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Da Qualesammarco, n. 4 del 1993
Pitali tra cronaca e storia
In tempi così volgari e truffaldini sembra incredibile che possa esserci chi ancora s’indigna se trasformo Palazzo Badiale in Palazzo Pitale.
A ben vedere l’indignazione ha chiare origini e motivazioni ben precise che però non riescono a nascondersi dietro un furbesco disappunto lessicale né bastano teatrali momenti di fibrillazione cardiaca, consunto retaggio guittesco di altre epoche, per il recupero di un’immagine perbenistica del Palazzo al quale ci si attacca come mignatte per succhiarne fin l’ultima goccia di sangue.
Mignatte cui si deve, tra l’altro, lo stupro dello Starale, un devastante dissesto finanziario e, soprattutto, un quotidiano esercizio di nefasta influenza politico-clientelare su di una massa di gente, storicamente adusa a belare, non avendo ancora acquisito, agli albori del terzo millennio, né consapevolezza né dignità di popolo.
Ma occorre tornare, piaccia o no, al pitale con la riesumazione di un “illustre” episodio di vita nazionale.
Negli ultimi mesi del governo giolittiano, Gabriele d’Annunzio, schifato dal “cicaleccio” parlamentare, osò, pilotando un traballante biplano, rovesciare su Montecitorio un vaso da notte colmo di “fetida orina" con il deliberato proposito di scuotere dal torpore morale le italiche coscienze.
La diuretica vicenda romana non si sarà del tutto dissolta nella memoria degli Abruzzesi che, conosciuto l’arresto dell’intera giunta regionale aquilana, si diedero appuntamento nella piazza antistante il Palazzo della Regione i cui vetri furono assogettati a severo collaudo dal tiro incrociato di “un imprecisato numero di pitali di latta e di creta".
La singolare protesta trovò vasta eco sulle colonne della stampa sia locale che nazionale tanto da far aprire, in una delle reti televisive berlusconiane, una puntata dell’Istruttoria con il suo polisarcico conduttore in manette e con tanto di pitale nella mano destra.
Se, come ardentemente mi auguro, la protesta diventerà epidemica c’è speranza che le “spregiate Crete" (Giuseppe Parini) travolgeranno, con irresistibile forza d’urto, diversi isotteri indigeni trasformatosi, per misteriosa legge evolutiva, in famelici bipedi politici alla spasmodica ricerca di un osso pubblico da rosicchiare.
Ciò nonostante mi ostino a nutrire fiducia nello Stellone d’Italia ma, per maggior sicurezza, ho già noleggiato un “Canader” pieno zeppo di liquame variamente assortito.
Passi carrabili
L’originale idea di sostituire la privata segnaletica, per il platonico rispetto dei passi carrabili, con quella numerata badiale, mi sembra del tutto congeniale nell’ambiguo modo di pensare di chi ci amministra.
In altre parole, da una parte s'intende accertare quanti sono gli abusivi (e su ciò non ci piove), dall’altra invece si continuerà a non curarsi delle continue incazzature di coloro che, pur pagando, riescono ad ottenere, per congiuntura astrale, saltuario accesso alle proprie rimesse a causa dell’altrui incivilità comportamentale.
E se si prova a reperire chi deve far rispettare la norma, ci si ritrova, subito dopo, nella medesima situazione di impedimento di prima con il sovrapprezzo di un “coso” a due piedi che ti guarda in cagnesco (e su ciò i chicchi di grandine raggiungono la grandezza di un uovo).
Con i chiari di luna municipali, offuscati da sequestri cautelari e da intimazioni legali di pagamenti per cifre astronomiche, parlare di carro-attrezzi, di personale addetto alla forzosa rimozione di macchine e di custodia delle stesse, significa vivere, me ne rendo conto, nel mondo iperuranio.
Ma applicare con decisione, senza appannamento cioè di vista e senza condizionamenti ambientali, gli articoli del codice stradale, rendendo le multe sempre più salate, è doveroso e possibile anche per evitare di far giungere, nel prossimo anno, sul tavolo del sindaco sacrosante diffide con allegate cartelle esattoriali inevase.
