Scrive lo storico sammarchese Antonio Guida:
Qui da noi [a San Marco in Lamis, ndr] l’edilizia non ha avuto e non ha rispetto per l’antico. Il restauro conservativo è un’operazione tecnica obsoleta che non ha ragione d’essere finanche per il centro storico, per le chiese, per le edicole votive. Con facilità si staccano e si portano via i portali barocchi; si chiudono col cemento armato le cripte; s’abbattono i 'mugnali'; si smontano 'puteali'; si sotterrano con materiale idraulico consolidante le sepolture rinvenute per caso nel corso di scavi di fondazioni. Cosicché a San Marco in Lamis solamente poche maltrattate testimonianze ci parlano del passato; tant’altre sono state distrutte, murate, rimosse, portate fuori dall’originale contesto.
Scrittore dimenticato dalla "cultura" ufficiale. Casa d'altri, pubblicato integralmente ed da scaricare è bellissimo! Leggilo. Leggi
p. Mario Villani presenta le sue memorie
Il convento di San Matteo sul Gargano e il territorio, Vol. I Leggi
Introduzione
Molto studiato dagli specialisti, ma poco seguito ed imitato.
Ciò che siamo e ciò che avremmo dovuto essere. Leggi
Qualesammarco
Qualesammarco è una rivista di San Marco in Lamis, nata nel 1988 e che ha cessato le pubblicazioni nel 1999.Offro da navigare i primi 9 numeri. Leggi
Canti popolari di S. Marco in Lamis
Una sezione nuova, in versione ampliata, dal libro di Raffaele Cera. Leggi
Ettore Petrolini
Un grande attore italiano Più famoso che conosciuto Leggi
La Storia dei ladri in Italia
"La storia dei ladri in Italia" di un Anonimo (Felice Borri?), del 1872. E' sconvolgente ed attuale! Leggi
Ernesto Rossi
Un grande italiano, poco conosciuto dalla "massa" del popolo. Leggi
Le Acli a S. Marco in Lamis
Sebastiano (Ninuccio) Contessa racconta la storia delle Acli di San Marco in Lamis. Il secondo dopoguerra in un paesino del Meridione. Leggi
P. Sylos Labini (1920-2002)
Un grande economista italiano, che aveva previsto molte cose. Leggi
Carlo Cattaneo (1801-1869)
Egli fu uomo d'azione, in modo folgorante, ma per brevissimo tempo, non più di diciassette giorni in quasi settant'anni di vita. Leggi
Napoleone Colajanni (1847-1921)
Nuova sezione dedicata ad un Grande alquanto dimenticato. Garibaldino, Repubblicano, italiano, onesto, amante dei poveri e della giustizia. Leggi
Il Risorgimento
Nuova sezione! La foto è una litografia di Rossetti, tratta da Antonio Balbiani, Storia illustrata della vita di Garibaldi, Milano, 1860. Leggi
Leggi con me.
[...] la biblioteca non è solo il luogo della tua memoria, dove conservi quel che hai letto, ma il luogo della memoria universale, dove un giorno, nel momento fatale, potrai trovare quelli altri hanno letto prima di te. È un repositorio dove al limite tutto si confonde e genera una vertigine, un cocktail della memoria dotta. [...] Umberto EcoLeggi
Nord-Sud
"Il federalismo - ivi compreso quello 'fiscale' - servirà assai poco al progresso del Paese se il Governo italiano non avvierà contestualmente
una strutturale ed incisiva politica economica nazionale di sviluppo e di coesione, finalizzata alla unificazione anche 'economica' tra Mezzogiorno e Centro-Nord". Nino Novacco (1927-2011)Leggi
G. A. Borgese
