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Come eravamo di Michele Ceddia

Se si racconta ai giovani di come erano i Sammarchesi di settanta, ottanta anni fa, della durezza della vita e delle infinite difficoltà per farvi fronte, si rischia di non essere creduti oppure di non essere neanche ascoltati.
Probabilmente non si rendono conto di quanti sacrifici sono stati fatti per preparare il benessere che hanno trovato venendo al mondo.
Non ci credono perché forse è troppo grande la differenza e non c'è nessuna possibilità di paragone: neanche lontanamente si può fare un raffronto tra le due realtà, quella passata e quella attuale.
Tutto è cambiato, persino l'aspetto fisico delle persone.
Questa affermazione non è una nostra impressione. E' un dato di fatto scientificamente provato: basta osservare gli anziani superiori ai sessanta anni, la cui statura media si aggira sul metro e sessanta, mentre quella dei giovani attuali in media non è inferiore al metro e settanta e ciò non si riferisce ai soli uomini, ma anche alle donne.
Lo sviluppo di cui stiamo trattando sarà dovuto, certamente, al benessere generale del Paese e all'alimentazione abbondante e selezionata secondo quelli che sono i "crismi" della vita moderna. Un'altra causa della differenza è da ricercare nel controllo delle nascite che le giovani coppie praticano: oggi è quasi impossibile trovare famiglie numerose con sei, sette, otto figli così come avveniva nel lon­tano passato. I giovani oggi sono scolarizzati e sono venuti a conoscenza del come avere e non avere i figli. Ora non si dice più:

Li figghie ce l'ha mannate Gese Criste (I figli li ha mandati Gesù Cristo).

Tutto è cambiato a Sammarco a cominciare dall'ambiente in cui si vive. Basti pensare alle strade fangose e pietrose e alle abitazioni dove i cittadini vivevano. Prima una famiglia numerosa abitava in una casa di pochi metri quadrati senza acqua né fognapalude.jpg. Oggi molte di quelle casupole sono vuote perché la gente è andata ad abitare in comodi appartamenti costruiti nelle periferie del paese: appartamenti con più camere, forniti di servizi igienici e degni di una società moderna al passo con i tempi.
Prima, la casa di abitazione era piccola, di pochi metri quadrati. In quel poco spazio iniziava la vita dei giovani sposi; ma, col tempo, con lo scorrere degli anni, la famiglia diventava di tre, quattro, cinque e, molte volte, anche dieci persone. Lo spazio era sempre lo stesso e le difficoltà aumentavano di pari passo con l'aumento della famiglia. Nella casa non c'era l'acqua e al rifornimento di questo bene essenziale doveva pensarci la donna: la donna doveva andare ai pozzi che stavano in Piazza Oberdanrione_pozzo_1911.jpg  (dietro la Chiesa Madre) a prendere l'acqua da bere e per fare da mangiarefontana-acqua.jpg, mentre l'acqua per lavare la biancheria la prendeva nella cisterna, se l'aveva; altrimenti la doveva chiedere per favore o pagarla a qualche vicina di casa. La donna in casa doveva pensare a tutto: lavare la biancheria per tutti i componenti della famiglia, fare da mangiare, andare a vuotare la mattina presto il vaso da notte dove tutti quelli della famiglia facevano i loro bisogni. La donna, ancora la donna, doveva pensare a fare il pane (trumpà) e fare quattro, cinque, sei parrozze (pani di diversi chilogrammi) per tutto il nucleo familiare.

San Marco in Lamis: il Convento di San Matteo e la Cappella dei SS. Medici in una cartolina del 1967.
San Marco in Lamis: il Convento di San Matteo e la Cappella dei SS. Medici in una cartolina del 1967.
La casa, nel corso dell'esistenza, non era sempre la stessa. Dopo diversi anni, per motivi vari, si cambiava e così da un rione si passava ad un altro, magari vicino ad altri parenti. La famiglia, in quelle case, cresceva e viveva nella più totale promiscuità.
Il lavoro non tutti lo trovavano in paese, o nei pressi. Ad esempio i braccianti agricolibraccianti-agricoli.jpg, che nei decenni passati costituivano una categoria di lavoratori molto estesa, svolgevano la loro attività prevalentemente in zone lontane da Sammarco come San Severo, Rignano, San Giovanni, Apricena, Foggia. Questo per quanto riguarda la pianura. Per la montagna, invece, si sconfinava nei territori di San Giovanni Rotondo, di Sannicandro Garganico, di Cagnano e così via.
La stessa cosa va detta per gli agricoltoriagricoltori-01.jpg e per lavoratori di altri settori che erano, e lo sono ancora, costretti a svolgere la loro attività in comuni viciniori. I cavapietre, i muratorib_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_Muratori-01.jpg ed altriVendemmiatrici.jpg, trovando lavoro altrove, non si tiravano indietro, così come avviene tuttora. Questo nostro paese è fatto così e non si può fare diversamente. Soltanto gli artigianib_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_cacachiazze.jpg rimanevano sempre in paese e non si allontanavano mai.
La società degli anni Venti, Trenta e oltre era una società alquanto arretrata. L'istruzione, nella maggior parte dei cittadini, non andava oltre la quinta elementare. Pochi ragazzi frequentavano le prime scuole medie, ma una larga fascia di ragazzi si fermava alle primissime elementari per andare a lavorare... appresso alle bestie.
Nelle strade, le famiglie si rispettavano e tutti sapevano tutto di tutti, anche di faccende intime. E tuttavia se c'era da tenere un segreto se lo tenevano per sé senza divulgarlo. Con questo non si vuoi dire che di "criticone" non ce ne fossero, anzi.
Detto questo, non c'è nessuna intenzione di voler far credere che nel paese fossero solo rose e fiori. Anzi. Per esempio tra artigiani (artiste) e contadinib_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_contadini-01.jpg (cozze) c'era un astio tremendo pur se immotivato. Gli artigianib_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_artigiani.jpg si sentivano superiori ai contadini e come tali li trattavano. Questi, che stupidi non erano, ne risentivano e alla minima occasione si scontravano ed erano botte da orbi.
S. Marco in Lamis: il campanile della vecchia chiesa di san Berardino.
S. Marco in Lamis: il campanile della vecchia chiesa di san Berardino.
Per il contadino e i lavoratori della terra e della campagna in generaleLavori-per-fogna.jpg la vita era più dura e faticosa, soprattutto scarsamente retribuita. Forse questo era uno dei motivi principali che muoveva l'odio reciproco.
Artigiani, impiegati e professionisti, nelle ore di riposo e durante le feste, se volevano fare una passeggiata, la facevano in Corso Umberto Ib_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_corso-matteotti.jpg (attuale Corso Matteotti), mentre per contadini, pastori ed altri gli incontri avvenivano in Corso Giannoneb_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_corso-giannone.jpg, limitatamente alla parte alta tra Via Stilla e la vecchia chiesa di San Bernardino. Il sabato sera e la domenica era un via vai di giovanotti male in arnese e pronti alla rissa con avversari o presunti tali. Molto spesso si metteva mano alle armi, specie al coltello. Qualche volta finiva con il morto. Mai un artigiano si permetteva di fare una passeggiata in quella zona, mentre contadini e pastori scorrazzavano per la chiazza de sotto (il corso di sotto, Corso Umberto I) solo nelle ore piccole, dopo la mezzanotte. Li cozze si avvedevano della differenza che c'era tra loro e i cacachiazza (appellativo molto eloquente che non ha bisogno di traduzione) i quali portavano, oltre la cravatta, il fazzolettino nel taschino della giacca, scarpine (scarpe basse) e, se d'estate, non portavano copricapo, cosa questa che non ancora attecchiva tra i lavoratori della campagna. Di pastori, nel passato, ce n'erano molti e tornavano al paese ogni tre settimane o anche dopo un mese. Succedeva che, arrivando in paese prima di sera, si vergognavano di incontrare gente, persino i parenti più stretti. Perciò soltanto la sera tardi a lu larie de Sante Vastiane (largo San Sebastiano) si sfogavano con gli amici, che erano tanti della medesima condizione.
