Al viaggiatore di buona vista apparirà in treno, tra Apricena e San Severo, per un attimo e come in un lampo di sogno, stretto fra i monti, in alto e imponente qualcosa come un maniero o un convento: il Santuario di San Matteo. Se costui poi avrà vaghezza di conoscere il Gargano nella sua parte più modesta e intima, potrà egli accogliere l'invito di quella eremitica visione, scendere a San Severo e aver per guida quel convento che dall'alto domina due valli: di Stignano e dello Starale. È un'introduzione schietta e casalinga del Gargano per due valli, fervida di vita vegetale l'una e sonante di opere umane l'altra. Non sarà egli intimidito da ricordi storici, da opere d'arte di importanza archeologica, che lo infastidiranno spesso a consultare la sua guida turistica, anche se all'imbocco della valle la sua attenzione sarà attirata dalle rovine di un alto castello, Castelpagano, dove il De Amicis ambientò una sua novella nel triste periodo del brigantaggio.
Partendo dal Candelaro, torrente più che fiume costretto dalla montagna garganica a seguire una direzione anomala, a correre cioè parallelamente all'Adriatico, da una piana che nella buona stagione è di un verde quasi liquido per la sua illimitata uniformità, e dove gli acquitrini danno una nota di paesaggio nordico, saliremo al primo gradino della valle folta d'alberi. L'alterno colore del mandorlo e dell'ulivo è il motivo dominante: glauca, quasi cerula dopo la pioggia è la foglia dell'ulivo garganico, di un intenso verde ramarro è quella del mandorlo.
Se a primavera il concerto dei mandorli fioriti nella loro più svariata gamma di bianco e di roseo non è disturbato dai capricci marzolini, la valle è tutta una gloria di nuvolette ferme lungo le pendici, come dopo lo scoppio di tanti fuochi artificiali, o come tante nubi pigre e distratte a riposo lungo le balze o come un gregge addormentato dalla cornamusa di un pastore invisibile e misterioso. Sollecita forse la valle questa stessa immaginazione. E non a torto la villanella garganica, quando amore agita il suo petto, raggiunge e comprende sublimi gentilezze desiderando così che il suo amore, lavoratore in piana, sotto l'imperversare del solleone possa, salendo al natio borgo, sostare e dormire un poco nella valle di Stignano piena di menta e di rose. E tale è questa valle che, vivacissima per lo svariare dei colori e delle luci, è odorosa, al calpestìo, per le numerose labiate: mentastro, origano e nepeta che fan la gioia dei greggi al pascolo rendendo aromatica la carne dei brucanti.
E così, ancor salendo oltre la valle di Stignano e la sua gola, il viaggiatore potrà dare uno sguardo, sia pure distratto, a un altipiano una volta per vendemmia festante, dal bel nome arcadico: Sambuchello, anche se ora pietosamente vedrà allo scoperto innumeri pietraie dal cinereo colore del tempo e delle pernici. L'azione dilavante delle piogge ha portato via quel tanto di humus fecondo che l'industre contadino ha sempre cercato di salvare ergendo muri a secco e disposti a gradinate.
Regna ora il silenzio dei cimiteri su questi campi di tante battaglie perdute dall'uomo e dove la terra mette a nudo il suo scheletro. La roccia, di un rosso sanguigno, ancor più ci fa pensare al sudore di sangue del lavoro dei contadini.
S'aprirà, poi, lo Starale improvviso per via di un monte, ingombro ed insieme incubo, all'inaspettato e grosso agglomerato del borgo che anima la valle. Il Monte di Mezzo, protezione inevitabile e fastidiosa, che opprime più che dar vita alla persona protetta, spiega la timorosa strategia di origine del paese medioevale, quando il terrore piratesco circondava la piana e il mare.
