Domenica, 29 Settembre 2019 - 292.49 Kb - pdf - 4b1345a560ddf1e2404b6e0dc889b7be - Gianni Marongiu, La politica fiscale dell'Italia liberale dall'Unità alla crisi di fine secolo, Leo S. Olschki editore, Firenze 2010.[Dalla Prefazione di Guido Pescosolido ] [...] In sede di larga divulgazione impazzano le "revisioni", a volte spacciate per nuove originali scoperte, di fenomeni come l'illegittimità della conquista garibaldina e piemontese del Sud, la repressione garibaldina dei moti di Bronte e piemontese del brigantaggio postunitario, o recuperi rocamboleschi dei meriti di una dinastia come quella borbonica che nel 1860 lasciò il Mezzogiorno continentale con l'86% e la Sicilia con l'89% di analfabeti. Operazioni sulle quali si costruiscono visioni totalmente negative non solo del Risorgimento, ma dell'intera storia nazionale e della vita civile dell'Italia moderna, ossia di un paese che pure è arrivato a inserirsi tra i 10-12 più sviluppati del mondo. Operazioni che intanto forniscono le basi pseudo-scientifiche e storiche a quelle forze secessioniste, in veste federalista, che per ragioni legate a problemi maturati negli ultimi trent'anni, mettono, nei fatti, in discussione la stessa unità nazionale. [...][Libro] [...] La viabilità ordinaria si presentava in condizioni particolarmente deplorevoli al Sud e nelle isole, sia per la mancanza assoluta di strade, sia per la irregolare manutenzione di quelle esistenti: nel 1861 il Regno delle Due Sicilie aveva solo quattro strade nazionali (dal Tronto a Napoli, da Terracina a Napoli, da Napoli a Reggio, da Napoli a Bari, Brindisi e Lecce), per buona parte in pessimo stato e in alcuni tratti impercorribili e nel 1863, scriverà Nitti, quando fu fatta l'inchiesta parlamentare sul brigantaggio, dei 1.848 Comuni del Napoletano, 1621 mancavano di strade. La rete ferroviaria, che non raggiungeva i 2.000 chilometri, contro gli oltre 9.000 della Francia e i circa 17.500 della Gran Bretagna, era disegualmente distribuita sul territorio nazionale e particolarmente deficitaria al Sud: mentre in Toscana erano 323 i chilometri in esercizio, nei Ducati di Parma e di Modena 99 e 50, in Lombardia (senza il Veneto) 221, nello Stato pontificio 132 e negli Stati sardi 850, solo 128 erano i chilometri nel vasto Regno delle Due Sicilie e la loro reale efficienza era discutibile e duramente criticata.Conseguentemente il viaggiatore che avesse voluto spingersi al di là di Arezzo e di Cecina verso mezzogiorno, in località per cui non fossero utilizzabili i servizi marittimi, non si trovava in una situazione diversa da quella di cinquantanni o di un secolo prima: nemmeno un chilometro di binari percorreva le Marche, l'Umbria, l'Abruzzo, il Molise, la Basilicata, la Puglia, la Calabria, la Sicilia. [...][...] Era il segno dell'arretratezza del regno borbonico legato ai limiti asfittici del mercato interno, incapace di esprimere una adeguata domanda anche per le grandissime carenze delle comunicazioni ferroviarie e stradali, che condannavano all'isolamento la maggior parte dei centri urbani, per non dire delle campagne. Debolezza del tessuto economico sociale che trovava una ulteriore conferma nel ridotto volume e nella particolare struttura del commercio estero: al momento del crollo del regno, 5,52 ducati per abitante rispetto ai 40,13 del Piemonte e ai 9 del retrogrado Stato pontificio. [...][...] D'altro canto il diritto elettorale attivo era riservato ai cittadini che avessero compiuto venticinque anni, sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno quaranta lire di imposte dirette l'anno e la partecipazione alle urne, riservata al 2% dell'intera popolazione, dovette subito fare i conti con un diffuso astensionismo. [...][...] Così, tra il 1860 e il 1861, vivacissimo, anche all'interno della parte moderata, fu il dibattito sull'impianto amministrativo del paese perché ai progetti di Luigi Carlo Farini e poi di Marco Minghetti, che gli succedette quale ministro degli interni, favorevoli (sia pure diversi tra loro) a conciliare le ragioni dell'unità e della forte autorità politica dello Stato colla libertà dei Comuni, delle province e dei consorzi, anche sotto il profilo finanziario, si contrapponeva chi era teso a ribadire la priorità dell'accentramento. Per ragioni politiche fu questa seconda soluzione a prevalere e così, scartata ogni soluzione regionalistica (che, comunque, avrebbe trovato resistenza proprio perché "la tradizione del territorio è quella della 'civiltà diffusa' imperniata su comuni e province"), fu estesa all'intero territorio nazionale la legislazione piemontese sulle amministrazioni locali che tale rimase fino ai provvedimenti crispini del 1888-89. [...]
[...] Non è sinora penetrata nelle nostre abitudini - osservò il deputato biellese (Quintino Sella, NdR) durante il suo primo incarico ministeriale - la persuasione che il governo è parte di noi stessi, che non è nostro nemico il fisco, che, il contrario, è il nostro aiuto principale e che è quello, senza il quale non avremmo sicurezza, protezione, strade, istruzione, non avremmo nulla. [...]