I loro vestitib_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_abbigliamento.jpg erano pesanti e rozzi, essenzialmente di velluto senza alcun pregio e di fattura scarsamente descrivibile. La camicia senza colletto e di stoffa pesante con l'apertura fino allo stomaco. Le scarpe grosse, che si adattavano al passo lungo e cadenzato dell'uomo di campagna. D'inverno indossavano lu cappotte, da non confondere con quello attuale. Era una cappa larga e lunga fino al polpaccio della gamba, di una stoffa pesante. Era questo l'abbigliamento del campagnolo sammarchese b_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_abbigliamento_02.jpg. La testa, poi, era sempre coperta dal cappello o dalla coppola nuova, diversa da quella, eterna, che si indossava in campagna. Quando ad uno di questi moriva un parente stretto, sul braccio della giacca ci metteva una fascia nera e un pezzo di stoffa dello stesso colore sul petto che copriva la camicia, mentre la barba non veniva rasa per molte settimane. E se no che lutto era.
Anche le donne portavano il lutto, anzi erano loro che lo portavano maggiormente. Tanto è vero che una donna, arrivata oltre i trent'anni, portava quasi sempre il vestito nero, perché a quell'età cominciavano a morire o il padre o la madre, gli zii e parenti vari e, poverina, doveva portare persino lu maccature 'ncape (fazzoletto in testamaccature.jpg) anch'esso nero.
Abbiamo parlato dell'abbigliamento dell'uomo di campagna, ma lo stesso era per quello di paese con certe piccole sfumature, come dicevamo prima: la cravatta, il fazzolettino nel taschino della giacca, le scarpe lucide e qualche altro particolare.
E la donna come si vestiva?abito_tradizionale.jpg Le donne indossavano, di solito, una giacchettina, una specie di camicetta sopra la tunacedda, una gonna molto ampia pieghettata, lunga fino ai piedi. Sotto la tunacedda bella, ne indossava un'altra che non partiva dalla vita come la prima, ma era attaccata alla petteracorpetto.jpg, che era una specie di gilet senza maniche e sotto tutto quell'armamentario non mancava la camicia, lunga anch'essa, come gli altri indumenti.
Il campo sportivo si trovava nella attuale 'Piazza Europa'.
Il campo sportivo si trovava nella attuale 'Piazza Europa'.
D'inverno portavano le mutandecavezunette.jpg, ma che mutande! Le chiamavano lu cavezone, una specie di tuta con l'apertura dal petto che andava giù giù fin sotto l'inguine e poi si girava su fino ai reni. Lu cavezone era lungo fin sotto le ginocchia. Per cui le donne di allora apparentemente portavano le mutande molte lunghe, ma, in effetti, dove più occorreva coprirsi erano totalmente scoperte e bastava che si sedessero un po' troppo commede (comode) e alzassero la tunacedda, che si scopriva tutto ciò che si voleva nascondere. Sopra di tutto, in bella vista, c'era lu zenale (un grembiule di tessuto leggero in sintonia con la tinta della gonna). In testa, quando uscivano per la visita alla cummara (comare) o per altro, portavano lu faccelettone (uno scialle) oppure lu mantature, una mantiglia che scendeva dalle spalle sulle braccia. Le calze sempre fatte a mano, lunghe fino alle ginocchia, erano legate con una cordicella (dopo venne l'elastico). Quelle buone donne quando passavano davanti ad un gruppo di uomini, con in mano un pezzo della mantiglia, si coprivano pudicamente la bocca. Questa vecchia usanza è stata tramandata da lontanissime generazioni le quali ritenevano ci fosse analogia tra la bocca e il proprio sesso. Le donne musulmane usano ancora il ciador per coprire la bocca. Erano quelli gli ultimi sussulti di ataviche usanze che si tramandavano di generazione in generazione arrivate fino a noi per scomparire per sempre.
Fino ai primi anni Quaranta, cioè all'entrata in guerra, in Sammarco non tutti i rioni erano forniti di fontanelle con acqua potabile. Quanto alla rete fognante bisognerà aspettare ancora molti anni, prima di poter vedere servite le prime strade e le relative abitazioni. Per completare questo servizio di grande valore sociale e civile si è dovuto attendere sino ai primi anni Ottanta.
S. Marco in Lamis. La attuale 'villetta'.
S. Marco in Lamis. La attuale 'villetta'.
I giovani, arrivati ad una certa età, diciamo ai diciotto anni, cominciavano a cercarsi la ragazza con il proposito di sposarsi al ritorno dal servizio militaremilitare.jpg. Se la ragazza e la famiglia erano consenzienti non c'erano problemi: dovevano soltanto mettersi d'accordo i genitori di entrambi i giovani. I guai sorgevano quando l'amore del gio­vane non era corrisposto dalla ragazza. Il giovane s'infuriava e non digeriva l'affronto, cominciava a tramare con gli amici per feccarece a forza (vale a dire entrare di prepotenza nella casa della ragazza e cercare di chiudersi dentro con la sua amata). A volte la cosa riusciva e non c'era altro da fare che acconsentire e fare in modo di concludere con il matrimonio riparatore. Altre volte, invece, il più delle volte, non riusciva e il giovane rimaneva scornato e perdeva persino la dignità. Il matrimonio riparatoreabito_sposa.jpg si svolgeva la mattina molto presto nella chiesa e la festa si faceva nella casa dello sposo. Ovviamente gli invitati non erano centinaia, ma si riducevano a pochi parenti stretti e a qualche amico o compare. Tutto qui.
Quando i due giovani ricevevano il benestare della famiglia, gli era permesso di "fare l'amore" a distanza: lei alla finestra e lui a passeggiare su e giù nella strada, sotto la finestra. Solo in procinto della data delle nozze ce accredentavane (fidanzavano ufficialmente): con una piccola festa in famiglia, il giovane, accompagnato da genitori e parenti, entrava ufficialmente nella casa della sua ragazza, ricevuto dai familiari vestiti a festa.
Quando una ragazza, nella sua ignoranza e ingenuità, veniva messa incinta e non sposata dal suo seduttore, tutte le colpe si riversavano su di lei che doveva pagare salatissimo la sua leggerezza. Ma il danno maggiore, per quell'epoca, ricadeva sulle spalle dei genitori e dell'intera famiglia. Tutta la famiglia ne era disonorata. Cadeva in un baratro profondo e non c'era nessun mezzo per tirarla fuori, se non il matrimonio. Molte volte la ragazza veniva scacciata da casa e, poi, senza alcun aiuto, poco alla volta, andava a incrementare l'esercito delle lucciole sui marciapiedi delle grandi città. Altre volte si risolveva la faccenda lavando l'onore perduto con il sangue.
Gli uomini di questo nostro paese hanno sempre sofferto la tragedia della disoccupazione. In tutti i continenti sono arrivati i sammarchesi in cerca di lavorob_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_emigrazione.jpg, animati da grandi speranze e mille illusioni. Alla fine se ne sono tornati delusi e poveri, così come erano partiti. Per questo la vita a Sammarco è stata sempre grama.
Il vitto quotidiano dei sammarchesi è conosciuto in quasi tutti i paesi della provincia: lu panecotteb_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_panecotto.jpg (pane cotto) a base di patate, verdura e pane, quando c'era. L'olio sempre poco, altrimenti ti faceva crepare: così si diceva e c'era chi ci credeva. Si consumavano molti legumi: fagioli, ceci, lenticchie, cicerchie, fave e quant'altro riempiva lo stomaco. Di pasta se ne consumava poca, in campagna mai. In campagna, d'autunno, si mangiavano molto spesso castagne cotte e patanedde sane (patate piccole, cotte senza togliere la buccia e mangiate senza pane). In paese, tra gli artigiani e i professionisti, si consumava più pastab_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_orecchiette.jpg, specialmente spaghetti. Con questo non si vuole dire che gli artigiani stessero meglio. No, decisamente no. Anche loro soffrivano la disoccupazione e le ristrettezze, perché poveri e bisognosi come gli altrib_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_artigiano.jpg. E tutti insieme avevano lo stesso problema: la famiglia numerosa. E per sfamare quelle bocche ce ne voleva!
