Luigi Einaudi: A proposito della Tripolitania (considerazioni economiche e finanziarie).
La nostra impresa potrà apparire bella e giusta, soltanto se noi sapremo coll'opera nostra renderla tale. La conquista militarista e la conquista civilizzatrice non sono così nettamente distinte l'una dall'altra che non sia possiblle passare insensibilmente dall'una all'altra e non si è sicuri di trovarsi sul terreno saldo dell'opera civile ove non soccorra un alto sentimento del dovere, e sovrattutto ove non si sia consapevoli che la formazione di una colonia è un'opera di sacrificio per la madrepatria.
Perciò credo opportuno di restringere ora il mio discorso ad alcune osservazioni generiche e preliminari per dimostrare due verità le quali mi sembrano essenzialissime per la buona riuscita della impresa: 1) È illusione credere che la Tripolitania possa essere feconda di guadagni, se non lontani e indiretti, alla madrepatria; 2) sono invece una realtà, da affrontare consapevolmente e serenamente, i sacrifici economici che la colonia imporrà all'Italia.
L'argomento delle illusioni è purtroppo il più attuale e il più antipatico. Dal punto di vista politico è forse indispensabile, per far presa sul grosso della popolazione, che poco riflette e meno ragiona, diffondere una moderata dose di illusioni intorno alla ricchezza della colonia, ai frutti mirabili che se ne potranno ottenere e via dicendo. In tutti i tempi e in tutti i paesi accadde così; e anche in Italia dovemmo passare attraverso al pericolo delle ingenue amplificazioni, periodo che non è ancora tramontato.
A rendere possibile il raggiungimento di questo ideale a pro' dei nostri nepoti, è opportuno che noi non ci dimentichiamo di essere i fondatori della nuova patria; e come tali di dovere essere tenaci nonostante ogni fatta di ostacoli e la mancanza di ogni pronto compenso.
1) Essere il sin qui fatto bene auspicante, ma purtroppo piccolissima cosa in confronto al tanto di più che ci rimane da fare. (Qui l'Einaudi si occupa della importazione dall'Impero ottomano e dalla esportazione dall'Impero in Italia. Saltiamo queste cifre perchè dobbiamo occuparcene a parte altra volta. La redazione).
Nel campo industriale e commerciale qualche cosa ha fatto il Banco di Roma. Ciò che ha fatto ha suscitato l'ammirazione della stampa; ma io non la divido e spero che l'istituto rinunzi agli impieghi diretti, di cui l'avvenire ci dirà se buoni e ritorni alle sue vere funzioni bancarie.
2) Essere necessario bandire ogni idea di lucro per lo stato. Che la conquista di una colonia sia economicamente conveniente, è una conclusione a cui si giunge spesso dall'opinione volgare perchè si ritiene che la colonia possa in un modo o in altro arricchire la madrepatria. Il qual concetto dell'arricchimento non ha significato per se stesso, ove non lo si scomponga nelle sue parti costitutive. Si può credere invero che la colonia arrichisce lo Stato, ovvero taluni gruppi particolari di cittadini della madrepatria, ovvero in generale tutto il complesso o parte notevole degli abitanti della madre patria viventi nel momento presente, ovvero in un periodo avvenire. Qesti mi paiono i casi principali che si possono presentare.
Il caso della Tripolitania si presenta invero, anche a voler essere pessimisti, - ed è doveroso esserlo, sotto pena di fare spropositi e di cadere in un ottimismo ingenuo - sotto un aspetto più complesso e più favorevole di quello dell'Eritrea.
