L'Artigianato locale della pietra e del marmo
Nelle epoche successive siffatti arnesi sono sostituiti con quelli in metallo, man mano che se ne scopre l'esistenza e l'uso dei vari elementi.
Ma non per questo cessa la lavorazione e l'impiego della pietra. Se mai si incrementa, dopo l'abbandono delle caverne e la realizzazione dei ricoveri all'aperto, sia di tipo abitativo che cultuale: costruzioni megalitiche, ecc.
Con l'affermarsi delle prime civiltà nella storia, l'attività lapidea si perfeziona, estendendosi in ogni angolo della terra. Si costruiscono città, palazzi, monumenti e tanti altri arredi architettonici e scultorei estremamente significativi ed apprezzabili .
L'arte della pietra raggiunge l'apice nel periodo classico greco-romano e successivamente nel Rinascimento. Resiste sino a buona parte di questo secolo, per scomparire quasi del tutto in questi ultimi decenni con l'avvento della civiltà del cemento e degli altri materiali edilizi.
Un tempo la sua preziosa opera era assai rinomata e ricercata sia dal piccolo pubblico di borghesi danarosi che dalla gente umile. E questo non a torto, in quanto la produzione artistica lapidea contava tra i suoi adepti il fior fiore dell'artigianato locale. Tanto da lasciare il segno del loro intervento anche altrove, su richiesta o per emigrazione.
Che quella dello scalpellino fosse un'arte assai diffusa ed operosa, lo testimoniano non solo i portali, di cui si dirà, ma anche gli altri abbellimenti lapidei di case, palazzi e cimitero pervenuti fino a noi e realizzati in tempi diversi.
Tutto questo fino agli anni cinquanta, soppiantato successivamente, come in altre realtà, dall'avvento del cemento e delle macchine.
Per saperne di più sull'argomento, abbiamo raccolto alcune testimonianze presso un anziano scalpellino del luogo, forse l'ultimo sopravvissuto tra quelli che in passato costituivano una apprezzata e numerosa categoria. Si chiama Bonifacio Tantaro, classe 1915. Ecco il suo racconto.
Il nostro uomo comincia ad apprendere i primi rudimenti dell'arte lapidea presso il laboratorio scuola dei fratelli Pasqualino e Ciro De Sol (figli di Luigi e di Maria Carolina Saracino, nati rispettivamente il 3 giugno 1877 e il 10 gennaio 1885; Pasquale, che abitava in Via Sant'Agostino 11, muore nel paese natale il 3 dicembre 1959), considerati a quei tempi due valenti specialisti. Il primo, diplomato alla Scuola d'Arte di Firenze, esercita con passione la sua funzione di maestro e di artista, conquistandosi con i suoi acuti suggerimenti la stima dei dipendenti ed arrecando soddisfazione ai clienti con le sue originali creazioni.
Non è da meno il fratello Ciro, che però, nel 1935, è costretto a lasciare la sua terra per andare in Africa Orientale, dove mette a frutto la sua esperienza di valente artigiano in campo lapideo, impegnandosi, e durante la guerra e dopo, a costruire ponti, case ed altre opere in Somalia, in Eritrea ed in Etiopia.
Lascia la sua orma artistica perfino nel Palazzo reale del Negus ad Addis Abeba. Torna in paese pressoché distrutto fisicamente nel 1964, per trasferirsi definitivamente assieme alla famiglia, a Foggia, dove lo coglie la morte il 10 maggio 1969.
Di questi ultimi ce n'erano di diverso tipo ed uso. Quello a taglio lungo serviva per sgrossare e squadrare; quello a mezzo taglio per fare comici in rilievo, scanalature, modanature, figure a bassorilievo, ecc.; il terzo, detto a pettine in quanto formato da diversi denti, massimo dieci, occorreva per effettuare un ulteriore sgrossamento e la bocciardatura dei pezzi; c'era, poi, lo scalpello a sgorbia (Nota), indispensabile per raffinare gli elementi curvilinei e semilevigare la materia; infine, venivano i punteruoli di grossezza e lunghezza variabile, utilizzati per fare i buchi. Per la levigazione si faceva ricorso alla sabbia ferrosa, alle pietre smeriglie di varia grana, alla pietra tenera o mola, alla pomice e, per ultimo, all'acido salicilico in polvere, che veniva spalmato mediante un tampone imbevuto d'acqua.