I bambini di quelle famiglie vestivano male: niente cappottini o scarpette intere e idonee ai rigori della stagione freddabambini.jpg. Come vesti­vano d'estate vestivano d'inverno, al massimo calzavano scarpe vec­chie che facevano soltanto figura, perché l'acqua gelata entrava e usciva senza alcun ostacolo. Il nasino era sempre occupato dal muco, essendo i fazzoletti prerogativa dei grandi, e mica di tutti i grandi, perché molti di questi avevano l'abitudine di soffiarsi e con le dita buttare il muco per terra: non ci faceva caso nessuno perché lo facevano in molti.
Artigiani e bambini scalzi.
Artigiani e bambini scalzi.
D'estate, per i bambini, la vita era più facile: si andava a piedi nudi e non si badava se la camicetta o maglietta fosse intera o rotta: bastava fosse pulita (quanto alla pulizia le donne di Sammarco, anche nella povertà  più nera, erano straordinariamente brave, erano veramente gli angeli del focolare).
Spesso i bambini andavano a saziarsi di ciliege, fichi, mele, uva ed altri frutti nelle vigne che circondavano il paese. Per i poveri giardinieri e guardiani, nonostante fossero sempre all'erta, con quei ragazzacci non c'era niente da fare.
Gli anziani vivevano quasi tutti in campagna e molti di loro vi morivano; quando ciò avveniva li portavano in paese su di una bestia, di traverso sul basto. Quei pochi che stavano in paese, ogni sabato giravano da un palazzo all'altro, dove offrivano loro nu solete (cinque centesimi) a testa. A tempo perso se ne stavano appoggiati a lu mure li Grazie b_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_chiesa_grazie.jpg, cioè dietro la chiesa delle Grazie. Erano vestiti male, male sbarbati e scarsamente puliti. Nessuno si occupava di loro. I figli stessi erano poveri e bisognosi. Molto spesso si sentiva che un padre aveva fatto chiamare il figlio dal pretore allo scopo di farsi aiutare economicamente, ma la cosa finiva sempre alla stessa maniera: nulla a procedere essendo il figlio non in grado di mantenerlo... Così nessuno si occupava del povero vecchio, quando, dopo aver speso tutta una vita a lavorare per gli altri, era diventato debole e incapace di mantenere se stesso: le organizzazioni fasciste, con le fanfaronate, dicevano di assistere i bisognosi, ma, nella realtà, non facevano niente di niente e se c'era qualcosa se la pappavano loro. Quanto ai preti, al massimo potevano dare ai vecchi lavoratori l'estrema unzione e poi basta. Neppure tanti religiosi amavano stare molto con i poveri.
Le stesse donne anziane, che nella vita di miseria avevano servito in case di famiglie ricche, quando avevano perduto le forze e non riuscivano più a fare quel che facevano da giovani, venivano allontanate dal palazzo senza una liquidazione e senza alcun diritto. "Vai a morire in pace a casa tua".
Pancotto con verdura e fave.
Pancotto con verdura e fave.
A quei tempi si faceva da mangiare nel caminocallara.jpg. La legna la forniva la Defenza, il bosco demaniale chiamato Difesa San Matteo. Gli uomini senza lavoro, e persino i bambini, andavano nel bosco, con una funicella e un'accetta di piccole dimensioni, a tagliare rami dagli alberi. Ognuno si faceva lu fasce di legna e frasche a seconda delle sue forze. Ma per portare il fascio più comodo sulle spalle c'era bisogno di un supporto, il cosiddetto 'mpurcatempurcate.jpg, un ramo lun­go e diritto, spogliato dalle foglie e appuntito da una parte per facilitare l'attraversamento del fascio stesso, da parte a parte, per arrivare sino al punto dove era stato lasciato un pezzo di rametto di almeno dieci centimetri, tale da formare una specie di forcella su cui poggiare il fascio quando il portatore si riposava, piantando lu 'mpurcate per terra.
Nel bosco ci andavano maggiormente i contadini e i ragazzi, ma non si tiravano indietro certi artigiani, magari più bisognosi.
Il riscaldamento dell'ambiente allora si basava esclusivamente sul carbone che veniva acceso nel braciere, che stava sempre al centro della stanza. Le donne si sedevano vicino al braciere e con le ampie gonne, spesso, si mettevano sopra in modo che il calore rimanesse quasi tutto sotto le vesti. A lungo andare sulla pelle delicata delle gambe, e soprattutto delle cosce, si formavano delle macchie, che ricordavano il colore della mortadella: erano li parente. Non erano poche le donne che si producevano delle scottature.
Una categoria caratteristica di giovani professionisti era quella dei medici b_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_medici.jpg, i quali, appena tornati in paese con la laurea in tasca, si facevano comperare dai genitori l'abito con la cravatta e il cappello e prima di ogni cosa il bastoncino da portare in mano fuori casa. A quei giovani professionisti i concittadini erano tenuti a dare il titolo di "don". E se no che professionisti erano?
I preti venivano, in gran parte, da famiglie di contadini e comunque di lavoratori. Anche i frati avevano la stessa origine. Alle volte si trattava di orfani.
Quanto alle suore erano di origine modestissima e anche qui non mancavano le orfanelle di padre o addirittura di entrambi i genitori. Sembra quasi che la miseria le spingesse alla vita religiosa.
Il ritrovo dei giovani lavoratori, specie il sabato sera, era la cantina cantina.jpg, dove si giocava al tressette, a scopa, ecc. Le partite erano accompagnate da potenti bevute di vino che li ubriacava e li rendeva inutili e pericolosi. Ma anche la bottega del barbiere era un ritrovo. In quei piccoli locali modesti e senza attrattiva, si raccoglievano molti giovani ai quali piaceva l'allegria e l'armonia del suono della chitar­ra e del mandolino. E' risaputo che quei barbieri, in un modo o nell'altro, sapevano strimpellare qualche strumento musicale (suonavano tutti ad orecchio). Tra i clienti si trovava spesso qualche giovane bene intonato e così, mentre di giorno si facevano accordi, di sera tardi si andava ad eseguire serenate alle fidanzate di chi lo chiedeva. A pagamento si capisce. Più di una volta, però, a schifio finiva perché arrivavano dei prepotenti i quali imponevano di smettere e di andare a suonare dalle proprie fidanzate. Da qui, più di una volta, nascevano scontri duri e si concludeva la nottata o dai carabinieri o tra gli infermieri.
Come abbiamo avuto modo di ricordare, un tempo si beveva molto vino, di quel vino "battezzato e ribattezzato" da cantenere (osti) senza scrupoli per cui quel disgraziato che ne approfittava andava a finire o portato a braccia a casa oppure, che era peggio, rimaneva in piedi, traballante, disturbando il prossimo.
Nelle strade strette del vecchio centro abitato passavano quadrupedi carichi di sacchi pieni di derrate alimentari, di paglia o di fasci di legna. Pochissime le automobili appartenenti ai signori, mentre se c'era qualche lavoratore con l'auto, questa veniva usata come mezzo di produzione, cioè il lavoratore ci lavorava trasportando gente da un paese all'altro. Allora si viaggiava su dei carretti per andare a Monte S. Angelo o a Foggia per la festa di San Michele o dell'incoronata. Quando ha fatto la sua comparsa la pustala (corriera) c'era la prima classe e la seconda e i passeggeri indossavano lo spolverino per evitare di impolverarsi dalla testa ai piedi. Quelle corriere ci collegavano "velocemente", a cinquanta all'ora, a San Severo, Foggia, Rignano, ecc. Ma i lavoratori che andavano e tornavano dalla campagna viaggiavano sempre a piedi, con la bisaccia sulle spalle (il lunedì piena di pane, patate e quant'altro occorreva e il sabato vuota), dovunque fosse il posto di lavoro.
