, non sai se di stremata materia o di spiriti che furono. Remoto, conduce la tacita danza il suono di un organo con note stupite da mano furtiva e discreta. Un’igienica solitudine da salute e libertà, fa marea, ebbra sale alle stelle. Fugato ogni miraggio, si contempla con liberazione il nulla del tutto che ci attrae. Si scopre, ora, che ben altro è sulla terra, che solo qui la pace ha trovato un estremo rifugio. Il tumulto delle memorie non ti turba, anzi ti assicura una immota e tranquilla eternità. E il tempo è specchio che riflette la tua memoria di ogni ora terrena. Scende tanta felicità nel cuore che ti sembra di essere il vertice cosciente di questo luogo e di ogni tempo.
Fuori, se la neve non candisce il gelido paesaggio, un freddo azzurro si può scalfire come roccia col martello. Giù, tra gli scheletri e le stecchite rame del sottostante popolo vegetale, più non s’ode il soffio della strige e lo sghigno d’altri uccelli rapaci. La chiostra delle colline si erge ad ascoltare il canto che sorge dal chiostro desolato. Paterno il Celano, con l’evidente sua curva meridiana, si china ad ascoltare la deserta preghiera.
Sotto la cenere dell’inverno, arde perenne il fuoco di una fede e accende ogni candela all’estatica gioia dei santi sugli altari.
Fuori i marosi dei secoli si infrangono su questo scoglio sacro. A questa granitica Finisterre, attendi che ti giunga dal mare tempestoso della storia umana la bottiglia con un messaggio dall’aldilà.
È la certezza che sorge da questa Acropoli della fede di una metafisica celeste: un alfabeto teologico inteso anche dall’umile gente. Così a maggio, quando la valle si veste di luce e d’allegria, anche il popolo comprende che qui c’è una grazia per tutti, una parola di pace e di vita.