[Golia è] Un libro, questo, letto da pochi, purtroppo, allora come oggi, non più in commercio, eppure un libro sul fascismo, sull'Italia fascista, un libro di radicale importanza. Ed è un libro da cui bisogna partire per conoscere Borgese scrittore, oggi effettivamente sconosciuto. L. Sciascia, in Corriere della sera dell'11 settembre 1982 Leggi
Le migrazioni
Il problema dei movimenti migratori è molto vecchio e complesso. Oggi assistiamo, purtroppo e tra il plauso di molti, ad una sua pericolosa e dolorosa semplificazione.La buonanima della mia nonna materna Luigina Tardio (1897-1980) amava dire: così capisce! Ma subito aggiungeva: si stancherà! Leggi
Storia statistica di Giuliani
Ho dedicato una corposa sezione al Notaio sammarchese Leonardo Giuliani (1786-1865), autore della citatissima 'Storia statistica'.Ho aggiunto alla sezione molti 'file' che servono ad inquadrare meglio questa grande figura. Leggi
Due libri di Matteo Ciavarella
I due libri (Il colera del 1837..., 1981 e Fra orti e mugnali, 1982) che vi offro sono opera del sammarchese Matteo Ciavarella. Essi sono una miniera di notizie sulla cittadina garganica. Leggi
Nascita di una città
Il libro di Pasquale Soccio"San Giovanni in Lamis San Marco in Lamis ....".', arricchito di tanti altri elementi che ti permettono di inquadrare la morte di una potente Badia e la nascita di una Città. Leggi
Antonio Vieira
Nessuno come il gesuita P. Antonio Vieira (1608-1697) ha sferzato così violentemente la molteplicità degli incarichi, le remore della burocrazia, la peste dei favoritismi; nessuno ha ironizzato più spietatamente su la carta bollata, su illustri incompetenti dei loro dicasteri, su le votazioni fatte da ignari della materia su cui decidere. Leggi
Francesco P. Borazio
Tullio De Mauro: 'Francesco Paolo Borazio irrompe come una voce diversa, originale, della poesia nei dialetti meridionali. Un meridionale di questo secolo che scherza in versi dialettali: ecco un fatto che basta ad assegnare, di qua di ogni più affinata valutazione critica, una posizione eccezionale a Lu Trajone e al suo autore. Leggi
Marmi ed Alabastri
Il libro del 1876 in versione integrale. I marmi e gli alabastri del Gargano. Leggi
Il paese che ricordo
Vite, miti, memorie delle classi popolari di San Marco in Lamis. Ricerca curata da Sergio D'Amaro e stampata a cura della Amministrazione comunale di S. Marco in Lamis nel 1996. Leggi
I fatti dell'Ospedale di S. Marco in Lamis
I mesi di luglio ed agosto del 2002 furono molto importanti nella storia recente di S. Marco in Lamis e dell'intero Gargano. Il Piano di Riordino Ospedaliero della Regione Puglia si abbatté come una scure sul nosocomio sammarchese... Leggi
Il Gargano e Beltramelli
Il resoconto del viaggio compiuto nel 1905 sul Gargano dal giornalista Antonio Beltramelli. Leggi il libro completo pubblicato nel 1907, con centinaia di foto inedite. Ho arricchito il testo con moltissime note, utilizzando la tecnica dell'ipertesto. Leggi
Unità e Brigantaggio
I drammatici avvenimenti del 1860-63 visti da S. Marco in Lamis.
Il libro completo di Pasquale Soccio Leggi
Francescani in Capitanata
Ampi estratti del libro del grande storico P. Doroteo Forte.