S. Marco in Lamis. Vecchia foto della ciminiera, ora abbattuta.
S. Marco in Lamis. Vecchia foto della ciminiera, ora abbattuta.
Sammarco
ha avuto la fortuna di avere un piccolo ospedale pubblico che in passato ha svolto una funzione importantissima, certamente nei limiti delle possibilità, per venire incontro alle esigenze dell'epoca. Erano, quelle, esigenze minime, e non ci si poteva aspettare di più. Infatti con quella struttura ospedaliera non potevano operare grandi luminari della scienza, tanto è vero che, tra le tante persone sottoposte ad interventi chirurgici, più di una non è sopravvissuta all'operazione perché i tempi e le scoperte scientifiche erano quelli che erano e non si poteva chiedere di più. Dopo, quel piccolo ospedale cambiò sito e divenne, poco alla volta, un ospedale medio di circa duecento posti letto in grado di soddisfare, oltre a Sammarco, anche Sannicandro, Apricena e altri paesi del nord Gargano.
Anno 1920. Copia dello statuto dell'ospedale di San marco in Lamis.
Anno 1920. Copia dello statuto dell'ospedale di San marco in Lamis.
Quante cose sono cambiate della Sammarco degli anni Venti e Trenta! La popolazione, è vero, è diminuita, ma, in compenso, il paese si è esteso, si è ammodernato, civilizzato, messo al passo coi tempi.
La durata della vita in generale si è allungata e le condizioni economiche sono migliorate, l'istruzione e il comportamento della popolazione non sono diversi da quelli degli altri paesi della zona.
I giovani non fanno più l'amore a distanza, uno alla finestra e l'altro per la strada, ma vivono una vita senza problemi.
I baci e le carezze ... se li scambiano per strada, davanti a tutti, di giorno e di notte ed è diventato un fatto normale, nessuno si scandalizza più. Ma questi giovani non lavorano e sono tutti a carico dei genitori e, a volte, dei nonni.
Negli anni Trenta nacque a Sammarco il campo sportivo sull'area dove attualmente c'è la Villetta. I dirigenti della squadra, per incassare qualche soldo dagli spettatori, che erano tanti perché attratti da una cosa nuova, pensarono bene di recintarlo con delle tavole. E ce ne vollero di tavole! E fu un bene, visto che con l'incasso poterono fare qualche acquisto dalla squadra del Foggia.
Il campo sportivo vero e proprio nacque dopo la seconda guerra mondiale ad opera degli stessi giovani di allora, sportivi e non. Molti di quei giovani appartenevano all'organizzazione del Fronte della Gioventù di estrazione garibaldina, essendo nata durante la guerra partigiana. L'Amministrazione Comunale di allora era di sinistra e perciò stesso sensibile alle esigenze dei giovani appena tornati dalla guerra e dalla prigionia e tutti insieme, ognuno nel suo campo, portarono il loro contributo fino alla realizzazione dell'opera.
Moltissimi anni addietro, prima degli anni Cinquanta, il fondo stradale di Corso Matteotti era fatto di grossi blocchi di pietra nera, pietra proveniente dalla lava del Vesuvio. Quelle pietre furono portate a Sammarco con i carretti e chissà quanta fatica e sacrifici costò a quei lavoratori. Era bello, soprattutto caratteristico. Poi, un bel giorno, amministratori a dir poco irresponsabili fecero togliere le pietre nere "per fare un corso più moderno" e ci misero le mattonelle di catrame, pur sapendo perfettamente che il Venerdì Santo passa la processione della Madonna Addolorata con le fracchie accese, le quali, lungo il cammino, bruciandosi e consumandosi, lasciano una scia di brace viva. Il fuoco, è ovvio, brucia il catrame e pertanto "la modernità andò a farsi friggere. Dopo ci hanno messo i sampietrini, in malo modo, e su quel tratturo, su quella mulattiera non ci passa più nessuno a parte le macchine. Tutto ciò, tutto quello che si cambia e ricambia significa spese di molti milioni e i sammarchesi, che sono gente arguta e intelligente, non l'hanno bevuta e ancora oggi si domandano: tutta quell'operazione fu fatta per incompetenza, per leggerezza o per fini inconfessabili? Meno male che a Sammarco il punto centrale del ritrovo paesano non è più Corso Matteotti, ma Piazza Europa, sui viali a meze lu Chiane.
Mobile presente in una tavoletta votiva dipinta presente nella raccolta del convento di san Matteo a San marco in Lamis.
Mobile presente in una tavoletta votiva dipinta presente nella raccolta del convento di san Matteo a San marco in Lamis.
Il mobilio di allora non era tanto complicato come ora: il comò b_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_mobilio-01.jpg, la cascia (cassone), la cifoniera b_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_mobilio-03.jpg b_250_0_16777215_01_images_Come_eravamo_tooltip_mobilio-02.jpg (comò più alto con quattro o cinque tarature -tiretti), il cui ripiano superiore era la sede per i soprammobili. I quadri più importanti erano quelli che dovevano contenere le foto degli sposi. Inoltre c'era lo specchio con una bella cornice che risaltava su tutto.
Ancora una nota. I nomi, che portavano gli uomini e le donne di allora, si ereditavano dai parenti più vecchi come i nonni, gli zii, ecc., con la precedenza della parte maschile: il primo maschio ereditava il nome del nonno paterno e, se il secondo era pure maschio, ereditava il nome del padre della madre. Dopo venivano i nomi delle nonne e così via. C'è da sottolineare che quasi tutti i nomi avevano il loro bel vezzeggiativo e diventavano, per esempio, Michele Mecheluccie, Pasquale Pasqualino o Pasqualucce, Antonio Tonio o 'Ntuniucce, Matteo Mattiucce e via di seguito. Altrettanto si faceva per le donne e ancora di più. Ad un certo punto degli anni Trenta - Quaranta le ragazze di Sammarco si chiamavano nella loro maggioranza Lina. Perché? Ma è semplice: Rachele, Rachelina, Lina; Carolina, Lina; Arcangelina, Lina; e poi Michelina e Angelina e via lineggiando.
Tavoletta votiva presente a san Matteo a S. Marco in Lamis. Spesso anche i cavalli venivano battezzati con il nome di Matteo.
Tavoletta votiva presente a san Matteo a S. Marco in Lamis. Spesso anche i cavalli venivano battezzati con il nome di Matteo.
Poi c'erano i nomi che finivano in uccia: Veneranda, Vennerannuccia; Maria, Mariuccia; Caterina, Catarennuccia; Filomena, Fulumiuccia; Raffaela, Raffaeluccia o Filuccia e poi Anastasia, Siuccia e via di seguito. insomma ogni nome aveva il vezzeggiativo. E siccome quei nomi, come dicevamo prima, per forza di usanza e tradizione venivano ereditati da nonni e zii, in questo paese avevano tutti lo stesso nome e di padre in figlio non c'era verso di farli cambiare. Quanti Michele ci sono a Sammarco? E Antonio? E Matteo? Ora, finalmente, si comincia timidamente a dare i nomi ai figli senza tenere conto del nonno e degli zii. Era ora!
A proposito di nomi e cognomi, c'è da dire anche che spesso l'impiegato comunale addetto all'anagrafe prendeva alla lettera le informazioni di chi andava a denunciare le nascite e, così, non era raro che di due fratelli uno fosse figlio di un Aucello e l'altro di un Augello o che qualche donna risultasse Antonetta, anziché Antonietta, dall'italianizzazione di 'Ntunetta.
Accenniamo ora alle attività produttive.
Quando l'annata agraria era buona, il contadino portava in paese l'abbondanza: patate, verdura, frutta come ciliege, fichi, castagne, noci ed altro ancora. Ma soprattutto c'erano più soldi da spendere ed è risaputo che, quando si spendono i soldi, viene stimolato il lavoro di altre categorie: lavora il calzolaio per rinnovare le calzature, il sarto per un vestito nuovo, il muratore per rimettere su la casa e con i muratori ci lavorano i falegnami per porte e finestre e il fabbro per inferriate, ecc. Insomma tutto l'apparato produttivo si metteva in movimento e il paese acquistava un'altra fisionomia e la gente era più allegra e festante. Il contadino, subito dopo il raccolto e venduta la merce, con l'incasso cominciava a fare i conti di quanto aveva pre­so nei negozi a credito e da qui partiva per togliersi li 'mpicce (piccoli debiti che aveva contratto durante tutto l'anno trascorso). Erano poveri ma di un'onestà esemplare.
