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Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Alessandro Lazzerini
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Alessandro Lazzerini
Rivista popolare di politica, lettere e scienze, Anno XVII, N. 23, Roma 15 dibcembre 1911
Luigi Einaudi: A proposito della Tripolitania (considerazioni economiche e finanziarie).
La nostra impresa potrà apparire bella e giusta, soltanto se noi sapremo coll'opera nostra renderla tale. La conquista militarista e la conquista civilizzatrice non sono così nettamente distinte l'una dall'altra che non sia possiblle passare insensibilmente dall'una all'altra e non si è sicuri di trovarsi sul terreno saldo dell'opera civile ove non soccorra un alto sentimento del dovere, e sovrattutto ove non si sia consapevoli che la formazione di una colonia è un'opera di sacrificio per la madrepatria.
Perciò credo opportuno di restringere ora il mio discorso ad alcune osservazioni generiche e preliminari per dimostrare due verità le quali mi sembrano essenzialissime per la buona riuscita della impresa: 1) È illusione credere che la Tripolitania possa essere feconda di guadagni, se non lontani e indiretti, alla madrepatria; 2) sono invece una realtà, da affrontare consapevolmente e serenamente, i sacrifici economici che la colonia imporrà all'Italia.
L'argomento delle illusioni è purtroppo il più attuale e il più antipatico. Dal punto di vista politico è forse indispensabile, per far presa sul grosso della popolazione, che poco riflette e meno ragiona, diffondere una moderata dose di illusioni intorno alla ricchezza della colonia, ai frutti mirabili che se ne potranno ottenere e via dicendo. In tutti i tempi e in tutti i paesi accadde così; e anche in Italia dovemmo passare attraverso al pericolo delle ingenue amplificazioni, periodo che non è ancora tramontato.
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Alessandro Lazzerini
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Alessandro Lazzerini
Un po' di luce si è però fatta sull'argomento, grazie al dibattito sollevato dalla Voce di Firenze, agli articoli di Gaetano Mosca sulla Tribuna, ed allo studio di Ghino Valenti sulla Rassegna Contemporanea. Il succo migliore che si può ricavare dagli scritti più ponderati finora pubblicati in argomento è questo: che pochissimo ai sa intorno alle ricchezze naturali, agricole e minerarie della Tripolitania; che quel pochissimo ci porta a concludere trattarsi di un territorio per due terzi apparentemente sterile e non suscettivo di utilizzazione, e per l'altro terzo di produttività potenziale non ancora misurata e che potrebbe anche essere ragguardevole. Siccome quel terzo è da solo più grande dell'Italia, la sua utilizzazione potrà forse nell'avvenire essere fruttifera, e giustificate le speranze odierne di potere alla lunga collocare nella Tripolitania un non trascurabile numero di coloni italiani.
A rendere possibile il raggiungimento di questo ideale a pro' dei nostri nepoti, è opportuno che noi non ci dimentichiamo di essere i fondatori della nuova patria; e come tali di dovere essere tenaci nonostante ogni fatta di ostacoli e la mancanza di ogni pronto compenso.
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Alessandro Lazzerini
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Alessandro Lazzerini
Non dimentichiamo sovratutto:
1) Essere il sin qui fatto bene auspicante, ma purtroppo piccolissima cosa in confronto al tanto di più che ci rimane da fare. (Qui l'Einaudi si occupa della importazione dall'Impero ottomano e dalla esportazione dall'Impero in Italia. Saltiamo queste cifre perchè dobbiamo occuparcene a parte altra volta. La redazione).
Nel campo industriale e commerciale qualche cosa ha fatto il Banco di Roma. Ciò che ha fatto ha suscitato l'ammirazione della stampa; ma io non la divido e spero che l'istituto rinunzi agli impieghi diretti, di cui l'avvenire ci dirà se buoni e ritorni alle sue vere funzioni bancarie.
2) Essere necessario bandire ogni idea di lucro per lo stato. Che la conquista di una colonia sia economicamente conveniente, è una conclusione a cui si giunge spesso dall'opinione volgare perchè si ritiene che la colonia possa in un modo o in altro arricchire la madrepatria. Il qual concetto dell'arricchimento non ha significato per se stesso, ove non lo si scomponga nelle sue parti costitutive. Si può credere invero che la colonia arrichisce lo Stato, ovvero taluni gruppi particolari di cittadini della madrepatria, ovvero in generale tutto il complesso o parte notevole degli abitanti della madre patria viventi nel momento presente, ovvero in un periodo avvenire. Qesti mi paiono i casi principali che si possono presentare.