L'Ordine religioso francescano influenza molto la nostra vita, anche se ci sono elementi di crisi e disagio al suo interno. Leggi
Gastronomia e patate
Il p. Michelangelo Manicone, nel 1803, invitava i contadini del Gargano a 'coltivare le patate', da dare agli animali e da mangiare. Propone numerose ricette, che io vi sottopongo insieme ad altri scritti del Frate. Ovviamente sulle Patate. Leggi
Il torrente Iano
Dai ricordi di Vittorio De Filippis, sammarchese emigrato a Varese dove fu Presidente dell'Ordine dei Medici. L'Autore ricorda alcuni periodi della sua infanzia a San Marco in Lamis. Una prosa semplice ma evocativa: sembra il testo di una sceneggiatura. Leggi
Padre Michelangelo Manicone
Un grande frate riformatore, che scriveva anche bene. Un grande conoscitore ed amante del Gargano. La trattazione di quattro comuni del Gargano, con tante curiosità. Leggi
I braccianti
Come vivevano i braccianti di una volta a S. Marco in Lamis e nei paesi del Gargano e del Meridione? Leggi
Contadini e cafoni
Come vivevano a San Marco in Lamis e nel Gargano i condadini ed i cafoni Leggi
Giornate ecologiche
Noi riteniamo che il turismo sia una delle poche prospettive di sviluppo economico di S. Marco; però riteniamo anche che gli interventi ricettivi e tutti i servizi debbano essere concentrati fuori del bosco, a Borgo Celano. Leggi
Il Bosco della Difesa
È il bosco più importante di S. Marco in Lamis e, probabilmente, una delle poche, possibili fonti di sviluppo sociale ed economico della nostra città in quanto ad essa è strettamente connesso lo sviluppo turistico di Borgo Celano Leggi
Il convento di San Matteo
Si trova a S. Marco in Lamis ed è un Monumento nazionale. Dispone di una imponente biblioteca, di numerose raccolte di Beni culturali, quali Tavolette votive, paramenti sacri, archeologia e paleontologia, Lapidarium statue, dipinti ed altro. Una visita vale la pena. Resterete meravigliati. Leggi
Le erbe del Gargano
Il Gargano è, tra l'altro, famoso per la sua biodiversità. Leggi come l'Autore di Gargano segreto parla di due piante. Leggi
Gli animali domestici
E' molto comune trovare nell'entroterra del Gargano la famosa Mucca podolica. Sono anche frequenti il maiale, il pollo domestico, la capra garganica, la pecora. Fate attenzione ai cinghiali! Leggi
I funghi
Sul Gargano ci sono molte specie di funghi, che troverai solamente durante una visita od un soggiorno. Leggi
La località chiamata Zazzano
Una zona interna del Gargano, poco conosciuta ma bellissima. Visitatela! Leggi
Le fracchie
La processione della Fracchie di San Marco in Lamis illustrata con testi di Gabriele Tardio e numerose foto Leggi
Gabriele Tardio
Numerosi scritti del compianto Gabriele, illustrate con numerose note dell'Autore e foto del sottoscritto oppure tratte da vecchi libri. Leggi
La Politica
Nel '600 Antonio Vieira esprimeva nelle sue prediche il concetto di Politica.
Leggi tante curiosità Leggi
Le piante del Gargano
Una grande esposizione della Flora del Gargano
con testi, foto e didascalie Leggi
Giuseppe Giuliani
La Festa di San Matteo a S. Marco in Lamis
dal Bollettino della Biblioteca di S. Matteo Leggi
Castelpagano
Un bellissimo castello medievale
meta di molti villeggianti e camminatori Leggi
Borgo Celano
Frazione di S. Marco in Lamis
Chiave di volta per una prospettiva di sviluppo turistico Leggi
Lu cummente de Sante Mattè
Poesia di Francesco P. Borazio
pubblicata sul Bollettino del Santuario
di San Matteo Leggi