Tra gli artigiani sammarchesi il più caratteristico era certamente il fabbro ferraio. Questi si alzava la mattina molto presto e cominciava a battere il martello sull'incudine e sul ferro caldo. Ma il bello e caratteristico era quando su di un grosso pezzo di ferro rovente, per far presto, ci dovevano lavorare tre fabbri contemporaneamente a battere velocemente sullo stesso punto con colpi forti e sincronizzati, senza mai sbagliare un colpo. Il mastro, di tanto in tanto, si asteneva per un paio di colpi e andava a picchiare sulla punta dell'incudine creando un suono diverso e più accattivante.
Il muratore lavorava prevalentemente in paese ma non disdegnava di andare in campagna per costruire o riparare masserie, piscine, cisterne, ovili.
Le sartorie lavoravano a pieno ritmo sotto le feste di Natale, Pasqua e altre ricorrenze importanti perché erano quelle le occasioni per "mettere il vestito nuovo".
Anche i calzolai lavoravano in certi periodi dell'anno: in prossimità delle feste ma anche alle porte dell'inverno.
Gli orefici aumentavano la loro attività subito dopo il raccolto, quando c'era maggiore disponibilità di denaro che consentiva di pagare i debiti e permettersi qualche piccolo lusso.
Coloro che, più di tutti, lavoravano a tempo pieno erano, senza alcun dubbio, i gestori di cantine e di bar, che in verità tanti anni addietro non esistevano. C'era una sola birreria frequentata esclusivamente da giovani agricoltori. I cantinieri cominciavano a ricevere i loro clienti fin dal primo pomeriggio con gli artigiani. Più tardi arrivavano i contadini e questi si intrattenevano fino a sera tarda quando si doveva chiudere. In quelle cantine si beveva molto e, dopo qualche ora di permanenza seduti su quelle panche, gli avventori erano già belli e ubriachi. Per l'oste la giornata era assicurata.
Diversamente era per il negoziante di tessuti il quale era costretto a vendere a credito e perciò doveva avere la pazienza di aspettare o il raccolto, se i debitori erano contadini, oppure una buona occupazione se il debitore era un lavoratore alla giornata.
Un illustre sammarchese appena emigrato in America: Joseph Tusiani.
Un illustre sammarchese appena emigrato in America: Joseph Tusiani.
Il paese era grande ma non aveva le risorse per dare la sicurezza ai suoi abitanti. I sammarchesi sono andati a lavorare sempre nei comuni a noi confinanti, a prescindere dalla grande emigrazione all'estero, nelle Americhe e in Australia.
Ora tutto è cambiato e la miseria, quella vera, è scomparsa, ma non la povertà, sia ben chiaro, perché di poveri ce ne sono ancora, e come!
Oggi molti fanno i bidelli sparsi per l'Italia. Dovunque vai, nelle scuole, ci trovi ex braccianti, muratori, eterni disoccupati. Questo ha mitigato in parte la cancrena secolare della disoccupazione. Sammarco sarà forse il paese che ha più bidelli in tutto il territorio nazionale. Molti giovani, con le scuole, hanno scoperto la via del lavoro in ospedale in qualità d'infermieri diplomati. Anche questi li troviamo in ospedali di diverse regioni.
Certamente ora Sammarco ha molti suoi concittadini laureati nelle diverse professioni, molti dei quali onorano il nostro paese in terre lontane, anche straniere. Nella Sammarco di tanti anni fa c'erano i vigili urbani che avevano un gran da fare nelle strade a stare attenti alle donne che buttavano l'acqua sporca nelle strade e questo era un pericolo sempre presente perché la realtà era quella e non c'era niente da fare: mancava la rete fognante e quando era possibile si buttava l'acqua sporca con le urine. Il vigile doveva sorvegliare, tra l'altro, che le galline che le donne avevano nelle gabbiette non fossero liberate per razzolare tra i rifiuti che giacevano un po' dappertutto. Quando sorprendeva queste "malefatte" non faceva altro che tirare fuori il blocchetto e scrivere la multa. Questa era l'attività predominante del vigile all'epoca.
Tutte quelle multe a donne un po' distratte venivano infiorettate da una grandinata di scia 'mpise all'indirizzo e alle spalle del vigile troppo zelante.
Il mezzo principale per il trasporto era il carretto, non solo per le merci, ma anche per le persone. I "signori" - padroni di grosse aziende agricole - avevano la carrozza con cavalli scelti e il cocchiere con il "tubo" in testa (specie di cilindro). Le carrozze erano presenti anche quando le automobili solcavano le poche strade in terra battuta esistenti nella zona.
Per gli annunci importanti che il Comune lanciava ai cittadini di Sammarco, non essendoci altri mezzi di diffusione di massa (niente tv, pochissimi apparecchi radio), veniva dato l'incarico al banditore che munito di tamburello e bacchetta girava il paese e di tanto in tanto dava la notizia con frasi e gesti "coloriti" sia divertenti che tragici, a seconda del caso.
Esisteva anche una carovana di facchini, che caricavano e scaricavano le merci, soprattutto la farina.
S. Marco in Lamis. Anni Quaranta. Processione di San Francesco tra San Matteo e Borgo Celano.
S. Marco in Lamis. Anni Quaranta. Processione di San Francesco tra San Matteo e Borgo Celano.
La pulizia del paese avveniva tramite lu scopalota (spazzino), lu traine per la raccolta delle immondizie e la votta (botte di ferro montata su carrello e trainata da un quadrupede). Era una pulizia per modo di dire e al massimo si scopava solo sui due corsi principali, soprattutto quello centrale. Tutto intorno alla periferia che circondava il paese era un susseguirsi di depositi maleodoranti di escrementi di bestie e di abitanti della zona, che, misti a paglia, si utilizzavano come concime per i campi.
Il paese era, ed è, attraversato dal Canalone, un canale scoperto che, pur se vicinissimo alle abitazioni, era sede di escrementi umani, immondizie, carogne di cani e gatti morti e di tutti i rifiuti del paese. Il nome vero del Canalone è Torrente Jana. Il Canalone era sempre a secco e, soltanto quando pioveva a dirotto, le acque, che scendevano dai monti e dalle colline, si riversavano nel centro abitato con il loro turbinio ribollente e trascinavano via tutto quanto trovavano lungo il loro travolgente cammino. Solo allora si ripuliva ma per poco, perché subito dopo cominciava a coprirsi di rifiuti tra lucertole, serpi, vermi e tutti gli insetti che lo sporco comporta. La gente ci abitava vicino, a contatto diretto, e ci conviveva.
La fede religiosa era seguita con convinzione e partecipazione. Le processioni si succedevano l'una dopo l'altra e i fedeli le seguivano vuoi per fede vuoi per mettersi in mostra (i ruffiani non mancano mai in tutte le manifestazioni) o per motivi a noi sconosciuti.
In questa carrellata disordinata di attività e mestieri dei sammarchesi di tanti anni fa non possiamo fare a meno di presentare certe attività che non erano mestieri veri e propri, ma che permettevano di arrotondare il bilancio familiare.
S. Marco in Lamis. Suppellettili usate nella vita giornaliera.
S. Marco in Lamis. Suppellettili usate nella vita giornaliera.
Poiché in paese non esistevano altre fonti per rifornirsi di acqua potabile oltre ai pozzi pubblici, in quasi tutti li jusi (sottani) c'erano "cisterne" che raccoglievano le acque piovane dai tetti delle case. Queste, di tanto in tanto, andavano ripulite dal calcio e dalle impurità che l'acqua trasportava dai tetti dove uccelli e topi abbondavano. In paese c'era qualche operaio che si prestava a tale bisogna. Ciò era possibile quando la "cisterna" era vuota o quasi. L'operaio scendeva nel fondo e, con attrezzi adatti, raschiava tutt'intorno dalle pareti lo sporco che si era accumulato durante gli anni. Dopo raccoglieva ogni cosa nei secchi e portava fuori la melma che era rimasta sul fondo. Infine, con acqua e spazzoloni completava il lavoro.
