Il paese (piace intenderlo come tale anziché come città o cittadina, per quel non so che di antico, di sano e di composto che vi traspira da tutte le parti) viene raggiunto con una corriera. La quale per il ricercatore è un pò come l'anticamera del centro da studiare. Quando il mezzo arrivando da Foggia viene a sostare a Manfredonia, nel quartiere di Monticchio (il quartiere che i montanari hanno popolato nella parte piú alta della città di mare per muovere uniti fra le attività e le abitudini degli altri), i paesani vi ci si trovano gioiosi come a casa propria, liberi dalle costrizioni che un ambiente non abituale impone alla lingua e al cuore.
Esplode liberamente la gioia di un affare, di un successo, di un ritrovamento impensato, e spesso si aggiunge una nota di amarezza per un viaggio sfortunato o la vicenda di una pena che riprende a camminare per l'antica strada. Lingua e cuori sciolti che ti danno il quadro sincero di quello che circola nei sentimenti, nella storia, nella cultura, nella lingua di questa gente.
Il quadro si va compiendo o meglio incorniciando man mano che avanzi sul rettilineo che corre parallelo alla fascia costiera. Da una parte il mare limitato all'orizzonte dalla chioma compatta dei campi di ulivi, dalla parte del Tavoliere campi quasi brulli dove testimoni di terre infeconde prosperano rigogliosi sconfinati filari di fichidindia, di fronte il baluardo del Gargano su cui svolgentisi per lunga tesa si protendono ben salde la case di Monte Sant'Angelo.
Le casette, che lungo la strada vanno diventando piú numerose man mano che ti accosti alla frazione di Macchia,
Una civiltà che si è fissata lungo la strada alle pendici della montagna, dove di sotto ai piedi improvvisi ti spuntano foggiati come enormi colonne o come piramidi addolcite nella cuspide terminale i giganteschi fumaiuoli delle case che sono interrate al di sotto del livello stradale. Una gente che dei sassi ha fatto la propria ragion di vita. Nella pietra che ti acceca, là dove è tagliata di fresco, disposti di grado in grado, hanno aperto degli ariosi terrazzì che hanno reso fecondi col terreno portato di lontano perché vi prosperino il grano, il mandorlo, l'ulivo, la vite. Gente attiva, intraprendente, sicura di sé, che ha trasferito sulla montagna le iniziative e la vitalità della gente appula.
Le peculiarità di questa stirpe vengono poste in maggiore risalto, quando finalmente, raggiunta l'altezza della montagna, ti fermi ad aprire il colloquio con un gruppo di montanari che vestiti di panni pesanti e strettamente imberrettati d'inverno e d'estate si trattengono volentieri sulla loro piazza centrale quasi in attesa di offrire, con i loro discorsi, con il loro lessico, con la loro inflessione, al primo arrivato la testimonianza vivente delle vicende della loro storia.
Un quadro completo dei ceti e delle generazioni, che ha fatto da sottofondo ai tre protagonisti essenziali, che erano incoraggiati dal consenso dei presenti.
Mancano le donne, restie ad affrontare il colloquio con un forestiero, e quindi inadatte (almeno per Monte) a dare un'impressione sincera della vita e della lingua del loro paese.
Il colloquio si converte in un estenuante interrogatorio che condotto saltuariamente per cinque giorni svolge circa seimila domande. Quante bastano per fare una rassegna completa della fonologia e del lessico di Monte.
Le conclusioni che se ne traggono sono quelle della prima impressione. Che qui ci troviamo in un centro tipicamente pugliese, pugliese del tipo barese (non vogliano scandalizzarsene i daunisti ad oltranza). Gli Appuli, che hanno occupato una lingua di terra che comprende buona parte dell'attuale Puglia e tutta la parte orientale della Lucania, si sono assestati a Monte, conservando la schiettezza originaria, alla stessa maniera che oggi ci è data riscontrarla dall'altezza della linea Cerignola-Zapponeta in giú. Si conservano fondamentalmente appule Manfredonia e Vieste, ma qui a Monte non ancora sono arrivati gli influssi del dominio appenninico (o sono arrivati molto attenuati). Per intenderci meglio si vuol dire che è più pugliese Monte che una Foggia, o una San Severo o una Torremaggiore, che pur essendo molto anticamente abitate da popolazioni indubbiamente appule, oggi (e sembrerebbe ormai da parecchio) vanno stabilizzandosi in una nuova fase linguistica. Nel Tavoliere l'elemento appulo si è ridotto alla funzione di un sostrato notevole, ma ormai fossile, su cui viene a stratificarsi l'incessante dilagare degli Appenninici, che, abbandonate le montagne di origine, scendono al piano per trovare delle nuove fonti di lavoro.