www.treccani.it /magazine/lingua_italiana/speciali/D_Arzo/6_Conti.html del 31 gennaio 2022 Silvio D’Arzo: la rivelazione della scrittura di Guido Conti Annuario Eiar del 1935Ho sentito parlare di Silvio D’Arzo per la prima volta nel 1985, ad un seminario di lettura tenuto dal professor Fabrizio Frasnedi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna. Erano veri e propri corsi di scrittura e lettura nati molto prima che si diffondessero in Italia, ed erano malvisti o semplicemente tollerati, se non ignorati, dagli altri professori. Li frequentavo da matricola spaesata che aveva una gran voglia d’imparare a scrivere. Frasnedi portava, per ognuno di noi, cinque o sei fotocopie di opere di autori diversi, e noi dovevamo capire che tipologia di scrittura avevamo davanti. All’inizio non era importante conoscere l’autore, dovevamo capire la scrittura di primo acchito, “vederla”, ascoltarla, come accade ad un direttore d’orchestra che legge uno spartito e capisce subito di che musica si tratta. Tra queste pagine c’era l’inizio di Casa d’altri di Silvio D’Arzo, uno scrittore reggiano morto giovane, di cui si sapeva poco o niente, e che nessuno conosceva. Ci aspettavamo di leggere grandi autori della letteratura mondiale, non so, Tolstoj o Dostoevskij, Goethe o Schiller, e invece leggevamo romanzi e racconti di autori italiani poco frequentati, di non grande fama. Fu all’inizio una delusione perché non capivo. Casa d’altri di Silvio D’Arzo, I sillabari di Goffredo Parise, Una questione privata di Beppe Fenoglio erano alcune delle opere che Frasnedi c’invitata a leggere; opere e autori che non trovavo nelle antologie scolastiche ed erano fuori dai canoni tradizionali del Novecento. Quando leggemmo e capimmo la lezione, fu una vera e propria rivelazione, per non dire “una rivoluzione”. L’importanza del leggere e conoscere a fondo gli scrittori della propria terra Annuario Eiar del 1935Le lezioni di Frasnedi mi hanno indicato una strada di lavoro e di ricerca che, a distanza di tanti anni, perseguo ancora con dedizione e passione. S’impara a scrivere leggendo bene, con lentezza, le opere degli scrittori; s’impara a leggere prendendo dimestichezza con le tecniche narrative che utilizzano. Leggere e scrivere, dunque, sono un unico atto, due momenti inscindibili, come la diastole e la sistole del battito del cuore. Questa è la lezione di cui ho fatto tesoro, che insegno nei corsi di scrittura, dalla scuola primaria ai master universitari di comunicazione. Pur proponendo autori sempre nuovi e diversi, c’è sempre e comunque Casa d’altri di Silvio D’Arzo che leggo e consiglio continuamente: e ogni volta, per lettori d’ogni età, è una rivelazione. All’Università avevamo avuto la fortuna di scoprire un autore, D’Arzo, che sarebbe diventato negli anni uno scrittore di culto, amato soprattutto dagli scrittori. Questo preambolo è fondamentale per comprendere la mia passione per Silvio D’Arzo, la sua lezione di vita e letteratura, che ha segnato gran parte del mio lavoro. Con lui scoprivo la bellezza della scrittura e l’importanza del leggere e conoscere a fondo gli scrittori della mia terra. E ogni volta che si parlava di D’Arzo era una sorpresa. Il suo racconto più famoso, Casa d’altri, aveva attirato l’attenzione di Eugenio Montale che lo aveva dichiarato «perfetto»; Giorgio Manganelli aveva definito questo «lungo racconto», piuttosto anomalo nella tradizione letteraria del nostro Novecento, una «tragedia teologica». Silvio D’Arzo per anni è stato uno scrittore misterioso, si parlava dell’esistenza di carte segrete, favolosi materiali inediti in mano a diversi eredi, versioni diverse dei suoi scritti, lettere, pubblicazioni sparse in giornali e riviste e non ancora raccolte, con i suoi libri introvabili in edizioni rare a prezzi altissimi nel mercato antiquario. Un autore che aveva lavorato su generi diversi, dai libri per ragazzi, ai racconti, ai saggi di letteratura poi raccolti in Contea inglese: Silvio D’Arzo sembrava imprendibile, con un profilo intellettuale che si ricostruiva pezzo per pezzo, con fatica. Era difficile avere una visione complessiva del suo lavoro. Anche questo vuol dire “leggere bene” un autore. Ed è stato il motivo per cui ho cominciato a fare il ricercatore e poi l’editore, per velocizzare la pubblicazione dei materiali raccolti, muovendomi con maggiore libertà. Rimettere in ordine le carte e i materiali di uno scrittore è un modo per leggerlo meglio, cercando la verità della sua scrittura. Le Opere di D’Arzo Annuario Eiar del 1935Nel 2002, appena fondata la