Inoltre c'era chi girava per le strade del paese chiedendo stracci in cambio di qualche bicchiere o piccoli altri oggetti di poco valore.
C'era un girovago caratteristico che annunciava la sua presenza gridando: capille o Capellare. Questi offriva cartelle con aghi, ditali, forcine, in cambio di capelli che le donne raccoglievano dal pettine e mettevano in un sacchetto.
Non mancavano, infine, gli ombrellai o coloro che risanavano i piatti. Ecco, questa era, grosso modo, Sammarco. Così l'abbiamo conosciuta fin dalla più tenera età e così ogni sammarchese l'ha ricordata quando era lontano, emigrato in ogni parte del mondo.
Sammarco non è bella, non ha un granché; ma per noi è il più bel paese che esiste sulla terra perché è il paese dove siamo nati, dove abbiamo mosso i primi passi e balbettato le prime parole insieme alla nostra mamma. E' qui che abbiamo gioito e sofferto, siamo diventati grandi e abbiamo partecipato al suo sviluppo con la nostra volontà e con la nostra intelligenza. E' così che vogliamo ricordare il nostro paese e volergli bene.

 Collezione di Tavolette votive dipinte del Santuario di San Matteo  Collezione di Tavolette votive dipinte del Santuario di San Matteo  Collezione di Tavolette votive dipinte del Santuario di San Matteo
 Collezione di Tavolette votive dipinte del Santuario di San Matteo  Collezione di Tavolette votive dipinte del Santuario di San Matteo  Collezione di Tavolette votive dipinte del Santuario di San Matteo
 Collezione di Tavolette votive dipinte del Santuario di San Matteo  Collezione di Tavolette votive dipinte del Santuario di San Matteo  Collezione di Tavolette votive dipinte del Santuario di San Matteo

Lu scardalane

La filatura della lana in casa.
La filatura della lana in casa.
Il mestiere di scardalane era esercitato da persone impegnate in quel lavoro con modestia e tanta umiltà, ma con altrettanta dignità e passione. Non avevano né bottega né laboratorio. Non aspettavano, con le mani in mano, che il cliente andasse a portargli il lavoro. Lu scardalane, al contrario degli altri artigiani, girava  lui per la strade del paese annunciando ad alta voce la sua presenza.
Il suo lavoro era richiesto ed apprezzato dalle famiglie dei sammarchesi e ciò era più che giustificato. Come avrebbero potuto servirsi della lana senza la cardatura occorrente? Di lana di tutte le qualità, dalle nostre parti, se ne produceva una quantità notevole essendo la popolazione dedita, in maggioranza, all'agricoltura e alla pastorizia. L'allevamento delle pecore era molto praticato, sia per la sua facilità che per la resa. La pecora ripaga generosamente tutta l'attività svolta per la sua cura e il suo mantenimento. Ci dà lana, pelle, latte da cui si ricava buon formaggio e, infine, carne. Ma la lana è stato il prodotto più apprezzato da sempre. Dalla lavorazione della lana si ricavano capi di abbigliamento che da secoli vestono l'uomo.
Certamente i grandi proprietari possedevano più bestiame, agevolati dal fatto di essere grandi possessori di terreni. Montagne e valli intere e poi pianure sterminate furono occupate dalle famiglie più furbe, che ne divennero, col tempo, proprietarie. Grandi greggi di pecore si notavano non lontano dal centro abitato. E quando arrivava la primavera, ogni anno, le pecore venivano tosate, producendo tonnellate e tonnellate di lana, che veniva immessa sul mercato a disposizione di acquirenti paesani e forestieri.
Donna che 'scardassa' la lana.
Donna che 'scardassa' la lana.
Dalla lana cardata, filata e data nelle mani della tessitrice si ricavava la tela che, a sua volta, diventava lenzuola, camicie, mutande, sottovesti, maglie, calze, ecc. In altre parole, la lana, nelle famiglie dei nostri padri, era un elemento di primaria importanza e chi aveva la possibilità acquistava diversi mante de lana (vestiti completi delle pecore), li faceva cardare e poi ne faceva l'uso più appropriato.
Lo scardassatore portava tutta l'attrezzatura occorrente, lo scardassoCardacci.jpg, sulle spalle e difficilmente entrava in casa per svolgere la sua attività. Non dava nessun fastidio. Metteva il suo armamentario per terra e si sedeva dove gli era più comodo, su uno sgabello, una sediolina, sul gradino di una scala esterna e subito si metteva a lavorare con lena e senza perdersi in chiacchiere: il tempo per lui era prezioso.
Portava con sé una specie di panchetto alto una cinquantina di centimetriCardatrice_materassaio.jpg, lungo ottanta e largo trenta. Il piano era rivestito di cuoio e dal piano spuntavano numerose puntine di acciaio, che erano mobili e ricambiabili. C'era poi un'altra tavola, uguale al piano, pure rivestita di cuoio e con le puntine di acciaio che, però, era mobile e che si afferrava per le due maniglie poste dall'altro lato.
Quando aveva sistemato i suoi attrezzi, prendeva un manto di lana e lo divideva in diverse parti che stendeva sul ripiano e, piano piano, con la tavola mobile, iniziava a lavorare cercando di liberare la lana delle impurità più grosse. Azionava con cautela il suo attrezzo, facendolo scivolare sulla lana ancora increspata e arruffata, nonché unta di oli grossolani, che rendeva il lavoro difficoltoso. Tuttavia non andava per le lunghe e, quando le parti estranee venivano estirpate e la materia cominciava a prendere la sua fisionomia di lana liscia e trasparente, il lavoro diventava più spedito e senza intoppi. Quel grosso ciuffo di lana sporca e arruffata diventava pulito, soffice e poteva in brevissimo tempo trasformarsi in un grosso filo (ciucele) di un centimetro e mezzo di diametro. Da un manto di lana venivano fuori molti ciucele.
Il lavoro de lu scardalane era apprezzato dalle nostre nonne. La lana cardata veniva filata e raccolta in grossi gomitoli, tanti quanti ne occorrevano per fare un paio, due paia di lenzuola o altro. Dal numero dei gomitoli le donne si regolavano per capire quante maglie e paia di calze potevano confezionare, magari per la figlia in procinto di maritarsi.
La lana cardata era filata e avvolta sul naspature, un legno alto un metro, che da una parte aveva una forcella e dall'altra tanti buchi, in uno dei quali si infilava un chiodo di legno. Il chiodo di legno si spostava a seconda della matassa che si desiderava fare. Una volta fatta la matassa, questa si infilava sul vinneleArcolaio.jpg - (arcolaio) che girava su se stesso e si facevano i gomitoligomitoli.jpg (gghiommera) di lana.

 La filatura e lavorazione della lana in casa  La filatura e lavorazione della lana in casa  La filatura e lavorazione della lana in casa
 La filatura e lavorazione della lana in casa  La filatura e lavorazione della lana in casa  La filatura e lavorazione della lana in casa

Tavoletta votiva dipinta del Santuario di San Matteo a San Marco in Lamis.
Tavoletta votiva dipinta del Santuario di San Matteo a San Marco in Lamis.
Non troppi anni addietro, dalle nostre parti, c'era la spigolatrice che si recava sola o con i suoi familiari in campagna a raccogliere le spighe di grano cadute dalla mietitrice oppure da li manocchie (covoni). Era un lavoro che svolgevano soltanto i poveri. E, solo povere donne potevano farlo nel bel mezzo del Tavoliere, curvate da mane a sera sotto il sole che dardeggiava sulle nuche. Nonostante mettessero lu maccature 'ncape (un foulard sulla testa), era impossibile sfuggire alla calura. Oggi per fortuna non ce ne sono più di spigolatrici, essendo mutate le condizioni sociali ed economiche; il progresso generale ha fatto sì che vecchie leggi e sorpassate usanze fossero accantonate e sepolte: speriamo per sempre.