Proteste a “gogò”
La certezza d’aver prodotto, dopo il ventennio fascista, una democrazia che di leggieri consente ad avventurieri, lestofanti e voltagabbana di ogni genere e colore politico di condizionare la vita e lo sviluppo della locale popolazione, ci riporta indietro nella storia di non so quanti secoli.
Sembra che i grandi meridionalisti da Fortunato a Salvemini, da Croce a Dorso, abbiano inutilmente perduto tempo e fosforo nell’indicare alla gente del Sud quali dovevano essere i percorsi da compiere per uscire dal plurisecolare tunnel della miseria e dell’ignoranza. Tutti, sia pure con valutazioni diverse, concordemente avvertivano il pericolo di una nutrita presenza nelle fila dei raggruppamenti politici di “Cocò” che, soprattutto nei paesi, avrebbero inceppato, assiderandola, l’essenza stessa della democrazia.
La realtà è sotto gli occhi di tutti.
Il preambolo era necessario per spiegare, calando di tensione ed esemplificando, alcuni episodi e fatti casarecci.
Sono stato uno dei mille sottoscrittori della protesta contro la processione delle fracchie che sta, di anno in anno, trasformandosi in una plebea, blasfema e assurda manifestazione che di religioso ha solo l’apparenza.
E di ciò dobbiamo essere grati al Palazzo, alla Pro Loco e a fumosi ecologisti affetti da dissenteria parolaia.
Sono inoltre tra quelli che protestano contro il parcheggio delle macchine fin sui marciapiedi di Corso Matteotti il cui lastricato, realizzato all’indomani dell’unificazione nazionale, con basole di origine eruttiva, costituiva un indiscusso vanto cittadino che la “bestia comunale” (Ruggero Moscati) ha ridotto al rango di un’accidentata mulattiera cara agli amici calzolai.
Qualcuno ha fatto i conti di questa “bestialità” che è costata alla comunità ben ottocento milioni di lire degli anni Sessanta.
L’ombra di un foggiano Di Pietro quando si materializzerà?
Ho infine apposto la mia firma per tentare di contrastare coloro che credono di essere gli indiscussi padroni del borgo ai cui abitanti si possono irnpunemente rompere timpani e zebedei in occasioni di matrimoni, prime comunioni e, quanto prima, di nascite, cresime, compleanni, elezioni di assessori, di sindaci e di quant’altro.
Ma perché il quadro non abbia più bisogno di ulteriori apporti descrittivi, va pure aggiunta una spruzzata di sedicenti centauri che esaltano la loro cosmica imbecillità con il cavalcare “vespe" e moto prive di filtri e silenziatori nei tubi di scappamento. Come i labili di mente hanno bisogno di manifestare la loro esistenza con un’assordante colonna sonora di meccaniche pernacchie.
Se lo spettro di Voltaire si aggirasse oggi per le vie di questo disgraziato fondo vallivo non esiterebbe ad esclamare: ”C’est la cour du roi Petou”.
Provinciali di città
Cosma Siani, cittadino del mondo, poeta, critico e docente di lingua inglese, pur operando da diversi anni nelle scuole della capitale, non ha ancora spezzato il cordone ombelicale con il natìo casale cui, piacevolmente assiso sulle punte piramidali dei più alti obelischi romani, guarda con aria di grande degnazione.
Di tanto in tanto infatti ama compilare bilanci consuntivi sull’eccessivo fervore culturale ed editoriale di compaesani affetti, per lo più, da reciproci moti di stizzosa invidia di mestiere,
sciorinando, ad un tempo, diseguali sfilze di annotazioni critiche e bibliografiche che gli procurano gratuite acquisizioni di libri e di opuscoli di vario contenuto.
Non mi troverà di certo nel novero degli offerenti per la semplice ragione che l’aristarco cosmopolita è del tutto estraneo alle problematiche storiografiche, delle quali, se di buzzo buono, al massimo, come le lavandaie di una volta, può solo mettere in elenco qualche “refuso” misto a “tic”.
