L'unico concreto cambiamento riguardò le sepolture: il colera affrettò notevolmente la nascita del camposanto.
Nel 1836, non appena scoppiò il colera a Rodi, l'Intendente inviò ai sindaci un'ordinanza con cui si davano tassative disposizioni sulle sepolture: ‘Il seppellimento di ogni persona morta verrà indistintamente fatto ne' campisanti, ed ove manca tale stabilimento nei sepolcri delle chiese suburbane. Simile misura comprènderà anche coloro, che anno in città tombe gentilizie’ (Nota 67).
In S. Marco, dove fino ad allora il seppellimento dei defunti aveva avuto luogo nelle chiese cittadine e nel piccolo cimitero attiguo alla Chiesa della Madonna delle Grazie, la situazione era questa: non esisteva ancora il camposanto, ma c'erano, nel luogo dove esso poi sarebbe sorto, tre cappelle fondate dalle Confraternite del SS. Sacramento, di S. Maria del Carmine e del Trionfo del Purgatorio (Nota 68); per cui, quando giunse l'ordinanza dell'Intendente, la Commissione sanitaria pensò bene di utilizzare per la sepoltura dei cadaveri proprio quelle cappelle.
Marco in Lamis 3 Agosto 1837
‘Signor Intendente. Le sue sagge vedute uniformi sempre alle reali disposizioni han l'unica mira di allontanare nella presente circostanza, piucché mai ogni pur anco sospettoso miasma dagli abitati. Ora, chi il crederebbe? Una Chiesa nel centro di questo Comune, in mezzo della pubblica piazza, qual'è la mia Parocchiale si è convertita in Cimitero, talmente, che nell'atrio esce sensibilmente il fetore, e son ridotto per questo a respirarne l'infezione più nella necessità della notte, che del giorno, aprendosi allo spesso le due sepolture, che vi sono, per tumularvici i cadaveri di quasi tutta questa numerosa popolazione. Mi sono più volte querelato con questo Signor Sindaco che vanta comunale la detta Chiesa; senza mai però volersi ingerire di biancarla, e ristaurarla in qualche modo, come è assai necessario, ma le mie giuste querele indarno han battute le orecchie del vangelieo sordo. Il Camposanto è già aperto, pare dunque espediente, che i cadaveri siano indistintamente ivi tumulati, senza riguardo dei colerici, o non colerici, acciò sia eguale la pubblica persuasione, e rendasi puro al possibile il respirabile a tutti. Lo rassegno all'E.V. per le analoghe disposizioni. Il Parroco di S. Antonio Abate - Luigi Nardella’ (Nota 72).
Dopo questa protesta, non ci fu più posto per le tergiversazioni: la Commissione sanitaria dovette prendere tutte le misure necessarie per dare finalmente inizio alla costruzione del camposanto. Si provvide, così, all'assunzione di alcuni becchini e di un buon numero di operai per lo scavo delle fosse, all'installazione di un cancello di ferro per delimitare il camposanto e, mancando la cappella, all'erezione di una croce di ferro, debitamente benedetta, sopra un pilastro di pietre lavorate (Nota 73).
Per dovere d'informazione, si aggiunge che le fosse dovevano avere una profondità minima di otto palmi (= cm. 209,2), che le bare nelle fosse dovevano essere ricoperte prima di uno strato di calce viva e poi di terra, e che i morti non potevano essere seppelliti prima della scadenza di 12 ore dalla morte. Nasceva così, ad opera del colera, il camposanto di S. Marco in Lamis (Nota 74).
Col passar del tempo appresero tutti a non considerarlo più un ‘luogo di disonore’ e a comprenderne l'importanza dal punto di vista igienico; tuttavia, non poteva mai essere che il colera passasse senza far registrare altri casi di violazione della legge. Quello più clamoroso fu il caso del canonico D. Aristide Vincitorio, morto di colera il 26 agosto 1837. Con il pretesto dello svolgimento di solenni cerimonie funebri in suo onore, il suo corpo venne portato di notte nella Chiesa Madre, e lì, l'indomani, alla chetichella, venne seppellito nella tomba comune dei sacerdoti. Le proteste furono vivacissime, ma Don Aristide rimase al suo posto (Nota 75). L'Intendente, da parte sua, fece sapere che non aveva il potere di disporne l'esumazione.