Il monte è causa e origine paludosa di San Marco, che ha per l'appunto la sua culla nel rione detto 'Palude'. Ma 'ex lamis terra surget et splendet', come scrisse De Pisis a un amico del luogo, perché da quel nucleo di abitanti del basso medioevo vennero su generazioni di uomini operosi che, come da un sussurrante alveare, sciamarono per le colline circostanti e la piana, la 'puglia' come essi dicono, e irradiarono lo splendore del loro lavoro fecondando financo i monti. Tant'è che fino alle porte dei paesi circonvicini e oltre si trovano ovunque operai e contadini sammarchesi. E la luminosità di tanta opera ferveva anche in sede per le numerosissime schiere di artigiani.
L'artigianato locale, infatti, ha avuto per secoli periodi di vero splendore, essendo stato San Marco centro industriosissimo di lavoratori del legno, del ferro, dell'oro, del cuoio e del telaio prima che l'industria meccanica assiderasse e immiserisse questi benemeriti borghigiani.
Conserva ancor lo Starale un'aura festiva dei tempi beati. È una conca più che una valle, non priva però di quelle suggestioni che si associano alle prime scoperte infantili della natura e alle prime letture classiche, per cui spesso mi avveniva, con la fantasia, di ambientare colà la dantesca valletta dei principi. Ma, conca o valle che sia, essa unisce alla varietà dei colori e degli stessi odori della prima valle altri incanti che hanno del sortilegio. Più intensi sono gli odori nascosti, odori segreti di mammole e narcisi fiorenti lungo i sentieri, che io saprei riconoscere, anche ad occhi bendati, tanta è la familiarità di quelle pietre, a cui ho affidato la storicità di certe mie primigenie sensazioni. E, tra lo sciamito dei campi di grano e di fave, circondati ancor sempre dai fidi mandorli, il violaceo delle mammole e il roseo lillà dei ciclamini, fanno pensare 'a vestizioni di bimbi e di spose' che 'mentre le guardi sfumano già' nell'acre odore del biancospino. Beata valle dunque lo Starale, dove i vivi continuano la tradizione degli avi nei dì festivi, quando escono all'aperto nei pomeriggi domenicali o per lunediare con un mazzo di carte e il fiaschetto all'ombra del pergolato. Allora, dalle candide casette
E, se nel buon tempo le notti di questa valle popolarissima sono cullate dagli usignoli, numerosi come mai altrove, essa è sempre vigilata da un paterno gigante: il Celano, monte scabro e carsico verso il golfo sipontino e di un verde nericante di boschi verso lo Starale. Esso, che per pochi metri non ha il primato dell'altezza garganica, protegge il paese e veglia sulle due valli.
Mi si consenta una confidenza: voglio bene a questo monte, che spunta a salutarmi quando anch'io, come il lavoratore della terra di monte o di piana, torno dopo le fatiche settimanali al mio paese o al mio rifugio. A chi viene da Foggia dà la precisa immagine di un enorme 'parrozzo' quando è approntato dalla buona massaia, prima di essere infornato. E la memoria sempre evoca l'alacre lavoro notturno del pane, col raschino nelle madie di operose mani materne, e fuori il grido lungo delle sollecitanti fornaie, discinte davanti ai forni.
Odore di pane e di madre: i primi doni della vita.
(1) Era la via, appunto, della nostra fatica quotidiana, ed anche delle nostre evasioni fantastiche, perché 'dietro il Convento', date le spalle all'abitato, si schiudeva per ciascuno di noi il mondo grande, il Canalone, il boschetto, il colle di San Giacomo, le Murge, e in fondo lo scenario della Laguna di Lesina, dell'istmo, del mare Adriatico, delle isole Tremiti; quindi più in là, molto più in là, il profilo maestoso della Maiella, seguito dal dente aspro del Gran Sasso, e al termine dell'arco, nei giorni in cui il cielo era più terso, la gobba cilestrina del monte Conero. (Alfredo Petrucci)
Per valli nuove
powered by social2s