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Dal libro "Tripoli italiana" del 1911.
Dal libro "Tripoli italiana" del 1911.
Rivista popolare di politica, lettere e scienze, Anno XVII, N. 21, Roma 15 novembre 1911, pp. 580-581
Filippo Turati: Nella tagliola! (A proposito della impresa tripolina).
Si intuisce quali preoccupazioni e ritegni ci impaccino l'animo e la penna, all'atto di esprimere tutto il pensier nostro, circa la lugubre pagine di barbarie e di sangue, che Governo e ceti dirigenti hanno aperta, e stanno istoriando, nella politica italiana. Il dissenso, la protesta nostra doveva essere affermata e lo fu - non importa a prezzo di quali nostre amarezze - prima ancora che l'evento varcasse alla fase esecutiva, allorquando una resipiscenza salutare appariva tuttavia tempestiva e dignitosamente possibile.
La tristezza, che ci ha invasi, di fronte al disastro indeprecabile delle nostre più care speranze, dei lunghi sforzi durati per concorrere ad avviare il Paese a una politica di pace, di lavoro, di riforme serie, sincere, profonde per l'elevamento del proletariato nazionale, col sempre più vivo e cosciente suo contributo; cotesta tristezza oggi mai si raccoglie taciturna dentro di noi, e repugna da ostentazioni che da troppo gente ancor oggi, non sarebbero intese; sarebbero - peggio - fraintese ed irrise.
Conviene che un lasso di tempo e una vigilia di esperienze che auguriamo il meno aspra possibile, riconduca serenità negli spiriti - dissipi i torbidi fumi di una epidemia di ebrietà, onde troppi, anche dei nostri più prossimi, subirono la malsana malia - affinche una parola pacata, inspirata alla umile realtà delle cose, ritrovi lo spiraglio delle menti e dei cuori.
La separazione, che volemmo netta e recisa, delle responsabilità - supremo dovere in vista dell'avvenire - non può indurci ad atti o a parole, che consentano un giorno, all'altrui malizia, ai veri e maggiori responsabili, quando siano chiamati alla resa dei conti, di tentare, con apparente fondamento, di scaricare una frazione qualsiasi del debito loro sulle nostre spalle, accagionando alla parte socialista di avere concorso a fiaccare quelle energie, ond'essi, per la patria, attendevano successi ed allori.
Dal libro "Tripoli italiana" del 1911.
Dal libro "Tripoli italiana" del 1911.
Ma, pur troppo, mentre altri - anche amici - ci attribuiscono, con un tenue sorriso di compatimento benevolo, un furore allucinato di fosche visiosi a pocalittiche; già, a così breve intervallo dagli esordii della trista avventura, sembra a noi di sentirci pullulare d'attorno gl'indizi di un consenso pensoso, che non osa ancora palesarsi, che teme di confessarsi a sé stesso; me che si fa ogni giorno più assillante, più preciso, più consapevole. E un terrore ci assale, che dovremmo poter scongiurare: che i fatti siano per darci assai più, e più presto ragione, che noi non vorremmo.
Perocché, ancor oggi, per noi, l'impresa alla quale una fatalità storica si disse aver forzato il Governo, ancor oggi appare inverosimile, assurda, impossibile, tanto è disforme da quanto, ragionevolmente, da quegli uomini in quest'ora, ci si doveva aspettare. Né correrà gran tempo, senza che si renda palese, a quanti di proposito non vorranno essere ciechi, che a noi, dagli inizi, fu semplicemente intuitivo: di che loschi maneggi, di che turpi egoismi e raggiri, di che biechi moventi, ai danni ed a scorno della nostra nazione, quella pretesa fatalità storica fosse abilmente intessuta; e con quale enorme, inesplicabile, imperdonabile leggerezza di coscienza e di spirito, i nostri reggitori abbiano ad essa piegato.
La politica internazionale è cosa troppo aggrovigliata e malcerta. a quei medesimi che si vantano iniziati ai suoi riti, perché possa darci oggi, con certezza, la chiave delle arti tenebrose con le quali straniere diplomazie, a dispetto delle amicizie professate, delle stipulate alleanze - spinsero il nostro giovane Stato - che iniziava eppena un arduo lavoro di interna ricostituzione - lo spinsero entro i ciechi e formidabili anfratti di una speculazione militare e politica, della quale altri - non certo la nostra puerile ingenuità - coglierà sulla nostra povera pelle, i frutti usurai. Di quali inconfessate cupidigie imperialistiche altrui, di quali occulte libidini di fruttuose rovine, siamo noi, in quest'ora, l'inconscio strumento e zimbello? A che genere di esotici capitalisti e banchieri stiamo rendendo servizio, col sangue dei nostri giovani, col gratuito olocausto delle migliori virtù di nostra gente? Su che valori si gioca, nelle borse di Berlino o di Londra, mentre la posta del gioco è l'onore, la forza, la ricchezza - è l'incipiente civiltà - del nostro paese?