Ma a Monte (dove la vera ed ultima immigrazione deve rimontare a quella delle origini) il pugliese originario dà segni di grande vitalità. Tutto questo naturalmente per la posizione particolare del paese pressoché isolato e per la sua stessa popolosità. I montanari hanno fatto della loro montagna (tutta un sasso) un loro edificio, a cui non sono disposti a rinunziare. Vi ci si sono arroccati come in una fortezza, e di tanto in tanto ne scendono (non rinunziando quasi mai al diritto di residenza) per estendere la loro attività (come agricoltori, impresari e professionisti) fin dentro le mura della stessa Manfredonia ed anche oltre. Nella provincia di Potenza non vi è centro dove non arrivi un uomo di Avigliano. Nella provincia di Foggia non vi è attività dove non sia arrivata (e con che forza!) la penetrazione di un montanaro.
Monte fa la parte del leone in tutto il Gargano, e va modellando sensibilmente costumi e lingua di una stessa Manfredonia, che è molto piú popolata e che pure vanterebbe storia e tradizioni lontane.
Comunque una lingua non sarebbe mai vitale, se non avesse un suo svolgimento, un suo fermento, una sua storia. Ed anche la lingua di Monte, per conservativa che possa essere, offre indubbi segni di una certa disgregazione, di un certo movimento, di un qualcosa che va mutando. Basterà esaminare i risultati di un controllo condotto mettendo di fronte alle stesse domande due fonti di età diverse, un quarantenne ed un ottantatreenne.
Foneticamente non ci sarà dato annotare delle differenze notevoli. Per l'uno e per l'altro ci si dovrà limitare a segnare delle oscillazioni. La vocale tonica e a volte suona come una e molto aperta e a volte resta invariata. La vocale tonica a sembra a volte pressoché invariata e a volte tendente ad un'e apertissima (un particolare questo che viene a colpire per prima l'orecchio del forestiero che per la parola stella' registra stalla e viceversa per la stella annoterà una stalla). I dittonghi tonici a volte sembrano piú ii ed úu e a volte piuttosto degli íe e degli úo. Il che vuol dire che vi sono, delle incertezze e che quindi la lingua è in uno stato di fermento. Vi è una condizione di svolgimento endogeno per cosí dire: anche se poi la distanza che divide le generazioni non sembra almeno da un punto di vista fonetico cosí marcata.
Lessicalmente però è da notare che tra le generazioni sta correndo parecchia acqua. La fonetica, solo però per i fatti piú diffusi e meglio radicati, è legata alle nostre predisposizioni fisiche, che sono indubbiamente di natura etnica e quindi molto antiche e molto difficilmente eliminabili. Ma il lessico cammina con maggiore rapidità. Se arrivano notizie di cose nuove, arrivano naturalmente dei fatti linguistici nuovi, delle parole nuove, che vengono accolte nella lingua tante volte con la stessa fonetica di origine, alimentando quell'insieme di oscillazioni che determineranno in parte anche il movimento fonologico. I vocaboli sono un po' come le punte di avanguardia nello svolgimento della lingua. Il controllo (condotto saltuariamente solo per un numero limitato di voci) rivela che le due fonti, appartenenti l'una alla generazione giovane, l'altra alla generazione anziana, pur concordando in un congruo numero di suoni, discordano in un numero piú abbondante di voci.
A che cosa attribuire questo passo in avanti? Esclusa la possibilità di un'influenza veramente pesante dall'esterno, bisognerà ripiegare su qualcosa di veramente connaturato con le esigenze di una lingua. Le esigenze di una comunicatività piú estesa, piú raffinata, piú propria, e conseguentemente meno concreta. La culìma, che per la fonte giovane è soltanto una pianta, l’attacamani, per la fonte di ottantatre anni fa tutt'uno con lo 'scolatoio per il latte', che egli otteneva tutte le mattine sistemando quest'erba nel fondo dell'imbuto del latte. Lo spaventapasseri che resta tale nella versione della fonte giovane, dalla fonte antica è indicata con gli stracci, (i strázze), di cui in genere è composto. Il 'pascolo', che i moderni definiscono con un termine pressoché astratto o impreciso, dagli antichi veniva definito con il parco (u párche) ossia a dire con un'indicazione estremamente concreta. Un aggettivo come 'tiepido' nella fonte giovane è pressoché la stessa cosa (tépede), ma nella fonte antica l'aggettivazione è ottenuta con un'immagine concreta (ácqua de sóle). Un bisogno di concretezza che persiste ancor oggi, e la stessa fonte giovane per indicare quelli 'che domandano la parola' per il fidanzamento, alludendo alla realtà della cerimonia tradizionale, dirà che quelli so venúti nnánze la pórta.
A Monte Sant'Angelo
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