Nel brano seguente viene descritto l'ambiente nel quale vivevano i monaci. P. Michelangelo Manicone (1745-1810) scrisse parole infuocate contro tali frati. Nella sua Orazione del 1784 (stampata nel 1785) ebbe a dire a proposito dei troppi monaci: 'L'esorbitante numero de’ Frati è la cagion distruttiva di quella disciplina, e costumanza, con cui il Fratismo nacque e crebbe. Non è possibile, che in un troppo gran numero di persone non vi abbiano sempre de’ cervelli vili, scandalosi, pazzi, e malvagi, che le disonorino, e facciano loro perdere l'antico credito. Quindi io vorrei che i Frati fosser pochi, e che fossero tutti cittadini probi, onesti, e di vita esemplare. A che tanta moltitudine di Frati, che innondano le strade? Frati assai, e costume niente'. Nella citata Orazione, a pagg. 40-41, non ebbe alcun timore a dire: 'La scimunitaggine, l'orgoglio e l'ingiustizia del defunto Provinciale ci avea in tal deplorabilissimo stato condotti, ch'io vorrei esser più tosto sotto il dispotismo orientale, che sotto il governo passato. Ma non combattiam con l'ombre, non insultiamo i sepolcri, anzi spargiamci sopra de’ fiori, e facciam pur festa. Il Provinciale ha in orrore i litigj, e i Difinitori son tutti Sacerdoti pacifici'. Per poi aggiungere, a p. 45: 'Dio di misericordia! liberate la Provincia, e la Terra tutta dai falsi virtuosi'. A proposito: il Ministro Provinciale si chiamava P. Francesco M. Torres da Manfredonia. |
Particolarmente numerosi erano i fratelli laici. Con decreto della Sacra Congregazione dei vescovi e regolari, del 2 maggio 1636, vennero aperte in Provincia tre case di noviziato: S. Martino in Pensilis, Biccari e Campobasso, esclusivamente per i fratelli laici (Nota 39).
Se ciò era segno di espansione, era anche un fenomeno preoccupante: nei superiori sorgeva il timore di non trovare i mezzi sufficienti per vivere, si prospettava la difficoltà di dare lavoro ai frati, esposti, per il gran numero, alla tentazione dell'ozio.
Il Capitolo generale di Toledo del 1606 ammoniva: 'Non habitent in quolibet conventu plures frates, quam commode et sine distractione possent sustentari' (Nota 40). Inoltre si lamentava la poco oculata e la troppo facile ammissione degli aspiranti; si riconosceva apertamente che l’Ordine francescano non era in grado di aprire nuove case, osservando realisticamente che si fondavano nuovi conventi “sotto falso zelo di pietà” (Nota 41). Nel 1649 Innocenzo X, con la bolla “Inter coetera” del 17 dicembre, richiamava la disposizione del Concilio di Trento di ammettere nei conventi un numero limitato di frati che potessero essere sufficientemente curati (Nota 42).
Disposizioni successivamente ripetute, ma sempre rimaste lettera morta, perché e gli Osservanti e i Riformati sapevano trovare vie e scorciatoie per eludere i decreti, e, con l’aiuto di marchesi e di baroni, aprire nuove case e accogliere nuovi postulanti. Forse mai, come nei secoli XVII e XVIII, la preoccupazione del numero fu così assillante nei Ministri provinciali. Ciò era certamente a scapito della qualità, si sa che il numero esorbitante implica zavorra.
La Provincia di S. Angelo, come le altre, risentiva gli effetti di una legislazione non sempre uniforme e stabile. Non desta sorpresa se essa fosse governata secondo il particolare talento di un Ministro provinciale. Dal Cinquecento fino alla rivoluzione francese si andò accentuando una forma di regime aristocratico. Prima tutti i sudditi potevano far sentire la loro voce mediante i discreti che inviavano ai Capitoli provinciali. In seguito, i soli superiori erano gli elettori predestinati.
