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Qualesammarco, Nr. 0 del Maggio 2008
Il teatro dialettale di Mario Ciro Ciavarella
di Michele Coco

Da Qualesammarco del Maggio 2008 Pag. 14
Da Qualesammarco del Maggio 2008 Pag. 14
Puntualmente ogni anno, durante le feste di Natale, Mario Ciro Ciavarella porta in scena un suo testo teatrale in dialetto sammarchese, ogni volta riscuotendo un caloroso successo di pubblico.
Quattro i testi finora rappresentati.
Altri, come egli scrive, sono ancora nel cassetto e li riserva per i Natali avvenire.
Come autore, ma anche come regista e come attore, Mario Ciro costituisce una felice sorpresa. Ma ecco alcune impressioni ricavate dalla lettura e dalla visione in DMD. dei primi quattro testi di cui si è detto.
Jè funetoria de munne
E’ proprio vero: il comico nasce spesso dal tragico. E’ il caso di questa brillante commedia in dialetto sammarchese dovuta all’estro del suo giovane autore: Mario Ciro Ciavarella.
Il pensiero, che va sempre più diffondendosi, di una prossima fine del mondo e di un conseguente giudizio universale getta nel panico i tre protagonisti maschili. Le signore, al contrario, sono piuttosto scettiche, e manifestano il loro scetticismo con una buona dose di ironia. Il gioco drammatico è tutto qui: nel contrasto tra l’ingenuità superstiziosa di Marco, Angelo e Pasquale e il superiore distacco ironico di Antonella, Raffaella e Antonietta. Un gioco che si svolge in un crescendo di battute e di sempre nuove invenzioni. I tempi teatrali sono indovinatissimi. Le pause, che ogni tanto fanno allargare il respiro, sono affidate alla parte di una narratrice, che, come nella tradizione del teatro antico, ha la funzione di coro Che commenta le situazioni, riepiloga o anticipa per gli spettatori le fasi dell’azione. Il finale, un po’ moralistico, affidato a un prete sempliciotto, che per certi versi (soprattutto per la paura che gli fa cambiar colore) ci ricorda il manzoniano don Abbondio. sembra allentare un po’ il ritmo, che ha toccato i vertici più alti della comicità nella scena VII: la scena delle singolari litanie che vengono recitate nella Chiesa del Purgatorio con le candele in mano. Una scena d’insieme esilarante, un coup de théatre da antologia.
Quanne ce appezzuta lu demonie
E’ una farsa in due atti, in cui la fa da padrone l’intrigo. Si vuol fare sposare una ragazza dal passato non del tutto immacolato, e si dà l’incarico a una sorta di sensale.
Un sensale che non richiede un compenso in denaro, ma solo che la mamma della ragazza s’impegni a combinargli un matrimonio con una certa sbrizzoca: un personaggio che non compare mai, ma che sembra essere il vero motore della comica vicenda.
Il fine sta per essere raggiunto, ma il matrimonio, nonostante le firme e le controfirme su un atto notarile che lo configura come “inestinguibile”, non si farà. La zita manderà all’aria tutto scoprendo i raggiri messi in atto dalla madre e dall’amico Pasquale.
Anche qui si deve registrare la presenza di una scena madre: quella in cui le due mamme, del promesso sposo e della promessa sposa, elencano gli oggetti delle relative doti: una scena che diventa sempre più divertente man mano che si procede nell’indicare quelle povere cose di nessun valore, ma che, tuttavia, così come sono sottolineate, appaiono di grandissimo pregio. Una scena ricca anche di doppisensi, di sottintesi, che costituiscono il vero sale della farsa.
Anche qui c’è una sorta di voce fuori campo: una raccontatrice che commenta e dialoga col pubblico, il quale, cosi, non ha modo di distrarsi mentre si cambiano le scene.
Nel concepire le sue commedie Mario Ciro sembra già aver presente la compagnia di dilettanti (una sorta di Compagnia stabile!) cui affiderà, come regista, le varie parti. Non è una novità assoluta questa. Anche i grandi autori di teatro (Pirandello e D’Annunzio per esempio) conformavano i loro personaggi agli attori che poi li avrebbero interpretati (Marta Abba, Eleonora Duse). Senza dire di Eduardo, autore e interprete dei suoi stessi testi drammaturgici.
Mario Ciro, inoltre, si riserva quasi sempre, come faceva Hitchcock nei suoi film, una particina, una comparsata. Forse per meglio seguire, con la sua presenza, i risultati delle sue regie.