casa editrice Monte Università Parma editore (che metteva insieme, in un progetto molto innovativo, la Fondazione della Banca Monte e l’Università di Parma), decisi come direttore editoriale che avrei pubblicato l’opera omnia di Silvio D’Arzo. Sarebbe stata la prima grande opera della casa editrice. Tutto quello che era conosciuto in quel momento volevo raccoglierlo in un unico volume. Così ho messo insieme una squadra di lavoro, con Alberto Bertoni e Fabrizio Frasnedi, insegnanti all’Università di Bologna, che avrebbero firmato le introduzioni, e la cura dei testi affidata a Stefano Costanzi, Emanuela Orlandini e Alberto Sebastiani. Frasnedi, sempre parco e restìo allo scrivere, aveva detto di sì con grande entusiasmo. Così sono nati i due grandi volumi, quello delle Opere nel 2003, e delle Lettere, a cura di Alberto Sebastiani, l’anno dopo, nel 2004. Quindici anni dopo le lezioni all’Università di Bologna, davo concretezza ad un progetto di riordino dei materiali di Silvio D’Arzo. Un’operazione innovativa, il cui modello erano i Meridiani Mondadori. La mia lunga fedeltà all’opera di Silvio D’Arzo si concretizzava non solo con il riordino dell’opera: da quel momento cominciava il lavoro più difficile, quello di far conoscere il suo lavoro al maggior numero di persone. Le illustrazioni di Meli Nel 2003 avevo pubblicato la “Biblioteca Parmigiana del Novecento”, una collana di 39 volumi tra romanzi, racconti e saggi di autori parmigiani, in allegato con “Gazzetta di Parma”, che aveva avuto un notevole successo di vendite. Sull’onda di quel successo avevo progettato “La biblioteca dei piccoli”, una serie di libri per ragazzi, sempre in allegato con “Gazzetta di Parma”. Avevo inserito di Silvio D’Arzo Il pinguino senza frac e Tobby in prigione. Per l’occasione avevo chiamato Roberto Meli, illustratore e fumettista eccezionale, allora ancora agli inizi ma oggi autore conosciuto soprattutto in Francia, per illustrare le sue storie. I due libri erano stati quelli tra i più venduti della collana. Nella rivista Palazzo Sanvitale Mentre lavoravamo ai due volumi, pubblicavo sul n°6 della rivista “Palazzo Sanvitale”, vero strumento di progettualità della casa editrice, il raccontino inedito di Silvio D’Arzo L’annegata. La foto di copertina vede un Silvio D’Arzo giovanissimo. La parte monografica raccoglieva interventi di Eraldo Affinati, Bruno Arpaia, Valerio Aiolli, Roberto Barbolini, Alberto Bertoni, Giuseppe Bonura, Luca Doninelli, Angelo Ferracuti, Paola Mastrocola, Daniela Marcheschi, Antonio Moresco, Fulvio Panzeri, Laura Pariani, Domenico Scarpa, Antonio Spadaro, Pietro Spirito, Filippo Tuena. La seconda copertina di “Palazzo Sanvitale” dedicata a Silvio D’arzo la pubblicai qualche anno dopo, in occasione di una ricorrenza speciale: i dieci anni della rivista. Così scrivevo nell’editoriale del numero 21-22 del 2007. Ancora una volta è Silvio D’Arzo a occupare la sezione monografica, così come era avvenuto nel numero 6, a dimostrazione che gli argomenti non si esauriscono mai e che la rivista ama approfondirne probabili e interessanti sviluppi. “Palazzo Sanvitale” è pensata non come una serie di pubblicazioni isolate, ma come un unico progetto editoriale. Di D’Arzo proponiamo un nuovo inedito giovanile e una versione finora sconosciuta di un suo racconto, a conclusione di un lavoro mai interrotto che ha condotto alla pubblicazione della opera omnia filologicamente restaurata e, poi, dell’intero corpus delle lettere, rendendo giustizia a uno scrittore non certo minore della storia della nostra tradizione letteraria. Nel volume avevo pubblicato due racconti “dispersi” darziani, firmati con due diversi pseudonimi: La valanga di Raffaele Comparoni e Fine di Mirco di Silvio D’Arzo. Il tutto a cura di Alberto Sebastiani. D’Arzo in mostra Annuario Eiar del 1935In occasione del novantesimo della nascita, nel 2010, prima di lasciare la direzione della casa editrice, volevo celebrare l’autore che aveva segnato i miei dieci anni di lavoro da