Alla relativa mancanza di uomini esperti, a superiori talvolta improvvisati, si volle porre rimedio con l'istituzione dei “definitori perpetui” o “padri della Provincia”. Facevano parte di questa speciale categoria gli ex provinciali, gli ex segretari generali, gli ex definitori e procuratori generali, dichiarati “membri perpetui” del definitorio provinciale (Nota 43). È facile comprendere come questi facessero sentire la loro influenza nel governo della Provincia.
Nel clima seicentesco, sotto il dominio spagnolo, si ebbe la febbre dei privilegi e delle onorificenze, che si moltiplicavano in abbondanza. Nell'ingranaggio della vita feudale, come i patrizi amavano pavoneggiarsi del loro don e della qualifica di magnifico, così anche nei frati 'la vanità e la boria prendevano il posto - per fortuna non sempre - delle virtù virili e creatrici'. Gli ex Ministri provinciali, come gli ex Definitori generali e i lettori godevano di particolari privilegi, con l'immancabile diritto di precedenza. Né mancavano frati che indossavano abiti speciosi di rasette o impannati (Nota 44), sempre gelosi e puntigliosi nel rivendicare i titoli onorifici.
Alcuni fratelli laici non contenti del titolo di devoto religioso, volevano il titolo di reverendo. Si cita il caso di quei fratelli laici Alcantarini, che si riunirono nel convento di Castellana per discutere e formulare una petizione che mirava ad avere la precedenza sui chierici studenti e il titolo di reverendo. Inviarono la petizione al Ministro provinciale, non venne accolta. Si rivolsero al Ministro generale e non furono ascoltati. Mandarono la petizione alla Sacra Congregazione dei vescovi e regolari, ma non ebbero risposta. Si rivolsero al viceré di Napoli e furono esauditi, e si chiamarono reverendi (Nota 46).
Per noi smaliziati del secolo XX, l'episodio può indurre al sorriso, ma per quei frati appariva un punto d’onore! Era la conseguenza di una mentalità che permeava la vita di relazione, specie con la Spagna in casa, che 'colorì alla spagnola il lusso, le ambizioni, le gare di precedenza, mercé i suoi cerimoniali, il suo fasto, il suo modo d'intendere la dignità e la gravita, portando la vita verso l'estrinseco e distaccando la forma dalla sostanza'. (B. Croce).
Non una volta si manifestò nei Capitoli la volontà di reagire a tale sistema, ma in realtà le cose, sino alla soppressione del 1866, non cambiarono, perché quelli che avrebbero dovuto abolire tali privilegi e simili onorificenze, tenevano a conservarli (Nota 47).
Nella moltitudine dei frati che popolavano i conventi poteva verificarsi il caso di delinquenza. Per i delinquenti vi erano pene che giungevano al massimo, a quelle della tortura, del taglione e della condanna ai triremi.
Già le Costituzioni Narbonesi (1260) parlano della pena del carcere (Nota 48).
Anche per le mancanze disciplinari, nella vita interna dei conventi, erano comminate pene che, oggi, non si pensano neppure. Per esempio: chi non partecipava alla meditazione in comune, doveva farsi la disciplina, e se il caso si ripeteva, il frate veniva privato di voce attiva e passiva per un triennio.
La stessa cosa era per chi, non legittimamente impedito, non interveniva al coro per la recita del divino officio.
Se uno, senza licenza in iscritto del Ministro provinciale, indossava una camicia in lino, doveva presentarsi al superiore con la camicia appesa al collo, accusare la colpa, e poi inginocchiato sopra la camicia stare a pane e acqua.
Il frate che usciva dal convento doveva chiedere il permesso al superiore, e al ritorno chiedere la benedizione. Se non lo faceva gli si proibiva di uscir dal convento per sei mesi, e fare un pane e acqua in ginocchio.
La corona dei capelli non doveva oltrepassare la larghezza di tre dita, ed era permesso di radersi la barba ogni quindici giorni (Nota 50).
Storiografi che si compiacciono ironizzare intorno ai frati o ai monaci del Sei e Settecento non sentono odore di santità nei conventi, i quali, purtroppo, erano spesso il ritiro obbligato di giovani cadetti, e tra questi, parecchi malcontenti. Le comodità e i privilegi concessi ai frati, alcune figure romanzesche o romanzate contribuirono a screditare la virtù nei chiostri.