I popoli si sono in parte emancipati dalla paura e dal bisogno di epoche precedenti grazie ad aspre lotte operaie e popolari. Anche i nostri braccianti agricoli, ed i lavoratori in genere, hanno subito delle trasformazioni enormi e per fortuna certe cose non esistono più.
Vecchi mestieri. Le spigolatrici.
Vecchi mestieri. Le spigolatrici.
I miei ricordi si riferiscono agli anni Trenta, quando il fascismo trionfava su tutti i fronti e agli italiani si faceva cantare Faccetta nera bella Abissina. Le nostre popolazioni facevano la fame ed erano soggette a ingiustizie di ogni sorta. Nelle famiglie si faceva fatica a tirare avanti. Il malessere regnava ovunque. In queste condizioni i salariati addetti ai lavori della raccolta del grano portavano con loro, in campagna, le mogli a spigolare e, se avevano qualche figlia grandicella, certamente non la lasciavano in paese. È inutile far risaltare le gravissime difficoltà che incontravano le donne le quali avevano avuto la sventura di perdere il marito in giovane età, magari a causa della malaria contratta lavorando nelle masserie ad alto rischio (zone paludose, impantanate, piene di zanzare portatrici del malanno).
Le donne, per avere la possibilità di spigolare, dovevano, nelle ore di riposo, occuparsi della pulizia dei locali, della biancheria dei padroni e aiutare a cucinare per le molte persone che in quel periodo lavoravano in campagna.
Le spigolatrici attaccavano a lavorare la mattina molto presto e, con il fresco, si recavano nelle pezze (campi già mietuti) a cercare nella restoccia (le stoppie) le spighe cadute durante le operazioni della mietitura o nell'atto di caricare i covoni sui carrettoni che li trasportavano alla trebbia. Le raccoglievano e facevano la mannedda (un mazzetto da poter tenere in mano); dopo, con un coltello che portavano sempre con sé, tagliavano le spighe e le mettevano nella grossa sacca che portavano legata alla cintura. La cucuma (recipiente a mò di fiasca in terracotta) non mancava mai. L'acqua era necessaria per dissetarsi durante le lunghe ore di esposizione al sole cocente di giugno-luglio. Chinate continuamente a cercare tra le stoppie, con il caldo soffocante e tutte sudate, accompagnate dal continuo mal di schiena, a fine giornata erano esauste, sfibrate e incapaci di stare in piedi.
Non tutte le spigolatrici erano autorizzate a sostare nei campi. C'erano quelle che venivano con tutta la famiglia e giravano da un campo all'altro senza permesso essendo di altri centri e, così, spesso nascevano litigi tra chi si sentiva protetta dal padrone e chi non vedeva la ragione di essere respinta dopo la mietitura. La solita guerra tra i poveri.
Vecchi mestieri. La spigolatrice.
Vecchi mestieri. La spigolatrice.
I padroni, per evitare che i forestieri si avvicinassero ai covoni per tagliare le spighe con i falcetti, in quel periodo (della mietitura e trebbiatura), assumevano un guardiano allo scopo di tenere lontano i terrazzani dalle loro pezze e a cavallo giravano continuamente sui loro possedimenti, anche armati, decisi a far rispettare la legge. I guardiani, il più delle volte, venivano assunti solo per qualche mese, per il solo 'periodo dell'aria' quando tutto era stato rezelate (finita la trebbiatura ed ogni cosa era stata messa al suo posto); dopo anch'essi andavano ad ingrossare le file dei disoccupati. Però, in generale, si trattava di gente poco affidabile: ruffiani e manutengoli, tipi poco raccomandabili e pronti a tradire un padrone per un altro.
Le spigolatrici erano soggette sovente ad attacchi di febbre malarica e, quando ciò accadeva, non si aspettavano l'aiuto da nessuna parte. La sanità pubblica a stento elargiva il chinino, amaro come il veleno, la cui efficacia lasciava molto a desiderare. Del resto lo Stato italiano era impegnato 'a portare la civiltà' in Africa, in Albania e altrove lasciando gli italiani, specie i meridionali, nel più completo abbandono.
Eppure tra tanta fatica, sofferenze e mancanza di una qualsiasi speranza per il domani, di tanto in tanto, nella calura più soffocante, era possibile percepire una flebile voce che intonava il motivo di qualche canzonetta in voga. Cantavano per il piacere di vivere a quel modo o per quella rabbia che covavano in corpo contro i responsabili di tanta ingiustizia? Mah...

Una tavoletta dipinta presente nella collezione del Santuario di San Matteo a San Marco in Lamis.
Una tavoletta dipinta presente nella collezione del Santuario di San Matteo a San Marco in Lamis.
Nelle case dei nostri antenati le sedie non erano sempre belle e moderne. Convivevano sedie acquistate al negozio e sedie di produzione locale, meno appariscenti. Quelle "moderne", quattro o sei, servivano solo per fare bella figura, erano una specie di ornamento. È vero che venivano offerte a sedere, ma solo a persone estranee alla famiglia, a gente di un certo riguardo: comare, compare, parenti importanti. Per i componenti della famiglia si usavano quelle costruite da lu mastrerasce o da pastori e contadini locali, i quali erano molto bravi nel lavorare il legno e costruire sedie di diversa grandezza: da quelle piccole per l'uso dei bambini a quelle più grandi. Tuttavia, nessuna era alta quanto quelle acquistate. Erano sedie di media grandezza, un po' più larghe e comode, proprio per donne di allora le quali, sedute, si trovavano a loro agio nel fare la calza, filare la lana, rattoppare indumenti consumati e via di seguito.
Quando quei lavoratori, dopo settimane, tornavano alla "terra", cioè al paese, per la festa, portavano sempre qualche oggetto utile nelle case dei lavoratori: in campagna avevano diversi attrezzi per lavorare il legno durante le lunghe giornate. Ma avere le sedie senza fondo significava avere solo degli inutili fastidi in casa. Per cui andavano funnate, vale a dire munite del fondo su cui sedersi, bisognava, in altre parole, portarla dalla seggiara, la quale aveva a disposizione la pagghia vogghia (acoro). Questa è una pianta molto alta che cresce nelle paludi o lungo i fianchi dei fiumi. La pianta, dopo essere stata tagliata, veniva essiccata e quindi conciata: poi veniva tagliata a lenze lunghe e sottili che si attorcigliavano per farne cordicelle e intessere il piano. Le cordicelle erano chiamate li limme. Così per funnà na seggia occorreva lavoro e tanta accortezza perché il piano, alla fine, non risultasse troppo duro o il contrario. Doveva essere comodo e rilassante. Il mestiere di funnà li segge era esercitato prevalentemente da donne, ma, a volte, erano aiutate da qualche uomo di famiglia, spesso un invalido, visto che, a quei tempi, le pensioni d'invalidità non c'erano. Se c'era l'uomo in casa, nonostante tutto, tanto di guadagnato perché pensava lui ad andare nelle marane a tagliare la pagghia vogghia, essiccarla e lavorarla come il mestiere comanda.
Antichi mestieri. La seggiara.
Antichi mestieri. La seggiara.
Quel lavoro si svolgeva soprattutto in casa durante l'inverno e quando pioveva o era particolarmente freddo; altrimenti, si svolgeva fuori la porta di casa e, in mezzo alla strada, tra gli scheletri delle sedie sia vecchie, da refunnà, che nuove di zecca. Quelle operaie giravano per le strade a cercarsi il lavoro. E di lavoro ne trovavano sia per rifare il piano delle sedie, sia per ripararle dove mancava qualche zencone, cioè dei pioli di legno, per consolidare la stabilità della sedia. Quei pioli potevano essere di forma cilindrica o piatti ed erano, e sono, incastrati tra una "gamba" e l'altra. Quando il lavoro era terminato, la donna si caricava addosso le sedie riparate e le consegnava a chi aveva commissionato la riparazione, sperando, prima di ogni cosa, che le venisse pagato alla consegna quanto era stato pattuito. E sì, perché allora nelle famiglie dei lavoratori di soldi a portata di mano ce n'erano pochi, anzi non ce n'erano e, il più delle volte, alla consegna del lavoro, si sentivano dire: passa nata vota, mo no ne tegne.