editore, con quattro volumi, una speciale collana composta da quattro titoli in quel periodo introvabili sul mercato: Penny Wirton e sua madre, Casa d’Altri,Il pinguino senza frac e All’insegna del Buon Corsiero. Di Casa d’altri firmavo la bandella introduttiva. Senza dimenticare la mostra fotografica e documentaria itinerante, dedicata alla vita e all’opera di Silvio D’Arzo, composta da 24 pannelli, che avevo creato insieme a Manuela Cacchioli per far conoscere l’autore: un’esposizione che aveva girato per tanti anni, tra scuole e biblioteche dell’Emilia e della Romagna. Così si chiudeva, almeno per me, un periodo della mia vita di scrittore e di editore all’insegna dello scrittore reggiano. La filologia del leggere bene Le lezioni di Frasnedi mi avevano insegnato anche questo, che “leggere bene” uno scrittore vuol dire, quando possibile, riordinare la sua opera e poi divulgarla. C’è una profonda unità nel mio lavoro di scrittore all’apparenza dispersiva, una coerenza che non si limita alla sola stesura di racconti e romanzi. Bisogna prendersi cura dell’opera dei propri maestri, degli autori amati, cercando di salvaguardare la loro lezione e la loro verità, diffondendo l’opera, rimettendo in ordine le carte. La ricerca, la filologia, e dunque la critica, sono forme diverse, lo ribadisco, del “leggere bene”, con un fondamento etico che riguarda il rispetto dell’autore, della sua verità umana e letteraria. In questo modo avevo fatto mia la lezione di Fabrizio Frasnedi che così racconta, nell’introduzione alle Opere, p. XXV, il suo incontro, il suo amore e la sua fedeltà a Silvio D’Arzo:
Silvio D’Arzo è, per quasi tutti noi, l'autore di Casa d'altri. Questo noi, va da sé, si riferisce alla sotterranea comunità dei lettori, alla solidarietà profonda e nascosta che unisce tutti coloro che hanno con i testi un rapporto vitale, carnale, di pelle. Accadde anche a me, molti anni or sono, di rimanere fulminato dalla lettura del più famoso racconto darziano, e di avere poi sempre conservato gelosamente questo amore, rileggendo e facendo conoscere il testo a generazioni di allievi e di insegnanti. È ovvio che volli poi allargare lo sguardo, e conoscere meglio l'autore di quella gemma. Esplorai così il terreno dal quale quel capolavoro era nato, e incontrai il mistero di un fascino che sembrava fatto apposta per non farsi catturare dalle parole: per lasciare, nel lettore, inappagata la sete di possedere. L'incanto di D'Arzo mi parve, a un certo punto, proprio rivelato dalla capacità dei suoi racconti di sfuggire alla critica delle definizioni, e di avvalorare una poetica dell'afasia: del non rivelare, nella scrittura, la chiave di un senso riassumibile, da una parte, e di lasciare, dall'altra, il lettore nel balbettio di nebulose affettive che rifiutavano di farsi pensiero. Mi hai raggiunto, pensavo, colpito, ferito, ma tu vuoi che quel vulnus non si sciolga nella pacificazione apollinea di un senso.
Frasnedi e l’ossessione ritmica di Silvio D’Arzo Annuario Eiar del 1935Frasnedi a lezione leggeva in due modi la prima pagina di Casa d’altri; faceva una prima lettura con un tono normale; la seconda volta, scandiva con precisione gli accenti, battendo talvolta la mano sul tavolo, come se stesse facendo solfeggio. E la metafora non è banale. La scrittura darziana è quella che lui definiva una “ossessione ritmica”, con la frase costruita su una cadenza di metri “anapestici o anapestico-giambici” che avevano come ricorrenze privilegiate “il settenario di terza e di sesta e il decasillabo manzoniano di terza, sesta e nona” (Opere, p. LXVII). La scrittura di D’Arzo era dunque ritmo, era cadenza, era ossessione. Aveva il passo del montanaro che cammina su per un sentiero alla ricerca di una verità metafisica. Una forma di scrittura molto originale, musicale, con la quale aveva creato le sue opere più importanti come Penny Wirton, Il pinguino senza frac e Tobby in prigione. Una scrittura all’apparenza semplice ma complessa, articolata nel suo farsi, che ti