Mariteme é gghiute all’Amereca e nno’ mme scrive
E’ morto? E’ vivo? E’ rimasto fedele alla moglie? S’è messo con altre donne? Tutto il primo temposi svolge in un crescendo di battute dirette a chiarire il mistero. Un mistero che rimane tale a causa di due lettere pervenute dall’America e contenenti notizie in assoluto contrasto tra di loro. Quale delle due dice la verità? E attraverso le battute si definiscono i caratteri: la moglie in fervida attesa e poi sospettosa, e infine decisa a prendersi un altro uomo; il postino sornione, il prete ambiguo, la compagna intrigante. Sono i personaggi di un giallo-sentimentale, come ben lo definisce Mario Ciro, non raccontato, ma agito con un senso straordinario dei tempi comici.
Interessante il prologo: una sorta di pirandelliana introduzione di un pezzo di realtà nel mondo della fantasia, come se tra i due ambiti non ci fosse nessuna soluzione di continuità. Teatro nel teatro può essere considerato anche l’epilogo.
Nel secondo tempo, anziché avviarci verso l’agnizione, l’intreccio si complica ancor più. “E’ un intreccio troppo intrecciato”. Meglio in dialetto: E’ ‘nnu ‘ngiappamente troppo ‘ngiappate, esclama il povero prete di fronte a una situazione che è diventata sempre più assurda. Il marito è vivo, e tornato dall’America, ma a seguito di due cadute ha perduto la memoria, e ormai è convinto di non essere più il marito, ma il fratello della moglie. Fratello della moglie ed anche dell’antico. E così, anziché procedere all’infinito nel tentativo di sciogliere il giallo, si accetta la situazione come si è venuta determinando. Vogliamo invocare qualche modello Ionesco? Beckett?, Camus (Il malinteso), Pirandello? Sul canovaccio dell’omonima canzone popolare Mario Ciro ha saputo tessere una Commedia senza dubbio gradevole, a volte un po’ amara forse, certamente di sicuro effetto drammaturgico.
La cricca de Giggine lu ‘mbambalute
E’ una satira un po’ blasferna delle religioni predicate casa per casa.
Il Capo di una di esse e un certo Giggine Lu ‘mbambalute. Gli adepti sono degli ingenui convertiti in un batter d’occhio con la lusinga di una vita edenica. Uno di questi seguaci è il personaggio del “figlio”. A seguito di una singolare investitura sparisce dalla circolazione. Familiari e amici sono preoccupati e sperano di rintracciarlo ricorrendo a sedute spiritiche.
Del nuovo profeta non esiste che un quadro che lo ritrae. Il quadro è appeso ad una parete della casa dello scomparso e i genitori ne fanno un oggetto di devozione, senza tuttavia riuscire nel loro intento di ritrovare il figlio. La satira talvolta diventa greve, soprattutto quando prende di mira la credulità bigotta, coinvolgendo la fede certa nei miracoli. Molti sono i dubbi che si avanzano su alcune credenze, sulle Madonne che lacrimano per esempio. Il dubbio più tremendo è che la setta (già questa parola ha una accezione negativa) sia una cricca, una masnada di scrocconi che, con le borse sotto il braccio, van distribuendo riviste e depliant, che promettono un mondo migliore. Sono i testimoni di Geova il bersaglio dei Comici attacchi? Non lo si dice espressamente. E’ certo, però, che l’autore vuol prendere in giro i predicatori a pagamento, e mettere in guardia gl’ingenui che ci cascano, i deboli di cervello, gl’incerti che, insoddisfatti della loro fede, vogliono far la prova del cambiamento. Anche il maresciallo dei carabinieri, uomo di legge, finisce per farsi seguace della nuova religione.
Una vera e propria scena madre è quella della seduta spiritica, voluta e governata da una specie di stregone. Qui la comicità esplode, soprattutto quando nei momenti piu seri dell’operazione, quando cioè s’interroga Giggine, il profeta morto, per avere notizie del “figlio”, il carabiniere (e poi anche il padre dello scomparso) sgancia loffe che impuzzoniscono tutto l’ambiente.
Giggine risponde (voce fuori campo): lo scomparso è in un paese dove il vino scorre a fiumi, dove le cantine fioriscono a centinaia, dove si mangia e si beve come in una sorta di paese di Bengodi.
Spiritual chiama Mario Ciro questa farsa.
E in verità l’ultima scena, la scena madre, con tutte le giaculatorie (stramullette) che vengono recitate, alcune davvero spassose, ha l’andamento di uno spiritual e bene sarebbe, se non è stato già fatto, farla accompagnare da musica jazz, con la tromba di Louis Armstrong o lo xilofono di Lionel Hampton!

Hai mai visto gli ex voto di san Matteo? Conosci Giovanni Gelsomino?