Sarà una cagione perenne di spese per noi che l'avremo conquistata. Spese tanto più forti quanto meglio noi vi faremo il nostro dovere. Voglio supporre che lo Stato italiano si limiti a fare il mestier suo nella Tripolitania e non commetta pazzie colonizzatrici; ma, quando pure si limiti a rendere giustizia, per sicurezza, impartire istruzione, costruire strade, porti, le principali ferrovie strategiche e civilizzatrici, ecc., ecc., dovrà spendere centinaia di milioni, alla lunga qualche miliardo, in spese d'impianto, e qualche decina di milioni all'anno in spese correnti, con la speranza che, dopo un certo tempo, probabilmente non minore di un trentennio, il bilancio della colonia possa vivere con le proprie forze, senza d'uopo di sussidi dalla madrepatria. Probabilmente anche questa è una speranza vana, perchè la Francia, con colonie stupende e ricchissime, deve ancora adesso spendere da 80 a 100 milioni all'anno a pro' di esse; e in questa spesa non sonocompresi i molti milioni di interesse sui debiti della madre patria, a carico suo, per sopperire alle spese delle guerre coloniali. L'inghilterra stessa non ha nel bilancio dello Stato iscritto nemmeno un centesimo di tributo o proventi tributari delle colonie; e spende somme ingenti per mantenere regolari comunicazioni marittime, per il corpo d'occupazione del Transwal e per la flotta destinata a conservare l'unità Imperiale. Ma supponiamo pure, per un caso impossibile, che il bilancio in Tripolitania giunga a saldarsi da sé, e, dopo un po' di tempo, lasci un avanzo. Sarebbe allora una vera pazzia prelevare qualcosa da quell'avanzo a prò del bilancio della madrepatria. Lo Stato colonizzatore ha sempre il dovere di pagare: la colonia non sente mai il dovere di restituire. I primi a ribellarsi all'idea di restituire sarebbero non gli arabi o i berberi, bensì i coloni italiani. L'Inghilterra perse gli Stati Uniti perché volle imporre dei dazi a suo porofitto; e la Spagna perdette il Sud America e rovinò se stessa per la sua stolida pretesa di avere in tributo dei galeoni carichi d'oro.
3) Essere necessario limitare il più possibile i lucri gratuiti e privilegiati di particolari gruppi di cittadini italiani.
I soliti giornali popolareschi potrebbero credere che io volessi qui accennare ai fornitori di zaini, scarpe, vestiti, ed altri indumenti militari, i quali possono aver guadagnato grosse somme indebite a causa delle provviste affrettate che ogni amministrazione deve fare nel'imminenza della spedizione... il discorso mio si riferisce invece ad un'altra specie di lucri, la quale ha radice in una maniera di pensare comunissima, che vidi già espressa sui giornali a proposito della Tripolitania.
a) in un primo stadio, quando la colonia non si governa da sé, ma è governata dalla madrepatria, riconosca la porta aperta a tutti i paesi. Solo a questo patto i coloni avranno l'impressione di essere trattati con giustizia e di non essere sfruttati dalla madrepatria e dai suoi capitalisti. Badiamo che gli arabi, i greci, i maltesi, sono intelligenti e questi conti arrivano assai presto a saperli fare, sovratutto uscendo da un regime di capitolazioni, connaturato con la porta aperta a libertà commerciale;
b) in un secondo stadio, quando la colonia si governerà da sé, lasci questa libera di scegliere il regime che essa, nella pienezza della sua sovranità, crederà opportuno di adottare; anche se questo regime dovesse essere rivolto contro la madrepatria. E il sistema inglese; secondo il quale l'India, l'Egitto, Malta, e in generale le colonie cosidette della Corona, trattano l'Inghilterra alla stessa stregua di un qualunque paese straniero, ammettendo le provenienze di tutti in franchigia o con bassi dazi fiscali, mentre il Canadà, l'Australia e il Sud Africa, per citare solo le principali self-governing colonie, sono libere di determinare a loro posta il proprio regime doganale; e di fatto lo hanno spesso inasprito contro la madrepatria trattata alla medesima stregua di un altro Stato qualunque;
4) essere lenti e costosi gli eventuali benefici della colonizzazione. Trattasi di verità oramai divenute di dominio comune dopo i primissimi entusiasmi irriflessivi. Parve per un momento che l'Italia avesse trovato nella Tripolitania un surrogato all'emigrazione transoceanica; così da offrire all'emigrante nostro un campo dove poter esplicare la sua meravigliosa attività sotto l'egida del governo patrio e ad intiero suo beneficio, invece che sotto l'oppressione dei governi stranieri od oligarchici ed a profitto di capitalisti e proprietari stranieri.
ll Bevione, che ha scritto un articolo interessante su quel che rende la Tunisia, allo scopo di insegnare agli italiani quel che potrebbe rendere la Tripolitania, per dimostrare che l'economia del protettorato dà frutti stupefacenti, tra i quali frutti, il prodotto maggiore è dato dall'agricoltura.
Sapete quali sono queste stupefacienti prodotti? Nel 1907 e 1909 ogni ettaro di terra dette 5,58 ettolitri di frumento; 6,96 di orzo; 24,80 di vino; 0,19 di olio.
Pare che questi dati non pecchino per difetto, poichè l'ultimo bollettino dell'istituto internazionale d'agricoltura reca per il frumento un prodotto medio di quintali 2,4 nel 1909 e di quintali 4,2 nel 1910- 11, per l'orzo nel 191 o di quintali 1,8, per l'avena di quintali 9,8, per il granoturco di quintali 3,1 per ettaro. Notisi che il calcolo dei prodotti per ettaro non l'ha fatto il Bevione; ma l'ho aggiunto io. Se l'avesse fatto il Bevione, si sarebbe accorto che, date le sue cifre, è perlomeno una esagerazione parlare di prodotti “stupefacenti”.