Ah! debbono essere ben cupidi e gravi gl'interessi che si posero in moto, se riuscì la loro manovra a esprimere tanta virtù di suggestione maliarda, da indurre il governo democratico a cresimare la celebrazione del cinquantenario dell'indipendenza nazionale, con la promessa, insieme, di una legge che darà la cittadinanza ai cittadini d'Italia, e con la aggressione brutale a terre non nostre, a genti che ignoriamo e c'ignorano, fra le quali, nonché la sussistenza presente, ma neppure ci chiamano fondate e adeguate speranze di futuri intrecci d'interessi, di traffici di lavoro comune; se poté persuadere a questi uomini il paradosso di vantarci forieri d'una civiltà, della quale siamo così scarsi, a mezzo del cannone che dilacera, degli esplosivi che devastano, di procedure di terrore - attivo e passivo - consacranti, come traditori, a meditata strage ignominiosa, gualdrappata di sarcastiche frangie giudiziarie, prigionieri e ostaggi di guerra, colti a difendere la loro terra, assalita ed invasa. E perché non sentissero, questi uomini, il ribrezzo di vedere, così, suscitata, scatenata nelle folle, dalla sobillazione procace dei nostri eroi di poltrona, ciarlatani del panitalianismo e danneggiatori da burla, che l'arcigno Alighieri dannerebbe in Caina, quanta feccia di atavica inutile selvaggeria giace, sepolta dai millenni , nei penetrati della stirpe, verniciata appena d'umanità. E perchè, sopratutto, non scorgessero che il consiglio, a cui obbedivano, era, doveva essere, il consiglio di Giuda.
Dal libro "Tripoli italiana" del 1911.
Dal libro "Tripoli italiana" del 1911.
Or eccoci laggiù, sierata e gaia fanfara - ecco la patria col piede nella tagliuola; essa invaditrice, conquistatrice, ma stretta d'assedio tenace fra il mare e le propinque trincee; coi Marmidoni attorno, che balzano su dalle impervie e inospiti sabbie a diecine e diecine di mila, nostri meravigliosi e superbi apparecchi di morte; impedita di procedere oltre, come di ritrarsi; di recare altrove più utilmente le offese, perocchè è sacro gl'interessi e alle aspettative in agguato lo statu quo nei Balcani e nella Turchia. Solo lo statu quo della patria nostra, della nostra civiltà, era inezia da giocarsi coi dati!
Come sgusceranno dal laccio? a qual prezzo? in vista di qual premio? I nostri camerati socialisti di destra, neo-frenetici del suffragio universale... governativo, sognano un imperialismo addomesticato, un colonialismo dosato col contagoccie, non ancora registrato nella storia dei paesi seri e virili; un piede sulla costa di Tripoli, per isvago e per chiasso, come in Eritrea e al paese dei somali; villeggiatura gioconda, per snervarvi - Maometto permettendo - il toedium casermaiolo e la pletora dei nostri aspiranti (la fregola è già in in pieno ardore) alla greppia dello Stato. La colonizzazione italiana dovrebb'essere - pel meno peggio - questa parodia!
Ebbene, no! Una fatalità storica di sante ribellioni deve esistere anche per noi.
Di ribellioni e di espiazioni. Dacché tanta cecità di governo, tanta cecità obbrobriosa di popolo, è delitto comune. Anche dell'impreveggenza nostra e delle nostre abdicazioni. Quando le valanghe di milioni passavano, alla Camera, per inabbissarsi nel baratro militaresco - e la comune acquiescenza lasciava che passassero, senza pur tentare, almeno, di provocare un fremito di sdeggo proletario; l'organo esige la funzione; Tripoli si delineava sull'orizzonte. Virtualmente era già la conquista; consentita - ad insaputa nostra - da noi.
Le diplomazie congiurate, i grossi pennacchi fiottanti, le Borse di Berlino o di Londra, il capitalismo d'ogni lingua e d'ogni razza, attendevano, fiutavano, spiavano l'ora. (Critica sociale, 1 novembre).

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