entrava nell’orecchio e dovevi presto dimenticare perché finivi per imitarlo. Questa era la scoperta di uno stile, di un autore imprendibile, sfuggente, originale, fuori dai canoni. Una scrittura molto diversa da quella utilizzata da D’Arzo nel romanzo All’insegna del Buon Corsiero. Il racconto di Casa d’altri si apre con l’abbaiare di cani che annunciano la morte di uno dei pochi abitanti del paese di Montelice, un abbaiare che diventa “sirena del mondo alla fine” e allarga silenzi tra montagne sperdute dell’Appennino reggiano. I protagonisti sono una vecchia lavandaia di nome Zelinda, che tutti i giorni, anche nel crudo inverno, porta a lavare i panni nel fiume accompagnata da una capra, e il suo alter ego, un prete vecchio, un Falstaff dall’ironia sottile, drammaticamente sperduto anch’egli fra tramonti viola, in un paese dove ci sono «sette case», sette tetti e montagne fin che si vuole. La domanda che la vecchia Zelinda deve rivolgere al prete è la spinta che conduce il racconto verso la fine, con una tensione creata non dai fatti ma dal ritmo della scrittura, attraverso una prosodia ossessiva, musicale. Un racconto dove non accade quasi niente. Silvio D’Arzo riesce a dare il tono al racconto tra sospensione e silenzio con questi due vecchi che affrontano in due modi diversi la morte, in un mondo che non gli appartiene, in un mondo “ostile”, diventato all’improvviso “casa d’altri”. D'Arzo, come i protagonisti del suo racconto, è un “esiliato” dal mondo, non ha un destino e non ha un nome ma solo “pseudonimi”. Il suo paese-rifugio non sarà Reggio Emilia, dov’è nato, ma la “Contea inglese” della letteratura, luogo privilegiato in cui cercare le risposte al senso ultimo della vita. Senza un cielo sopra la testa Annuario Eiar del 1935D’Arzo è uno scrittore che apre diversi interrogativi sulla nostra letteratura, sul tema del canone e delle tradizioni, sulle geografie del territorio, sul nostro lavoro di scrittori, con la categoria del “marginale” rimessa in discussione. Non sono forse “centrali” per gli autori che vengono dopo? Affrontano “il senso finale del nostro esistere” senza un cielo sopra la testa. Scrittori appartati che indicano una strada di verità. D’Arzo è uno scrittore morto giovane, non possiamo prevedere come sarebbe stato lo sviluppo dell’opera nella maturità e nella vecchiaia; ha seminato più che raccogliere, ha indicato percorsi a chi viene dopo, com’è successo con Pier Vittorio Tondelli. Tocca a noi inverare la lezione di questi scrittori aurorali. Silvio D’Arzo ha scandito il senso del mio lavoro di scrittore fin dalla mia prima formazione e continua ancora oggi a interrogarmi sul mio modo di scrivere. La tragica beffa del destino volle che uno dei capolavori della nostra letteratura del Novecento, Casa d’altri appunto, uscisse postumo per “Botteghe oscure” nel 1952, proprio l’anno in cui Silvio D'Arzo, appena trentaduenne, lasciava questo mondo che non amava, non riamato.
www.treccani.it /magazine/lingua_italiana/speciali/D_Arzo/5_Lenzi.html del 31 gennaio 2022 La scuola Penny Wirton. “Per qualcosa che vale di più!” di Anna Luce Lenzi Libretto Universitario di Ezio Comparoni.Quel percorso avventuroso che Ezio - Raffaele - Silvio aveva intrapreso fin da piccolo e per sempre, a un certo punto si dovette fermare. Era il 30 gennaio 1952. Non era un lunedì, giorno dell’avvio, ma un giovedì, giorno della pienezza. Ma … in che senso si è fermato? E se non si fosse fermato affatto? Quella ricerca di sé, di un senso alla vita, per cui Ezio impugnò lettura e scrittura, precoci l’una e l’altra, possono davvero essersi conclusi? No, perché invece qualcosa cominciò e continua ancora. Quell’avventura libraria, leggere, scrivere, immaginare, provare, riprovare, abbandonare, riprendere, è uscita dall’intimo del pensiero, si è sollevata dalla superficie della carta, ha preso il largo e si è messa a promuovere ai quattro venti una spedizione senza confini, adatta alla vita non di uno solo, riservato e schivo come Ezio - Silvio, ma