Con questo mi sembra d'aver descritto due attività di ordine marginale e di poco interesse, ma che in realtà, a quell'epoca, erano considerate delle attività ricercate e richieste perché utili anche se, in pratica, non risultavano eccessivamente redditizie. Anzi. In molte abitazioni spesso si vedevano sedie sfondate, con il piano sfasciato e li zincone appesi disordinatamente proprio perché mancavano le possibilità per farle riparare e renderle efficienti.
Nel passato, poi, bisogna dire che il lavoro svolto dalle donne nelle proprie case, pur essendo molto richiesto perché utile, non era tenuto nella dovuta considerazione. Sembrava quasi che le donne in casa si divertissero a lavorare per gli altri. Ad esempio, chi riparava le sedie lavorava di gran lena per riuscire a vivere e si faceva fatica a pagare quel lavoro. E che dire della tessitrice, la quale si metteva seduta al telaio dalla mattina presto fino a sera inoltrata per fare lenzuola e panno che sarebbe servito a confezionare gonne e indumenti intimi. E la sarta? Anche questa doveva aspettare tempi migliori. Non c'era 'mala volontà' nel pagare il lavoro altrui, ma solo mancanza di mezzi. Non parliamo poi di quelle poverette che servivano nelle case dei 'signori'.

La mammana

Tavoletta votiva dipinta appartenente alla collezione presente nel Santuario di San Matteo a San Marco in Lamis.
Tavoletta votiva dipinta appartenente alla collezione presente nel Santuario di San Matteo a San Marco in Lamis.
In passato, ad aiutare, come potevano, le donne in procinto di partorire, c'erano le mammane. Non tutte erano diplomate e abilitate all'espletamento dell'attività. Certamente ci saranno state delle leggi che disciplinavano la materia, ma molte praticavano il mestiere senza nessuna preparazione. In questi casi contava la pratica e l'esperienza acquisita nel settore in tanti anni di attività lavorativa semiclandestina.
Certamente il mestiere non richiedeva molta teoria, essendo praticato soprattutto per esperienza diretta, oltre che sulla base dei consigli che venivano dalla mamma, dalla zia e da altre donne della famiglia. In passato c'era un'intera famiglia le cui donne praticavano, quasi tutte, il mestiere di mammana. Non so quante di loro avessero conseguito il diploma di levatrice.
Oggi la levatrice segue la partoriente per tutta la gravidanza, sino al parto, che, comunque, non avviene più in casa; oggi si può sapere addirittura il sesso del nascituro. Una volta, invece, la donna rimasta incinta non ricorreva nè al medico nè alla levatrice perché andavano pagati. Questo era il motivo per cui le partorienti tiravano avanti fin che potevano con il solo aiuto della mamma e delle comari del vicinato, che erano importanti e rivestivano un ruolo fondamentale nella vita di tutti i giorni all'interno del quartiere. Sapevano tutto di tutti. Non esistevano problemi, anche i più personali, che sfuggissero all'intuito delle donne del vicinato. Questo dipendeva anche dal fatto che le strade erano strette e le porte delle abitazioni erano una vicina all'altra. Anche senza volerlo, si finiva con il sapere quanto avveniva nella casa di fronte o in quella accanto.
Ad ogni porta corrispondeva un'abitazione, con dentro una famiglia più o meno numerosa. 'Inoltre, tra un "sottano" e un 'soprano' c'era una comunicazione di fatto. Lu iuse e lu suse erano divisi da una travata con delle traverse. Sopra quell'impalcatura di legno c'era il lastrico, fatto di rena e calce, o, solo in seguito, anche di cemento. Era un impasto che non resisteva a lungo e presto si rompeva, soprattutto ad opera de li trispete (cavalletti di ferro su cui poggiavano le tavole e il saccone pieno di foglie di granturco, che fungeva da materasso). Si creava di fatto una comunicazione permanente. Si litigava, si scherzava, si rideva, si faceva all'amore con l'altra famiglia che, in pratica, sentiva tutto. Pertanto quando nasceva un bambino lo sentiva tutto il vicinato. I suoi vagiti venivano avvertiti fin dal primo istante.
Questo modo di vivere, per molti giovani d'oggi, potrebbe sembrare sconveniente. Ma, in quelle strade, tra quella gente, nonostante i soliti pettegolezzi, le critiche e le invidie, c'era più umanità e più solidarietà. In un tale ambiente, una donna incinta chiamava la mammana solo all'ultimo momento, prima del parto.
In qualunque ora del giorno, e soprattutto di notte, la mammana si alzava e subito, accompagnata dai famigliari della partoriente, si recava all'abitazione dove l'aspettava la donna, già con le doglie avanzate.
Le donne del vicinato facevano trovare tutto pronto: acqua calda abbondante, fasciature (pannolini) e asciugamani. Nato il bambino, la levatrice se ne tornava a casa con il guadagno della prestazione in tasca: si rivedeva quando, in braccio, portava in chiesa il bambino per il battesimo. Era questa un'usanza che tutti osservavano: se ne faceva un punto d'onore. Non sarebbe stato compreso da nessuno battezzare il neonato senza la levatrice che l'aveva aiutato a venire al mondo.
Antichi mestieri. La levatrice.
Antichi mestieri. La levatrice.
In occasione del battesimo il bambino veniva vestito e "addobbato" con cammisciola, juppuncedde e vavarola, dopo essere stato avvolto in un susseguirsi di culozze e fasciature, che coprivano, appunto, tutto. Il bambino rimaneva chiuso in quelle fasce per gran parte della giornata, fino a quando la mamma non lo sfasciava per le pulizie e per cambiargli lo sporco deposto ne li culazze. Quando erano vestiti di tutto punto, sembravano delle piccole mummie viventi che muovevano soltanto la testina, perché anche le manine, per un po' di giorni, rimanevano strette nelle fasce.
Quando la mamma sfasciava il bambino, questi, sentendosi libero, sgambettava a più non posso, dimostrando, con ciò, di gradire enormemente quella breve libertà.
In quell'ambiente e in quelle condizioni culturali la mammana rivestiva una considerevole posizione sociale. Economicamente stava bene, ma non andava oltre un certo limite, in quanto la società, nel suo insieme, era povera. Se non ci fosse stato il marito a lavorare, le sue condizioni non sarebbero state delle più floride.
Quando una levatrice saliva una delle nostre lunghe strade, specie d'estate, con le donne che sedevano fuori di casa a fare la calza, a rattoppare indumenti consumati, a filare la lana, era riverita da tutti e lei per ognuna di quelle donne aveva qualche parola di attenzione. Aveva un portamento sicuro, padrona di sé e della funzione sociale che rivestiva e cercava in tutti i modi di esserne degna. Era sempre vestita con una certa ricercatezza, senza eccedere nell'eleganza fuori posto e pacchiana.
La levatrice era chiamata molto spesso di notte, anche per situazioni da tenere nascoste.
Diploma o non diploma la mammana a quei tempi era una delle figure professionali più utili a tutta la società e, pur in presenza di un ospedale, come nel caso di Sammarco, non si rinunciava a ricorrere per il parto alla mammana.
Oggi le mammane non occorrono più. Ora tutto è cambiato. Per venire al mondo, il bambino trova l'aiuto dell'ostetrica, del ginecologo, dell'infermiera oltre che di macchine moderne e sofisticate che lo accolgono appena nato, che lo cullano fino a raggiungere il peso giusto. Questi ed altri accorgimenti hanno permesso di debellare, quasi del tutto, la mortalità infantile.
Tuttavia, a prescindere dalle straordinarie scoperte scientifiche nel campo della medicina, la vecchia levatrice che gira ancora per le strade di Sammarco è fatta segno di manifestazioni di simpatia da parte delle donne di una certa età. Eh, sì. Tutto è cambiato. Anche il modo di atteggiarsi dei neonati.
Una volta si diceva che i bambini aprivano gli occhi un mese dopo la nascita. Oggi nascono, come si suol dire, già con gli occhi aperti.

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