Eppure ve n'era più di quanto si creda. Chi si fermasse a giudicare una Provincia monastica dai difetti e dalle diatribe interne dei frati perverrebbe a false conclusioni. I difetti sono della natura degli uomini. Ciò nonostante, non va ignorato il gran bene compiuto dai religiosi. Bene non ancora messo in evidenza nella sua reale dimensione, perché i documenti di archivio registrano soltanto casi straordinari. Ma vi è tutto il lavoro ordinario dei frati attraverso la parola e l'esempio che, pur non descritto in documenti, è la forza della Provincia monastica e spiega la grande popolarità dei francescani. La difesa coraggiosa degli umili, la carità spesso eroica, trovarono nei militi ignoti del francescanesimo un'esemplare testimonianza.
Il Seicento non è solo ampollosità e svolazzi, enfasi e cattivo gusto. A dire l’idealità di questo secolo bizzarro basterebbe la lotta per il trionfo dell’Immacolata, per il quale i francescani di Puglia non furono da meno degli altri. Particolari devozioni, pratiche ascetiche, immagini sacre, altari intarsiati nelle chiese della Provincia richiamano alla mente l'amore di quei frati per la 'Tutta Bella' [Tota pulchra, ndr].
Le chiese attuali della Provincia sono in gran parte dei secoli XVII e XVIII, quando furono costruite o restaurate: chiese a curve pronunziate con volte a botte, altari di legno finemente indorato, con volute capricciose e colonnine a spirale; cori di legno; dipinti su tela denotano impegno di quei frati per il decoro delle chiese.
Dai conventi uscivano periodicamente i predicatori. L'eloquenza sacra ha avuto il suo marinismo e antimarinismo. Nessuno sfugge al clima del proprio secolo, gli oratori meno degli altri, per la rispondenza che devono suscitare nel pubblico.
Altra opera del Ricci: 'Sacre imprese nelle quali in particolare si tratta delle grandezze ed eccellenze della Beatissima Vergine, della divinità di Cristo, delle prerogative di S. Giovanni evangelista, di S. Pietro apostolo, dell'innocenza e stimmate di S. Francesco, delle glorie del p. S. Antonio e di altre materie fruttuosissime. Opera per la copia dei concetti e per le autorità dei Santi Padri non solo utile ma necessaria a tutti i predicatori, e di grande profitto ai professori di belle lettere. Venezia, Barba, 1654'.
Chi avesse la pazienza di leggere queste opere, dai titoli un pò pretenziosi, non troverebbe profondità di pensiero, ma assisterebbe ad un giuoco pirotecnico di parole, d'immagini le più impreviste, di paragoni i più audaci, di metafore le più capricciose. Un piccolo saggio dalle 'Descrittioni' : la bella e leggiadra primavera è la 'balia amorosa delle erbe', la rosa 'la più maestosa reina dei stellati campi', il pavone 'vago e pomposo uccello ingemmato di stelle e ricamato di fiori qual bello aprile', l'uomo 'specchio delle celesti fattezze' e i suoi occhi sono 'nidi ove si ricovera il bel tesoro della luce, e dove annidano gli amorosi sguardi di calamite dei cuori, chiare stelle, preziosi zaffiri e fabri di alti desii, e campidogli amorosi in cui con alta guisa trionfano odio e amore, amorose fucine ove son fabri i cuori, martelli i sdegni, incudine i petti, ferro le passioni, e vampe gli affetti; gli occhi luminose finestre del palagio reale dell’humano composto'.
Un'arida tessitura verbale con frasi a incastro, a congegno. Insomma retorica consumata, pienamente rispondente all’esaltata poetica del secolo.
Da simile barocchismo oratorio non si può arguire tiepidezza di fede negli oratori e negli uditori; enfasi e teatralità rispondevano al gusto dei contemporanei. Noi abbiamo mentalità estetica diversa ed altra preparazione culturale. La vita religiosa in quel tempo era sincera nella sostanza, anche se rivestita di un formalismo alla spagnola.