Occorrono tante fonti quanti sono i ceti, quante sono le categorie, quante sono le generazioni. Solo così si ha un quadro veramente completo dello stato di una lingua, della sua storia, della parabola che la lingua va percorrendo nel giro degli ultimi settanta-ottant'anni.
E così arrivando a San Marco in Lamis, si pensa di mobilitare tre fonti: un dodicenne appartenente a famiglia che vive tra la campagna e il paese, utilizzato solo per un saggio della generazione piú giovane; un uomo di mezza età (utilizzato per tutti e quattro i questionari), che dice di essere fondamentalmente fabbro, ma di fatto è vissuto interessandosi di un po' tutte la attività del paese, dei lavori di campagna, della bottega ed anche (e parrebbe moltissimo) del ricamo di chiacchiere che gli uomini di tutte le età si consentono di fare una volta assicuratasi la disponibilità dell'essenziale per tutta un'annata; e da ultimo, per un saggio della generazione piú antica, un muratore di ottant'anni che sembra sazio della sua magra pensione, che forse deve essere molto piú abbondante della paga in natura percepita nei periodi della sua piú fiorente attività (il pagare a contanti è un'invenzione moderna, un privilegio da pensionati: generalmente qui si paga in natura o a credenza, che è poi una forma di pagamento in natura dilazionato).
Il paese vive con personaggi di questo tono. La topografia stessa del centro abitato sembra un'ottima alleata per favorire una vita divisa dal progresso frenetico che tutti gli altri paesi vicini stanno realizzando per crearsi un piano di attività che vada oltre i confini della propria terra (e penso a quelli di San Giovanni Rotondo, che vanno attrezzando modernamente alberghi e ospedali al punto da stabilire un primato indiscusso fra tutti gli altri centri del Mezzogiorno, e a quelli stessi di Rignano, della cittadella del Gargano, che sono scesi in pianura per contendere con le attività di una San Severo o di una Foggia).
La campagna medesima in nessun altro posto sembra come qui una cornice, un completamento del paese. Altrove si esce all'aperto per stabilire una comunione di lavoro e di interessi con altri paesi. Qui invece la campagna, quella veramente frequentata, non si estende oltre lo sguardo del paese. Ai campi lontani si preferiscono quelli che consentono di far capo piú frequentemente (anche pìú volte in una stessa giornata) al richiamo del paese, della piazza, sia che si vada al pascolo, o che si vada a tagliar legna o che si vada a cavar le pietre. Magre attività che vengono tutte, come le rimesse dell'emigrante, ad alimentare una vita senza progresso.
Sono delle condizioni queste che naturalmente vengono a stabilire una posizione di privilegio per la unità e la conservazione (sempre limitatamente, come si vedrà) della lingua. Non vi sono delle attività ben distinte, non vi sono dei ceti veri e propri. Vi è una lingua che è un po' di tutti e che va colta là dove tutti mirano, nel pieno del paese, là dove sì svolge la vita a cui tutti aspirano, là dove i paesani nella continuità dei loro incontri vanno essi pure modellando suoni e voci. E cosí nessun ambiente meglio di uno dei tanti circoli, che si affacciano sulla piazza numerosi come gli usci di uno stesso cortile, poteva offrire dei soggetti piú idonei a darci testimonianza delle condizioni della parlata del paese.
I
Non si vede che si possano determinare dei gruppi di parlanti bene individuati e ben distinti nei loro ceti o nelle loro categorie. In fondo il professore di liceo (un giovane valoroso che ha raccolto nel gabinetto di scienze della sua scuola tutta la fauna e tutta la flora del paese) è intervenuto di frequente per illustrare e talvolta per correggere, ma la sua parlata non si distingueva gran che dalla parlata del nostro fabbro.
Dei gruppi debbono esserci però quando i parlanti vengono considerati nei piani delle varie generazioni. La prova dì questa varietà per generazione è balzata fuori attraverso un breve controllo, che si è voluto spingere dalla generazione piú giovane (quella del ragazzo dodícenne mai uscito dalla gola dei suoi monti) alla generazione piú antica (a quella del vecchìo ottantenne che ha passato tutta la sua vita stando sempre legato alle consuetudini del suo paese).
Foneticamente le oscillazioni piú frequenti delle fonti consultate con maggiore insistenza riguardano la pronunzia della vocale a in posizione tonica e in posìzione di atonìa. La a finale, propria in genere dei femminili ìtaliani, e tante volte anche della terza persona singolare dei verbi, e qualche rara volta di espressioni pronunciate con enfasi (particolari che potrebbero suggerire di esaminare la cosa per stabilire se la vocale debba intendersi come il continuatore dell'A latina o solo come una variante dell'abituale schwa delle regioni centro-meridionali), nelle 17 voci esaminate ricorre 9 volte nella fonte giovanissima, 8 volte nella fonte di mezza età e 12 volte nella fonte antica. Un certo vantaggio a favore dell'ultima fonte, che comunque non è bastevole per definire esattamente la curva del fenomeno.
La a protonica di 6 voci prese in esame è pronunziata come leggermente palatilizzata una sola volta dalla fonte giovanissima, due volte dalla fonte di mezza età e nessuna volta dalla fonte piú antica. Indicazioni di un fenomeno in atto, dì cui però non si riesce ugualmente a stabilire la direzione.
La a tonica in sillaba aperta considerata in 7 voci è generalmente palatilizzata dal giovanissimo (due volte debolmente e 5 volte fortemente), è palatilizzata 4 volte dalla generazione di mezzo ed è pronunciata senza essere palatìlizzata dalla generazione antica. Un fatto notevole questo che dovrebbe dire a chiare note che certi turbamenti fonetici sono avvenutì in epoca molto recente e sono naturalmente attribuibili all'azione dei paesi del contermine, del
Nel controllo lessicale il giovanissimo non ripete la fonte di mezza età per ben 14 volte su 20; quest'ultima fonte poi non ripete la fonte antica solo per una o due volte. Il che vuol dire che il progresso lessicale della lingua è piú sensibile, e che questo progresso risalta con maggiore evidenza negli ultimi tempi. Nel complesso una lingua molto unitaria nei raggruppamenti dei ceti, ma sensibilmente divisa nei raggruppamenti per età.
Una lingua che fondamentalmente sembrerebbe del gruppo appenninico-molisano e che è sottoposta agli attacchi di provenienza tipicamente appula.
La presenza delle dd da LL (che poi si vanno diradando sempre di piú dinanzi alle voci moderne che entrano a far parte del patrimonio linguistico tante volte con la fonetica che sembrerebbe propria della corrente originaria) fa pensare a quella unità linguistica che dovette pur esservi tra la Puglia, la Lucania (parzialmente), la Calabria, la Sicilia e la Sardegna. Le voci comuni che hanno accompagnato questa antichissima e vasta comunione di popoli non dovrebbero esser poche, ma non ancora ci è dato riconoscerle come veramente sicure. La maggior parte di queste voci debbono essere nascoste, nella toponomastica, nei nomi delle contrade, nei nomi dei fiumi, in qualcosa di legato al veramente primitivo, là dove i simboli restano piú o meno gli stessi, anche quando una lingua tramonta nella sua fisionomia di base. Simboli oscuri, che per essere scientificamente validi debbono risultare presenti almeno in qualche altro punto di questo vasto territorio che sembrerebbe qualificabile come essenzialmente mediterraneo. Un problema che qui naturalmente per la sua serietà si può delibare soltanto ponendolo.
D'incomparabile rilievo sono le prove dell'ossatura appeninico-molisana.
A San Marco in Lamis
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