Tra gli “intellettuali” made in San Marco viventi in aree metropolitane è tra quelli che (in realtà si tratta di un ben assortito campionario capitolino) reputano il certificato di residenza suprema garanzia profilattica contro “solipsistiche” contaminazioni provincialesche responsabili, si badi bene, per “insondabili ragioni neurologiche” (neurologiche: proprio così, amici imbrattacarte) della folle spinta di verseggiatori e prosatori indigeni tra le grinfie di oscuri tipografi nelle cui tasche miseramente affogano costose velleità letterarie fino a ieri alimentate anche dalla pubblica carità, anacronistico retaggio di nefasta memoria borbonica.
Neurologia a parte, mi sembra per il resto difficile dargli torto soprattutto se si considera che fenomeni del genere trovano puntuale riscontro tra la gente che si ostina a vivere ai margini della civiltà metropolitana.
Acuta annotazione che attinge vertici speculativi mai sfiorati dall’umana genialità.
L'Accademia dei Praticoni
A chi, come me, vive nello splendore della solitudine ideologica, in una comunità storicamente illiberale, non desta punto meraviglia l’ibrido connubio dei professionisti della politica, sempre tesi alla spartizione partitica del potere in funzione del quale conquistano facilmente spazi di pubblica e privata mangiatoia.
Il problema è di trovarseli paradossalmente in casa grazie alla locale emittente televisiva che, nonostante tutto, continuerò a guardare con giustificata preoccupazione. È agevole, per chi mostra o fa finta di avere scarsa dimestichezza con i valori semantici del glossario nazionale, prendere solenni abbagli interpretativi da mutare poi, in perfetta malafede, in asserzioni di lesa maestà.
A confondere le idee di tanta brava gente non occorre sforzo: il classico “Ha detto male di Garibaldi” è sempre a portata di mano per chi non vuole accettare la dura realtà dei fatti.
Mi sono, lo confesso, per un attimo, illuso di trovare nei gestori dello strumento informativo degli alleati sensibili ai problemi della lingua (eccezionale mezzo tecnico-espressivo per fare Storia e non aria fritta) ridotta, tout court, a “canigghia” (la Crusca è ben altra cosa) dall’opinionista, convinto assertore ormai della metamorfosi dello stesso in “contenitore di spazzatura”.
Il rispetto per gli operatori ecologici è d’obbligo, ma la scelta ridurrà, con buona pace dei Migliorini e dei Devoto, l’intera valle ad un ciclopico immondezzaio lessicale.
Lucidamente consapevole dei miei limiti intellettivi, evito i marosi della Storia nei cui periferici porticciuoli saltuariamente approdo quando v'è bonaccia, ma non per questo sono disposto ad agitare turiboli per consumare incenso sulle are di nullità vestite da uomini che credono di impartire, dalla cattedra dell’incompiuto “Canalone”, lezione di vita e di morale ad un malcapitato della mia specie.
Liberale da sempre sono disposto, a sconto del mio furore giacobino, ad offrire le mani alle inevitabili bacchettate di laici e di cattolici pronti al patibolo per la salvezza della piccola patria, di incorruttibili “parvenus" a prova di bomba, di ben rimpannucciati perbenisti di facciata e di una caterva di sesquipedali analfabeti che mi daranno del passatista, del retrogrado rompiscatole incapace di vedere oltre la punta del naso.
Per tutti costoro mi pento e mi vergogno d’aver lottato per un ventennio, da solo, tra un oceano di intellettualistiche insinuazioni occupazionali, senza saper far di conto, contrariamente a collaudati sparagnini in grado di cavare, a pro del municipalesco erario, da un mazzo di rape il sangue di un baiocco bucato, e senza ricoprire cariche badiali, per la creazione della civica biblioteca, per la nascita, grazie all'on. Salvatore Valitutti, della seconda scuola media e per l'apertura, grazie all’on. Manlio Livio Cassandro, di una delle sedi coordinate dell’istituto professionale.
Si salda così alla realtà effettuale di un paese alla deriva l’evangelico precetto delle margherite che qui, più che altrove, trova radicato riscontro della sua perenne vitalità.
Tommaso Nardella

Hai mai visto gli ex voto di san Matteo? Conosci Giovanni Gelsomino?