Il caso della Tripolitania si presenta invero, anche a voler essere pessimisti, - ed è doveroso esserlo, sotto pena di fare spropositi e di cadere in un ottimismo ingenuo - sotto un aspetto più complesso e più favorevole di quello dell'Eritrea.
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Alessandro Lazzerini
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Alessandro Lazzerini
Ma una cosa è certa: ed è che bisogna escludere a priori ogni speranza che la colonia possa mai essere produttrice pel bilancio dello Stato. Credere diversamente sarebbe un prepararsi alle sorprese peggiori.
Sarà una cagione perenne di spese per noi che l'avremo conquistata. Spese tanto più forti quanto meglio noi vi faremo il nostro dovere. Voglio supporre che lo Stato italiano si limiti a fare il mestier suo nella Tripolitania e non commetta pazzie colonizzatrici; ma, quando pure si limiti a rendere giustizia, per sicurezza, impartire istruzione, costruire strade, porti, le principali ferrovie strategiche e civilizzatrici, ecc., ecc., dovrà spendere centinaia di milioni, alla lunga qualche miliardo, in spese d'impianto, e qualche decina di milioni all'anno in spese correnti, con la speranza che, dopo un certo tempo, probabilmente non minore di un trentennio, il bilancio della colonia possa vivere con le proprie forze, senza d'uopo di sussidi dalla madrepatria. Probabilmente anche questa è una speranza vana, perchè la Francia, con colonie stupende e ricchissime, deve ancora adesso spendere da 80 a 100 milioni all'anno a pro' di esse; e in questa spesa non sonocompresi i molti milioni di interesse sui debiti della madre patria, a carico suo, per sopperire alle spese delle guerre coloniali. L'inghilterra stessa non ha nel bilancio dello Stato iscritto nemmeno un centesimo di tributo o proventi tributari delle colonie; e spende somme ingenti per mantenere regolari comunicazioni marittime, per il corpo d'occupazione del Transwal e per la flotta destinata a conservare l'unità Imperiale. Ma supponiamo pure, per un caso impossibile, che il bilancio in Tripolitania giunga a saldarsi da sé, e, dopo un po' di tempo, lasci un avanzo. Sarebbe allora una vera pazzia prelevare qualcosa da quell'avanzo a prò del bilancio della madrepatria. Lo Stato colonizzatore ha sempre il dovere di pagare: la colonia non sente mai il dovere di restituire. I primi a ribellarsi all'idea di restituire sarebbero non gli arabi o i berberi, bensì i coloni italiani. L'Inghilterra perse gli Stati Uniti perché volle imporre dei dazi a suo porofitto; e la Spagna perdette il Sud America e rovinò se stessa per la sua stolida pretesa di avere in tributo dei galeoni carichi d'oro.
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Alessandro Lazzerini
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Alessandro Lazzerini
Appunto perciò io plaudo all'impresa ora iniziata. Perché essa è un'opera di sacrificio per lo Stato, ossia per i cittadini italiani considerati nella loro qualità di contribuenti, senza alcuna speranza di ritorno. Sarebbe comodo fare i colonizzatori per arricchire lo Stato e pagare meno imposte. Anche i popoli poltroni potrebbero tentare la partita; e i Turchi avrebbero avuto ragione da vendere a volersi tenere la Tripolitania.
3) Essere necessario limitare il più possibile i lucri gratuiti e privilegiati di particolari gruppi di cittadini italiani.
I soliti giornali popolareschi potrebbero credere che io volessi qui accennare ai fornitori di zaini, scarpe, vestiti, ed altri indumenti militari, i quali possono aver guadagnato grosse somme indebite a causa delle provviste affrettate che ogni amministrazione deve fare nel'imminenza della spedizione... il discorso mio si riferisce invece ad un'altra specie di lucri, la quale ha radice in una maniera di pensare comunissima, che vidi già espressa sui giornali a proposito della Tripolitania.
