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Da Qualesammarco, n. 4 del 1992
Vittorio De Filippis: un maestro di stile e di vita
È scomparso di recente il prof. Vittorio De Filippis, docente di Microbiologia nell’Università di Bologna e direttore, per lunghi anni, del Laboratorio Batteriologico Provinciale di Varese ove proficuamente visse ed operò.
Autore di oltre cinquanta lavori scientifici, apparsi sulle più prestigiose riviste mediche nazionali, se n’è andato in punta di piedi, senza far rumore, alieno da facili vanità, come si addiceva alla sua signorilità di animo e alla sua disarmante modestia.
Mi ha onorato della sua amicizia senza farmi sentire il peso della sua smisurata cultura anche umanistica attraverso la quale andava analizzando, sul filo della memoria e con straordinario rigore filo-glottologico, le peculiarità semantiche del dialetto di San Marco ove era nato nel [manca la data, NdR] e dove con struggente nostalgia, parafrasando re Enzo, prigioniero a Bologna, il suo cuore era “notte e dia”.
Un cittadino esemplare e uno scienziato di chiara fama, in breve, che ha fatto onore, come pochi, alla terra d’origine a cui, nella consapevole malinconia del tramonto, ha dedicato queste “piccole cose” che sottraggo alla riservatezza dell’ultima lettera per “Qualesammarco” del quale fu autorevolissimo corrispondente.
(Tona) 

Lu cunsuprinu
Carissimo Tommaso,
racconta il cronista che a Morazzone, sorta una lite in piazza tra due, uno di essi “messa mano allo stocco" al che da un vicino gruppo di giovani si mosse “uno consobrino” dell'altro contendente, che tratta fuori la spada, sedò la rissa.
Ricordo, se non erro, che al tempo in cui ero sammarchese a pieno titolo la voce consuprino era già del più profondo dialetto, mentre le persone di qualche lettura preferivano dire “cuc[g]ino”. Attualmente si dice ancora “consuprinu”, o anche questa voce è finita nel soppalco (suppigne), come “sartania” ed altre? L’alfabetizzazione superiore, il trascorrere dei tempi cancellano il nostro passato e la nostra identità. È logico: passando dal “clan” all’Europa, a macchia d'olio, si allarga la città e si procede verso l'isolamento dell’uomo.
Mi viene un dubbio: come scriverebbero i nostri vernacolisti “cunsuprinu”?
Se ricordo bene, il dialetto scritto termina le parole con la e semimuta, quasi sempre. Se così fosse, sarebbe foneticamente errato, a mio parere.
Il sammarchese è sparagnino: risparmia fiato e fatica a pronunciare. Perciò scivola dalla lettera di più difficile pronuncia alla vicina più facile, anche nel contesto delle parole.
La B è più difficile della P, e “consobrino” diventa “c.ns.prin.".
Per le vocali il discorso è simile: se pronunci nell’ordine a-e-i-o-u il suono procede dall'aperto al chiuso. Apri la bocca e viene fuori A; chiudila e viene fuori U: e ed i stanno in mezzo.
E più aperta I più chiusa. La O è la più difficile da pronunciare.
Il sammarchese sparagnino scivola così sull'attigua, più facile, U: “Cunsuprinu”. Foneticamente ciò si esprime benissimo pronunziando la consonante n che precede la desinente u, in modo stretto o largo.
La cugina dici “la consuprina”. Apri la bocca e viene fuori la A: non occorre semimuta; non fai fatica a dire A. Ma se declini al plurale cominciano i guai. I cugini “li cunsuprini”: pronuncerai la n (stretta) semimuta. Le cugine: “le cunsuprine” pronunciando la n larga, poiché la e semimuta è larga (meno della a: ma pur sempre una vocale ... larga).
Se non ti sei annoiato od irritato delle mie elucubrazioni e sei arrivato fino in fondo, correggimi.
Con affetto
Vittorio
Varese, 11. 9. ’92

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