Dapprima si segnava sul masso il tracciato nella misura desiderata con una matita. Quindi, lungo di esso con lo scalpello a pitte palumme, ossia a petto di colombo, si incideva un canaletto profondo qualche centimetro. Poi, distanziati gli uni dagli altri, si eseguivano lungo il suddetto percorso dei buchi di circa dieci centimetri. Parimenti si ripeteva il medesimo lavoro sul fronte antistante del masso, là dove compare la venatura di distacco. Si immettevano negli anzidetti buchi delle mollette in acciaio, con dentro a mo' di cuneo un punteruolo di pari lunghezza. Si cominciava, quindi, a battere con la mazzuola (Nota) su questi ultimi un colpo per volta di uguale forza, alternativamente, sia su quelli disposti lungo la superficie piana sia sugli altri preparati sul fronte. Così spingendo le molle si aprivano sempre di più, procurando ad un certo punto il distacco netto della zona di lastra prescelta.
Parimenti si procedeva per tutti gli altri pezzi richiesti per la bisogna. Il tutto veniva, poi, caricato sul traìno (carro a trazione animale molto resistente).
Una volta giunti in paese, ripetendo in senso inverso la tecnica su esposta, si depositava il carico in appositi spiazzi all'aperto. Solo nella cattiva stagione o quando bisognava soddisfare richieste di lavori più raffinati e di lunga durata, il materiale, in tutto o in parte, veniva scaricato direttamente presso le botteghe, come quella dei De Sol.
Gli anzidetti depositi all'aperto sino ai primi anni del secondo dopoguerra si trovavano in Largo Piano, dalle parti dove sorge attualmente il distributore di benzina Agip. Ed è qui che si scalpellava dall'alba al tramonto di ogni giorno.
Spesso gli addetti, per sfuggire alla calura, si rifugiavano sotto l'ombra di olmi, che ora non ci sono più.
Da queste scomode ed improvvisate fabbriche uscivano perfettamente forgiati i vari componenti di porte, portali, balconi e finestre, le pietre per i cantonali, soglie (Nota), scalini, ecc. Per ogni singolo pezzo, la prima lavorazione consisteva nell'individuazione e nella scheggiatura del piano. Si agiva con scalpelli a taglio o a mezzo taglio. Qualche volta si usava la gravina (Nota) per abbreviare l'operazione.
Per lo più tutto ciò si verificava allorché si avevano di fronte commissioni o lavori di poco conto o di scarso valore artistico.
Dai pezzi usati per realizzare i piedritti (Nota) o gli stipiti (Nota) si ricavavano, seguendo la medesima procedura di cui si è detto, le basi (Nota) e le cimase (Nota) o imposte (Nota) che dovevano sorreggere l'arco o l'architrave. Anche queste ultime, come le basi, erano soggette ad interventi scultorei e trasformate a forma di capitello (Nota).
In altri casi, i predetti elementi componenti il portale venivano sottoposti ad una ulteriore levigazione raffinata e provvisti di bellissime cornici e modanature (Nota).
Le pietre usate in paese provenivano in larga parte dalle cave del circondario e variavano in termini di compattezza, di colore e di spessore. Per esempio, quelle prodotte nelle cave sotto Borgo Celano presentavano delle venature consistenti. Per cui spesso la lavorazione era soggetta a facile rottura. Così si dica per quelle provenienti dalle cave delle Matine di San Giovanni Rotondo, mentre non offriva alcun problema negativo il medesimo materiale proveniente dalla Cava li pizze (contrada Centopozzi) in agro di Rignano. Tale pietra era
ritenuta la migliore, perché - secondo quanto afferma Tantaro - 'era chiara e compatta e il giacimento a strati offriva lastre di vario spessore'. Dal suddetto materiale, a suo dire, si poteva realizzare di tutto: soglie per balconi aggetti, stipiti per porte, portali, finestre, archi, architravi, ecc.