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Si dice: vedete quando lucra la Francia, se non lo Stato francese, dalla colonia tunisina! Tutti gli appalti pubblici sono riservati ai francesi, il credito agricolo è dato solo ai proprietari francesi, i dazi sono manipolati in modo da favorire il consumo con la Francia e da ostacolare il commercio con l'estero. Questa maniera di pensare è purtroppo popolarissima ed ha un sapore nazionalista che lusinga molti; talché ritengo probabile che essa abbia a prevalere anche da noi. Mi sia concessso di manifestare il parere che una siffatta politica sarebbe una politica suicida. Noi abbiamo interesse - s'intende che parlo d'interesse generale e non dell'interesse di singoli gruppi ristretti - che la Tripolitania sia messa in valore rapidamente e bene. Poiché di terra colonizzabile pare ce ne sia e difettano invece gli acquedotti, i serbatoi, le canalizzazioni irrigatorie, gli impianti minerari, le piantagioni, è evidente che noi dobbiamo portare nella Tripolilania lavoro abile, superiore (gli indigeni per un pezzo potranno fornirci mano d'opera ordinaria e a buon mercato) e capitale. Del primo, sia nel campo agricolo come in quello minerario, noi potremo fornirne alla colonia come ne forniamo a tutto il mondo. Il punto difficile sta nella fornitura del capitale. Sarebbe una grossissima illusione credere che l'Italia possa colle sole sue forze bastare a tanto. Il risparmio nuovo italiano a stento riesce a provvedere al fabbisogno dell'agricoltura, dell'industria e delle opere pubbliche della madrepatria. Non vedo donde possano venire i capitali italiani colonizzatori. Qualche margine potrà ottenersi, come si dirà poi, se lo Stato, premuto dalle spese tripolitane, sperpererà meno quattrini in aumenti burocratici e stipendi relativi e in sussidi ai gruppi di trivellatori nazionali del pubblico erario. Ma questo margine andrà devoluto quasi del tutto alle opere pubbliche e poco rimarrà per le iniziative private.
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Se si aggiunga che negli ultimi anni il risparmio nazionale pare si sia contenuto in limiti più ristretti degli anni fino al 1907, lasciando affamate di capitali tutte le nostre industrie, apparirà ragionevole la conclusione che l'Italia non sia in grado di approntare da sola i capitali necessari alla colonizzazione della Tripolitania, o meglio potrà tuttalpiù approntare, e sarà utilissima cosa, quella parte di capitali che darà i rendimenti massimi, sguarnendo inpieghi interni meno remuneratori. Onde si ripresenterà il problema del come trovare i capitali necessari per sopperire ai bisogni delle industrie abbandonate dal capitale nazionale in cerca dei più lucrosi impieghi coloniali, ed ai bisogni delle industrie coloniali, ed ai bisogni delle industrie coloniali secondarie nell'ordine della produttività. A questo punto appare quanto sia ragionevole il concetto esposto da Ghino Valenti della opportunità di ottenere la collaborazione economica della Francia nella nostra impresa. La Francia esporta molti capitali e niente uomini; l'Italia esporta molti uomini e pochi capitali. La collaborazione dei capitali francesi e dei lavoratari italiani ha dato ottimi frutti nella Tunisia sotto il goverro politico della Francia; forse ne darebbe dei migliori in Tripolitania sotto il governo politico dell'Italia. A ciò però è indispensabile che il governo politico italiano, rappresentante naturale del fattore lavoro, non sia dominato da gretto esclusivismo contro il fattore capitale in genere, a prò di una piccola frazione nazionale del medesimo fattore capitale, contro la parte maggiore che dovrà essere, se pure vorremo civilizzare sul serio, straniera.