E ora, prima di far scendere un giusto e pietoso velo su questo terribile dramma vissuto dalla città di S. Marco in Lamis nel 1837, riteniamo opportuno fare qualche ultima considerazione. È stato già detto che il governo napoletano cercò di non farsi cogliere alla sprovvista dal morbo asiatico; tuttavia, un fatto era discutere del colera e un altro trovarselo poi di fronte. L'immane e spaventosa atrocità della malattia mise decisamente a nudo l'impotenza di tutte le teorie e scompigliò i vari piani di difesa concepiti dalle Commissioni sanitarie. Notevole fu il disorientamento causato non solo nei profani ma anche nella classe medica, divisasi presto in tante «scuole» in aspra polemica tra di loro.
Tra i medici, ovviamente, ci fu chi con molta umiltà ammise l'impotenza della medicina del tempo (e in effetti non si può dimenticare che il vibrione del colera venne identificato dal Koch quasi mezzo secolo più tardi), ma ci fu anche chi con una certa boria ritenne d'essere riuscito a individuare la vera natura del morbo e di possedere pertanto la giusta panacea per esso. Ebbene, quel che si vuoi far notare è che nel comportamento dei medici sammarchesi non si scorge la minima traccia di tale presunzione. Essi, non ritenendo affatto di essere in possesso della formula magica per debellare il colera, cercarono semplicemente di non risparmiare, dalla mattina alla sera, energia alcuna per portare comunque soccorso ai colerosi offrendo loro qualche parola di sollievo e qualche farmaco che servisse almeno ad alleviare dolori e sofferenze.
Più ingrato era senz'altro il compito affidato alla Commissione sanitaria, e se esso fu così infruttuoso non fu certamente a causa di un insufficiente impegno o di uno scarso senso di civica responsabilità. Può darsi benissimo che, agendo con maggiore avvedutezza, essa avrebbe anche potuto organizzare, in collaborazione con gli stessi cittadini, una più efficace azione di soccorso per limitare maggiormente i danni; questo però non deve far dimenticare che, trattandosi della prima epidemia colerica, essa dovette fronteggiarla con notevole impreparazione e senza poter far tesoro di analoghe esperienze del passato. Infatti, che in tali drammatiche circostanze l'esperienza abbia il suo peso è apparso evidente nel 1886, in occasione della terza epidemia colerica, allorché un gruppo di benemeriti cittadini, organizzando delle squadre di volontari per portare soccorso ai colerosi, riuscì a far registrare perdite umane notevolmente inferiori e ad ottenere dal Ministro Crispi una medaglia d'oro.
Per quanto riguarda la popolazione, infine, ci sembra di poter affermare che essa, a parte alcune comprensibilissime manifestazioni di protesta, andò incontro a quest'altro dramma con cristiana rassegnazione; abbiamo la sensazione anzi, che essa, più che l'idea della morte, non tollerò quella di venire sepolta nelle fosse del camposanto.
Sarebbe stato interessante far terminare questo lavoro con un bilancio dei danni, materiali e morali, arrecati dal colera, ma l'impresa, dato anche il notevole silenzio delle fonti, è abbastanza ardua. Tuttavia, almeno a proposito delle perdite demografiche, pensiamo di fare questa breve nota. Non sappiamo se se ne può trarre qualche motivo di consolazione, ma in merito ad esse la città di S. Marco in Lamis non ha da lamentare alcun primato né su scala nazionale né su scala provinciale. Il suo indice di mortalità, infatti, pari al 28,9 per mille, venne largamente superato, su scala nazionale, in città come Palermo (che ebbe il 135 per mille), Brescia (57 per mille), Udine (54 per mille). Napoli (39 per mille, nel 1837), Como (36 per mille) e Bergamo (32 per mille) (Nota 76).
Su scala provinciale, non conoscendosi gli indici di mortalità degli altri Comuni, non è possibile fare un confronto con essi; ad ogni modo, fatti i debiti rapporti con i rispettivi numeri di popolazione, ci pare di poter asserire che esso dovette essere più elevato in Comuni come Vieste (dove si ebbero 1.011 decessi), S. Bartolomeo (459), Roseto Valfortore (325), Castelnuovo della Daunia (397), Candela (377), Biccari (341), o anche Lucera (523) (Nota 77).
Comunque, gravi o no che possano considerarsi le perdite demografiche subite dalla città di S. Marco in Lamis, è certo però che esse furono assai presto recuperate.