Per i lavori più pregiati - ci spiega il nostro uomo - si faceva ricorso, invece, alle pietre di Apricena e di Trani o a quelle scoperte sporadicamente dalle parti di Coppe Casarinelli, a qualche chilometro dal paese. Per il resto delle lavorazioni in marmo (mensole di comò, buffet, statue, pavimenti, ecc.) si ricorreva esclusivamente alla produzione esterna (Carrara, Verona, ecc.).
Secondo Tantaro, nel novero degli scalpellini più attivi e rinomati che operarono in paese nel medesimo periodo vanno inseriti: Alfonso Aprile (nato a San Marco il 24 ottobre 1906, è attivo nel suo mestiere in paese, dove abitava in Via della Vittoria 45, fino al 1961, anno in cui emigra negli U.S.A., stabilendosi a New York, dove scompare nel 1993); Angelo La Riccia (nasce a San Marco il 6 maggio 1904, ivi viene a mancare il 29 del medesimo mese nel 1983; abitava in Via Zingari nel quartiere San Giuseppe); Angelo Gravina (viene alla luce in paese il 14 maggio 1899, muore il 2 ottobre 1962).
Infine, andrebbe evidenziato con una ricerca più approfondita il ruolo svolto dal medesimo personaggio nei lavori di rifinitura eseguiti presso i palazzi del Municipio, della Prefettura e alle case popolari di via San Severo e di via Lucera nel Capoluogo dauno.
Per la lavorazione del marmo, il discorso, come accennato, si presentava un tantino diverso, a causa dell'importazione della materia prima. Vediamo che cosa ricorda in merito il nostro uomo.
Per quanto riguarda i lavori in marmo - egli racconta - la richiesta si mantenne costante fino agli anni '50. Dopo di che iniziò la parabola discendente, per via di mutate esigenze e l'immissione sul mercato di prodotti a scala industriale.
Allo scopo si sceglieva dapprima il materiale adatto al colore e alla funzione del mobile e soprattutto rispondente all'esigenza del cliente.
Tra le qualità trattate, c'era il verde di Prato, il nero venato di bianco di Porto Venere (La Spezia), il giallo di Siena, il rosso di Verona e, infine, il bianco o il bianco grigio di Carrara. Quest'ultimo di solito serviva per abbellire, a poco prezzo, la mobilia della gente più povera.
Si dava seguito poi alla lavorazione del materiale - a quanto ci confida l'anziano scalpellino - mettendo in atto la stessa tecnica usata per la pietra: taglio, sgrossamento, levigazione e lucidatura.
Per quanto attiene all'ultima fase, va evidenziato che siffatta operazione veniva eseguita in vario modo, a seconda dei marmi. Per esempio, quando la materia era compatta, come nel caso del marmo di Carrara era sufficiente la sola levigazione-lucidatura. Al contrario, quando ci si trovava di fronte a marmi colorati, assai spesso porosi, al fine di renderli uniformi, si agiva con lo stucco, facendo sciogliere sui rispettivi piani a vista un miscuglio impastato di cera vergine e di colore appropriato e assai vicino a quello naturale dell'oggetto sottoposto a trattamento.
Per saldare le fratture ci si avvaleva, invece, della gommalacca (Nota) a scaglia, con la quale si intingevano e si connettevano le parti interessate, dopo aver riscaldate entrambe con carboni accesi. E Tantaro? Oltre al suo impegno in opere di scuola e di collaborazione svolto in gioventù a fianco ai suddetti maestri, sono da segnalare talune opere significative e degne di essere ricordate, realizzate quando ormai da tempo aveva abbandonato il mestiere di scalpellino.
