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Da Qualesammarco, Nr. 1 di Febbraio 1994
C’era una volta ...
Li Pagghiajule
di Michele Ceddia
Nella conduzione dell'impresa agricola, nel nostro Tavoliere, tra le tante attività che si svolgevano ce n'era una che aveva una notevole rilevanza per quei tempi. Si trattava della costruzione de la meta la pagghia. Questo avveniva a seguito della mietitura e della trebbiatura dei cereali, la cui paglia veniva raccolta dallo scarico della trebbiatrice. La paglia veniva allontanata dalla macchina mediante il lavoro della maregara: un cavallo trainava dietro di sé un travicello lungo almeno tre metri al centro del quale erano fissati due anelli di ferro dove si agganciavano i tiranti e sopra il travicello era in piedi un ragazzo che guidava l‘animale, facendo anche da contrappeso. Ogni volta che passava riusciva a convogliare una certa quantità di paglia che andava a depositare provvisoriamente non lontano e comunque nei pressi della zona dove era stata localizzata la costruzione della meta. Tutto ciò finché durava la trebbiatura, dopo di che entrava in azione la squadra de li pagghiaiule, cioè di coloro che avrebbero messo su la meta stessa che era un vero e proprio capolavoro in quel genere di attività.
A seconda della quantità della paglia a disposizione veniva fatto il calcolo, così a vista, senza i numeri né matematica (tenete presente che gli operatori erano nella loro maggioranza semi, se non del tutto, analfabeti). L'orientamento era dovuto alla pratica, alla lunga esperienza.
Vedendo il mucchio della paglia lì raccolta riuscivano a valutare, ad occhio e croce, la base, che era sempre un rettangolo e di lì partivano tracciando le linee su cui veniva trasportata la paglia. Questa era raccolta in un grosso telo, racanedda, di due metri di lato circa. Ad ogni angolo c'era un pezzo di fune che si legava al centro in modo da racchiudere una certa quantità di paglia (35-40 chili), se la caricavano sulle spalle e la portavano a scaricare sul tracciato. Quando poi il lavoro andava avanti e il mucchio iniziava a prendere la forma della meta si usava la scala. Sulla costruzione c'erano sempre due operai con le forche a spargerla e pressarla e stare attenti a non deviare e non uscire fuori dalla linea già prefissata. La paglia scaricata veniva sempre mossa con le forche in modo che tutti i fili assumessero la posizione orizzontale, ad evitare la formazione di gabbiette che avrebbero reso fragile tutta quanta la costruzione. Soprattutto il centro subiva una forte pressione con i piedi e la forca non doveva mai stare ferma.
Di tanto in tanto il responsabile andava a dare uno sguardo attorno per controllare se la meta andava su diritta, senza pendere in nessuna direzione. Tutto questo fino ad una certa altezza.
Arrivati a un certo limite, cominciava a stringersi ai due lati maggiori. Qui ci voleva molta accortezza per dare, oltre alla stabilità, la sagomatura caratteristica. Così si andava avanti sino alla fine, alla “chiusura”.
Completata la meta ognuno faceva come meglio credeva. C'era chi, per evitare che il vento portasse via la paglia, ci gettava sopra la paglia delle fave, chi, invece, alle due estremità superiori, con un lungo filo di ferro, ci legava due mattoni che pendevano da una parte e uno dall'altra per far sì che il vento non la danneggiasse.
Poi le piogge autunnali pensavano a riassettare il tutto.
Attorno alla costruzione della meta ci lavoravano almeno sei, se non sette, persone le quali si distribuivano, grosso modo, così: due raccoglievano la paglia nelle racanedde (teli di tessuto pesante), due la trasportavano e altri due stavano continuamente sulla meta a distribuirla equamente, senza mai propendere da una parte o dall‘altra la qualcosa avrebbe causato delle complicazioni nella struttura complessiva.
Quella costruzione, a vederla da lontano dava l’impressione che non fosse di semplice paglia, ma di materiale più consistente, tanto era ben unita e sagomata.
Le intemperie della stagione autunnale e invernale non riuscivano a molestarla nella sua solidità e ciò nonostante continuava a svettare in alto quasi a sfidare gli elementi che infuriavano.
Intanto da una parte (lato corto), ogni giorno venivano prelevati dei cestoni (gerle) di paglia che serviva da mangiare alle bestie che a quei tempi ce n’erano molte. Riempire lu cestone potrebbe sembrare cosa facile, invece facile non era, anzi. Intanto occorreva la forca e ci volevano anche un paio di polsi duri.
La paglia così pressata, con l’andare del tempo, diveniva una massa compatta e per sradicarla con la forca c'era bisogno di una forza vigorosa.
Il prelievo andava fatto sempre dalla parte che guardava il mezzogiorno per dare le spalle al nord e cioè al fine di evitare la bora, che avrebbe danneggiato, con l'infiltrazione delle acque l‘interno della meta.
ll sammarchese è stato sempre un lavoratore forte e intelligente e per ciò stesso faceva presto a imparare a rubare il mestiere ad altri più formati di lui. Infatti a Sammarco pagghiaiule non ce n'erano molti, non c'era una categoria vera e propria. Quelli esistenti l'avevano appreso, appunto, “rubandoli” ad altri.
Ora è difficile, se non impossibile, vedere una meta ergersi al lato della masseria in quanto le bestie non ce ne sono più, ma soprattutto perché la paglia serve alle industrie della carta o per altre produzioni a noi sconosciute. Attualmente la paglia viene lasciata sul terreno al passaggio della mietitrebbiatrice, dopo ci penserà un'altra macchina a raccoglierla in blocchi ben legati con fili di ferro per essere trasportata altrove.
Un grazie a chi cortesemente ci ha aiutato a metter su questo pezzo per sviscerare ciò che poteva rimanere per sempre nascosto nel bagaglio delle dimenticanze.

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