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
L'unico sistema consigliabile ad uno Stato che voglia conservare a lungo le sue colonie è quello che:
a) in un primo stadio, quando la colonia non si governa da sé, ma è governata dalla madrepatria, riconosca la porta aperta a tutti i paesi. Solo a questo patto i coloni avranno l'impressione di essere trattati con giustizia e di non essere sfruttati dalla madrepatria e dai suoi capitalisti. Badiamo che gli arabi, i greci, i maltesi, sono intelligenti e questi conti arrivano assai presto a saperli fare, sovratutto uscendo da un regime di capitolazioni, connaturato con la porta aperta a libertà commerciale;
b) in un secondo stadio, quando la colonia si governerà da sé, lasci questa libera di scegliere il regime che essa, nella pienezza della sua sovranità, crederà opportuno di adottare; anche se questo regime dovesse essere rivolto contro la madrepatria. E il sistema inglese; secondo il quale l'India, l'Egitto, Malta, e in generale le colonie cosidette della Corona, trattano l'Inghilterra alla stessa stregua di un qualunque paese straniero, ammettendo le provenienze di tutti in franchigia o con bassi dazi fiscali, mentre il Canadà, l'Australia e il Sud Africa, per citare solo le principali self-governing colonie, sono libere di determinare a loro posta il proprio regime doganale; e di fatto lo hanno spesso inasprito contro la madrepatria trattata alla medesima stregua di un altro Stato qualunque;
4) essere lenti e costosi gli eventuali benefici della colonizzazione. Trattasi di verità oramai divenute di dominio comune dopo i primissimi entusiasmi irriflessivi. Parve per un momento che l'Italia avesse trovato nella Tripolitania un surrogato all'emigrazione transoceanica; così da offrire all'emigrante nostro un campo dove poter esplicare la sua meravigliosa attività sotto l'egida del governo patrio e ad intiero suo beneficio, invece che sotto l'oppressione dei governi stranieri od oligarchici ed a profitto di capitalisti e proprietari stranieri.
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Certamente il beneficio del governo patrio vi sarà; e l'intervento del capitale straniero, benché indispensabile, avrà luogo, ove soccorra sapienza di ordinamenti fondiari, in maniera utile all'ascensione economica del nostro lavoratore. Ma pare certo che ad usufrire di questi vantaggi saranno in principio non i milioni e neppure le centinaia di migliaia, ma appena alcune poche migliaia di operai e contadini scelti e solo dopo giungeremo a qualche decina di migliaia, per elevarci alle cifre grosse, se i primi esperimenti riusciranno conclusivi, in un più lontano avvenire. Anche senza voler anticipare calcoli, che sarebbero privi di base senza una preliminare catastazione intorno alla quantità disponibile di terra colonizzabile ed anche senza voler indagare il costo dell'acquisto dei terreni da parte degli attuali proprietari indigeni, certo appare che la terra tripolitana è di una specie tutta diversa da quella che ha attirato milioni di europei nel nuovo mondo nell'ultimo mezzo secolo. La terra atta all'emigrazione in massa è la terra nord americana, argentina ed ora canadese; terra vergine, profonda in clima temperato o, se freddo, propizia ai raccolti dei cereali, non troppa ingombra di foreste, dove il colono, dopo un lavoro di sterpamento e di dissodamento relativamente breve, può intraprendere senz'altro la coltura dei cereali ed ottenere il raccolto dopo nove mesi dalla semina. Il prodotto tipico di questa terra facilmente colonizzabile e il frumento, il quale serve a nutrire il coltivatore e, col ricavo della vendita del sovrappiù, a dare i mezzi per comprare tutto ciò che è necessario alla vita del coltivatore. Le antcipazioni di capitale si riducono a poco; sicché il contadino, dopo aver passato pochi anni a fare il giornaliero o il colono partecipante, può aspirare alla proprietà della terra. Se anche la conquista della proprietà si fa aspettare, il lavoro è facile e remunerativo nelle grandi aziende capitalistiche che si possono costituire facilmente, trattandosi di terreni vergini e di un'agricoltura primitiva, grossolana (arare il terreno e mietere i cereali, pronti subito ad essere venduti), che si limita a smuovere il terreno con delle macchine e ad aspettare che il buon Dio faccia il resto, per tornare a portar via i raccolti a furia di macchine.
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
A quanto se ne sa, il problema della colonizzazione della Tripolitania è tutto diverso.
ll Bevione, che ha scritto un articolo interessante su quel che rende la Tunisia, allo scopo di insegnare agli italiani quel che potrebbe rendere la Tripolitania, per dimostrare che l'economia del protettorato dà frutti stupefacenti, tra i quali frutti, il prodotto maggiore è dato dall'agricoltura.
Sapete quali sono queste stupefacienti prodotti? Nel 1907 e 1909 ogni ettaro di terra dette 5,58 ettolitri di frumento; 6,96 di orzo; 24,80 di vino; 0,19 di olio.