Se si calcola che che una produzione di ettolitri 5,58 corrisponde ad un di quintali 4,37 per ettaro, nel 1907, secondo il Bevione, e se si ricordano le medie d q. 2,4 nel 1909-10 e di q. 4,2 nel 1910-11 dell'Istituto internazionale d'agricoltura, possiamo concludere che la produzione media della Tunisia è inferiore alla produzione media delle peggiori regioni di montagna italiane, ossia alla produzione delle regioni più sfavorevolmente situate in tutta Italia. Le minime produzioni italiane si hanno invero come è naturale, nella montagna; e fu nel 1910, tra i più cattivi del dodicennio che si precipitò nelle montagne del Lazio ai minimi di 3,5 quintali, nelle montagne delle Marche e delle Calabrie a 4 quintali e nelle montagne della Basilicata a 4,4. Si tratta però di casi fortunatamente eccezionali, perchè in quel medesimo sfortunatissimo 1910 la media delle montagne italiane giunse a q. 63, mentre nella regione collinosa si produssero q. 7,5 e nelle pianure 13,0; ed in tutto il regno 8,8. Se è “stupefacente” un raccolto che non arriva alla metà del raccolto medio italiano in annate pessime, conviene dal vero cambiare il vocabolario. Per quel che vale dò un confronto tra i prodotti medi per ettaro italiani e quelli tunisini secondo i dati sopra riportati:
Da tutte queste cifre, certo molto approssimative, volevo solo ricavare la conseguenza che la Tripolitania e Cirenaica, le quali non sembrano migliori della Tunisia, non sono certo paesi cerealicoli. La cultura dei cereali potrà essere, come è in tante plaghe italiane, una coltura complementare, utile per utilizzare i ritagli di terreno, gli interfilari, gli spazi tra olivo ed olivo, per soddisfare ai bisogni della famiglia colonica. Non possono i cereali essere il prodotto tipico dell'agricoltura di quei paesi. I prodotti adatti a quei paesi sono, fose in proporzioni limitate, la vigna, probabilmente l'olivo e cioè prodotti che sono anche i nostri; e che se divenissero abbondanti farebbero una concorenza non piacevole ai nostri all'interno ed all'estero; e poi i datteri, forse il cotone, come si augura il Valenti. In ogni caso si tratta di culture a ritorni lenti, qualche volta lentissimi, con ingenti spese d'impianto e di aspettativa. Per il cotone inoltre non si sa nulla e bisognerebbe ancora fare degli esperimenti. Se si pensa che queste culture debbono impiantarsi in terreni non desertici, ma salvo le oasi già coltivate e già appoderate dagli indigeni, stepposi, sostanzialmente forse fertilissimi, ma ancora da redimere sul deserto minacciante, che bisogna trovare l'acqua, scavare i pozzi, costrurre i serbatoi nelle valli del sistema collinoso tra la costa e il deserto, e condurre l'acqua con acquedotti alle terre irrigabili, si parrà all'evidenza che sarebbe pazzesco di discorrere di colonizzazione rapida uso Nord America od Argentina.
Neppure agevole sarà la colonizzazione industriale delle colonie. Per ora l'industria principale sarebbe quella mineraria.
Date le cose discorse sin qui e la necesssaria prudenza e lentezza nell'opera della colonizzazione, di tutte le proposte messe innanzi, a proposito dalla futura colonia, la più pericolosa sembrami quella del Bevione, il quale vorrebbe che il goveno mettesse a capo della Tripolitania un nuovo Lord Cromer, ossia, come egli spiega
0“un generale d'industria, un uomo giovane, che abbia già mostrato, portando al trionfo una intrapresa, di possedere le doti di energia, di direzione e di dominio che sono indispensabili, che nella sua intrapresa abbia potuto rivelare doti di versatilità, anzi di universalità0”.
(A questo punto l'Einaudi innesta una lunga discussione finanziaria che occupa 25 pagine della rivista di Torino e che può formare una trattazione a parte. Forse la daremo un'altra volta. Nel senso dell'Einaudi, in quanto alla disponibilità del Tesoro ci siamo manifestati noi nel numero precedente.
L'Einaudi si diverte a mettere in canzonatura l'analfabetismo finanziario del governo e dei nazionalisti; e accennna pure alle menzogne turche e italiane. Ce ne occuperemo anche noi di proposito di queste menzogne in un altro numero. La redazione (La Voce).