Altri due simili sono realizzati al tempo del frontismo, per adornare i tavoli della locale sezione e della Federazione foggiana del Partito Socialista Italiano.
Ovviamente sull 'oggetto è scolpito a bassorilievo il simbolo e il motto del partito di Nenni.
Un'altra interessante testimonianza di storia orale sull'argomento ci viene fornita dalla Signora Angela Tiani (classe 1909), insegnante elementare in pensione, pure originaria di questi luoghi, ma residente dal 1936 a Rapallo.
Anch'ella appartiene ad una famiglia di scalpellini e di muratori-costruttori di antica tradizione: i Tiani.
Lo fu per primo il suo avo Giovanni che, proveniente da Minervino Murge, si stabilì a San Marco agli inizi del secolo scorso. Lo fu il nonno di lei Vincenzo (classe 1840 e deceduto nel marzo del 1910). Lo furono i figli di quest'ultimo, Giovanni, Giuseppe e Michele.
Vincenzo, data la sua bravura e l'innata predisposizione all'arte lapidea, fu mandato a Napoli, a loro spese, dai marchesi Moscatelli ad affinare presso una apposita scuola il mestiere. Lui ritornò in paese, dopo aver conseguito il diploma.
Lo stesso, come risaputo, è stato demolito qualche decennio fa, per fare posto a nuovi e più funzionali complessi residenziali a base di colate di cemento. Per cui dell'opera del nostro scalpellino non è rimasta alcuna traccia.
Successivamente i Tiani fondarono un'impresa edilizia, a gestione familiare, che per alcuni decenni a cavallo tra i due secoli operò sotto il loro nome a costruire case, mettendo su un nuovo quartiere allo Strascino (via Trento, via Trieste, Via Carlo Di Renzo, ecc.) ed altri fabbricati a Porta San Severo.
Non fu da meno nell'arte lapidea il figlio Michele, padre della nostra interlocutrice (n. a San Marco in Lamis il 7 luglio 1878 ed ivi deceduto il 4 gennaio 1950). In primo luogo, l'anziana donna ci dice con un certo orgoglio: mio padre fu bravo e valente nel suo mestiere al pari dei De Sol, insieme considerati come i migliori scalpellini del paese. E questo non a torto.
Infatti, Michele, come Ciro De Sol, lasciò la propria impronta artistica in terre lontane, addirittura in Cina, allorché, come volontario partecipò negli anni 1900-1901, alla spedizione internazionale contro i boxers, in cinese pugni patriottici. Si trattò, come risaputo, di domare una rivolta xenofoba scoppiata a Pechino e dintorni, capeggiata dall'imperatrice Tzu Hsi. Rivolta che aveva causato stragi e morti prevalentemente in campo straniero. Vittima illustre era stato per primo l'ambasciatore tedesco Keeteler. La spedizione, cui aderì anche l'Italia, era guidata appunto dall'imperatore Guglielmo II. La truppa italiana, composta da 1882 militari, tra cui il Tiani in veste di soldato del genio, partì dal molo di Napoli, sotto la direzione del colonnello Vincenzo Garioni il 14 luglio del 1900, salutata dal re Umberto I (E. Biagi, Cina, Milano Rizzoli, 1979, pp. 195-196).
Il giovane Tiani entrò subito nelle simpatie del suo comandante di compagnia, il tenente Modugno, ingegnere edile di Molfetta, che si ricordò di lui, una volta domata la rivolta, per la costruzione del palazzo dell'Ambasciata Italiana, dove l'interessato non solo si distinse come caposquadra, ma si adoperò a realizzare opere lapidee, di cui non si è in grado di appurare la quantità e qualità.
Ritornato in paese, il Tiani trovò la sua sistemazione definitiva e continuò l'opera sua come scalpellino e mastro-muratore all'interno dell'azienda familiare, di cui si è sopra accennato.
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