Pare che questi dati non pecchino per difetto, poichè l'ultimo bollettino dell'istituto internazionale d'agricoltura reca per il frumento un prodotto medio di quintali 2,4 nel 1909 e di quintali 4,2 nel 1910- 11, per l'orzo nel 191 o di quintali 1,8, per l'avena di quintali 9,8, per il granoturco di quintali 3,1 per ettaro. Notisi che il calcolo dei prodotti per ettaro non l'ha fatto il Bevione; ma l'ho aggiunto io. Se l'avesse fatto il Bevione, si sarebbe accorto che, date le sue cifre, è perlomeno una esagerazione parlare di prodotti “stupefacenti”.
Se si calcola che che una produzione di ettolitri 5,58 corrisponde ad un di quintali 4,37 per ettaro, nel 1907, secondo il Bevione, e se si ricordano le medie d q. 2,4 nel 1909-10 e di q. 4,2 nel 1910-11 dell'Istituto internazionale d'agricoltura, possiamo concludere che la produzione media della Tunisia è inferiore alla produzione media delle peggiori regioni di montagna italiane, ossia alla produzione delle regioni più sfavorevolmente situate in tutta Italia. Le minime produzioni italiane si hanno invero come è naturale, nella montagna; e fu nel 1910, tra i più cattivi del dodicennio che si precipitò nelle montagne del Lazio ai minimi di 3,5 quintali, nelle montagne delle Marche e delle Calabrie a 4 quintali e nelle montagne della Basilicata a 4,4. Si tratta però di casi fortunatamente eccezionali, perchè in quel medesimo sfortunatissimo 1910 la media delle montagne italiane giunse a q. 63, mentre nella regione collinosa si produssero q. 7,5 e nelle pianure 13,0; ed in tutto il regno 8,8. Se è “stupefacente” un raccolto che non arriva alla metà del raccolto medio italiano in annate pessime, conviene dal vero cambiare il vocabolario. Per quel che vale dò un confronto tra i prodotti medi per ettaro italiani e quelli tunisini secondo i dati sopra riportati:

Immagine 1
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Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Tutto sommato, la Tunisia non ha l'aria di un paese ferace di cereali, anche dopo un terzo di secolo di dominazione francese; e pure la produzione degli olivi regge male al confronto con quella italiana. sebbene il 1909 e il 1910 siano state due annate pessime per l'olivicultura nostra. Nella vite il paragone si sostiene meglio.
Da tutte queste cifre, certo molto approssimative, volevo solo ricavare la conseguenza che la Tripolitania e Cirenaica, le quali non sembrano migliori della Tunisia, non sono certo paesi cerealicoli. La cultura dei cereali potrà essere, come è in tante plaghe italiane, una coltura complementare, utile per utilizzare i ritagli di terreno, gli interfilari, gli spazi tra olivo ed olivo, per soddisfare ai bisogni della famiglia colonica. Non possono i cereali essere il prodotto tipico dell'agricoltura di quei paesi. I prodotti adatti a quei paesi sono, fose in proporzioni limitate, la vigna, probabilmente l'olivo e cioè prodotti che sono anche i nostri; e che se divenissero abbondanti farebbero una concorenza non piacevole ai nostri all'interno ed all'estero; e poi i datteri, forse il cotone, come si augura il Valenti. In ogni caso si tratta di culture a ritorni lenti, qualche volta lentissimi, con ingenti spese d'impianto e di aspettativa. Per il cotone inoltre non si sa nulla e bisognerebbe ancora fare degli esperimenti. Se si pensa che queste culture debbono impiantarsi in terreni non desertici, ma salvo le oasi già coltivate e già appoderate dagli indigeni, stepposi, sostanzialmente forse fertilissimi, ma ancora da redimere sul deserto minacciante, che bisogna trovare l'acqua, scavare i pozzi, costrurre i serbatoi nelle valli del sistema collinoso tra la costa e il deserto, e condurre l'acqua con acquedotti alle terre irrigabili, si parrà all'evidenza che sarebbe pazzesco di discorrere di colonizzazione rapida uso Nord America od Argentina.
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
La colonizzazione verrà; ma sarà l'opera di decenni e di secoli; e per un certo imprecisabile tempo avvenire sarà un miracolo se più di poche decine di migliaia di immigranti già provvisti di capitali a sufficienza per poter aspettare i raccoli remuneratori per qualche anno, costruire le case, fare le piantagioni, ecc., ecc., riuciranno ad avere un certo successo. Il che val quanto dire che la Tripolitania non è e non sarà per un pezzo un succedaneo dell'America per l'emigrante povero, che va all'estero non per impiegare risparmi già formati, ma per costituire appunto col lavoro il risparmio. Affermare il contrario, magari allo scopo di far continuare la proibizione, dannosa all'Argentina, ma anche dannosissima a noi, dell'emigrazione verso il Plata, gioverà forse agli interessi dei proprietari di terreni nel Mezzogiorno, angustiati dalla mancanza di mano d'opera e dal rincaro dei salari; ma non giova sicuramente alla causa della verità ed al risorgimento economico del Mezzogiono.
Neppure agevole sarà la colonizzazione industriale delle colonie. Per ora l'industria principale sarebbe quella mineraria.
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Poichè in realtà quasi nulla si conosce delle ricchezze minerarie della Tripolitania, conviene tenerci sulle generali. Se in fondo alla gran Sirti si trovassero davvero potenti miniere di zolfo sarebbe un guaio grosso. Di zolfo abbiamo in casa una vera sovraproduzione, appena palliata da ogni sorta di interventi governativi. Il guaio diventerebbe un pò meno grosso solo nel caso che, essendo noi i padroni del paese, tenessimo ferrovie e strade molto alla larga dalle miniere, fino al giorno, non vicino, in cui le miniere di zolfo della Sicilia saranno esaurite. Sarebbe invece un vantaggio inestimabile trovare cospicui giacimenti di fosfati minerali. Ognun sa che i fosfati sono uno dei capisaldi dell'agricoltura moderna; sicchè il consumo ne cresce e di anno in anno. Dei 15.600.000 lire di fosfati minerali importanti nel 1910 in Italia, 10. 000.000 di lire vennero dalla Tunisia, 3.300.000 dagli Stati Uniti e 1.700.000 dall'Algeria. Averne in una colonia nostra sarebbe una preziosa riserva per l'avvenire quanto l'enorme domanda di questo fertilizzante ne abbia fatto crescere i prezzi. Il problema non è tuttavia urgente, essendo noto che l'industria dei fosfati ha attraversato negli ultimi anni un periodo di crisi profonda; e l'agricoltura mondiale non ha difficoltà per ora a procurarsi fosfati a prezzi che devono lasciare un assai piccolo margine di beneficio.
Date le cose discorse sin qui e la necesssaria prudenza e lentezza nell'opera della colonizzazione, di tutte le proposte messe innanzi, a proposito dalla futura colonia, la più pericolosa sembrami quella del Bevione, il quale vorrebbe che il goveno mettesse a capo della Tripolitania un nuovo Lord Cromer, ossia, come egli spiega

0“un generale d'industria, un uomo giovane, che abbia già mostrato, portando al trionfo una intrapresa, di possedere le doti di energia, di direzione e di dominio che sono indispensabili, che nella sua intrapresa abbia potuto rivelare doti di versatilità, anzi di universalità0”.

Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Da "Arte e vita", Anno I, 1908 - Oscar Ghiglia
Evidentemente il Bevione ha sbagliato nome; voleva augurare che all'Italia non un Lord Cromer, che, se non vado errato, non fu mai un grande generale d'industria, ma un Cecil Rhodes, un redivivo Napoleone dell'Africa. Lasciamo star da parte che in Italia i generali d'industria che [h]anno veramente avuto del successo, non vorranno abbandonare la loro azienda per sacrificarsi a fare il governatore della Tripolitania: devesi osservare che se anche si trovasse, cosa improbabilissima, un industriale, non fallito, voglioso di sobbarcarsi al cimento, egli sarebbe capace di fare più male che bene.
(A questo punto l'Einaudi innesta una lunga discussione finanziaria che occupa 25 pagine della rivista di Torino e che può formare una trattazione a parte. Forse la daremo un'altra volta. Nel senso dell'Einaudi, in quanto alla disponibilità del Tesoro ci siamo manifestati noi nel numero precedente.
L'Einaudi si diverte a mettere in canzonatura l'analfabetismo finanziario del governo e dei nazionalisti; e accennna pure alle menzogne turche e italiane. Ce ne occuperemo anche noi di proposito di queste menzogne in un altro numero. La redazione (La Voce).

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