di tanti, uomini, donne, ragazzi, piccoli corsari ai primi passi e sorridenti compagne di scuola: eccole, nella scuola Penny Wirton, le proiezioni incarnate di un immaginario vasto, complesso e irrisolto come è stata la letteratura per D’Arzo e come è, inguaribilmente, la vita. Il non finito darziano Annuario Eiar del 1935Troncato nel più bello, proprio quando le vicende storiche avevano indotto Ezio Comparoni a immergersi nell’umanità violenta e inane della guerra e del dopoguerra, il percorso tenace intrapreso dallo scrittore è rimasto inciso in una mappa che non è stata disegnata fino in fondo, ma che non si cancellerà più. È il non finito darziano, il ponte tra vita e scrittura: è lì perché ogni lettore lo attraversi, se vuole, a suo modo, fino a quando approderà dall’altra parte e capirà a che cosa la mappa lo ha guidato. Se mi volto indietro, scesa dal ponte, io vedo una moltitudine di gente che a D’Arzo ha dedicato la sua intelligenza e a volte anche il suo cuore; c’è persino chi duella o tenta di duellare, chi se ne fa custode, chi se ne fa garante nelle patrie lettere. Tanta lodevole attività che sembra sempre sul punto di rinnovarsi e generare germogli nuovi. Se guardo avanti, le pagine scritte svolazzano lontane, autografe o a stampa, e tendono a lasciarsi risucchiare da correnti ascensionali che ce le possono sottrarre anche per un bel po’. Ma intorno a me c’è un movimento multiforme e variopinto che si è generato intorno al nome Penny Wirton, quello del personaggio darziano di Penny Wirton e sua madre, povero e orfano del padre Tedd, che, scoperta una verità inattesa, lascia il suo paese e deve affrontare il mondo. Penny Wirton è una scuola, una strana scuola-nonscuola che è scuola di tutti. A chi viene in contatto con noi spieghiamo sempre perché abbiamo scelto questo nome: non è difficile trasmettere il passaggio dal personaggio Penny a tutti i potenziali Penny che incontriamo, a tutte le potenziali Anna Wirton, la madre, che si arrabattano per mantenere un loro posto dignitoso nel mondo. Quel ponte tra vita e scrittura nel nostro caso ha portato a trasformare in vita la scrittura. Una scuola nonscuola Annuario Eiar del 1935La scuola Penny Wirton dal 2008 insegna gratuitamente l’italiano ai migranti attraverso un sistema di relazione diretta, personale, tra insegnante e allievo: niente classi, niente voti; si accettano studenti durante tutto l’anno, fino all’ultimo giorno; si segnano le presenze, non le assenze; il programma non precede, ma segue la situazione individuale di chi si rivolge a noi, che sia un laureato in Ucraina o un analfabeta del Mali, ognuno affidato a un insegnante tutto per lui. Per questo motivo concorrono al funzionamento numerosi volontari: solo a Roma sono più di cento, in maggioranza donne. Ma semplicemente aderendo alla Carta d'Intesa delle scuole Penny Wirton sono nate per fioritura spontanea altre scuole in tutta Italia, almeno 51 nel 2021: funzionano allo stesso modo, rigoroso quanto libero e sorridente; si richiamano dalle Alpi alle Piramidi, si incontrano e si riconoscono in presenza, online, sui social. La lingua, le lingue Il volontario Penny Wirton impara - per curiosità, per amicizia - a dire “Sciucràn!” a un arabo o “Donnovat!” (grazie) a un bangladese, ma resteranno segnali fra loro, come locuzioni di simpatia: non certo travasi o osmosi omologanti (qualcuno malevolmente finge di temerle) se non negli universali “Ok” “Ciao” “No problem” “Tutto-bbene”. A volte si è costretti a ricorrere a un povero inglese, a un poverissimo francese nel tentativo di aprire un varco, di aiutare la comprensione di termini che non si possono disegnare o indicare o mimare, come gli astratti “felicità” “giustizia”, ma la corsa è sempre verso l’italiano d’Italia, per diventare italiani: Italiani anche noi è il titolo programmatico del manuale e dell’eserciziario per il corso di lingua completo (Affinati Lenzi 2019 e 2019a), nato e cresciuto osservando le reazioni più o meno felici o dimesse degli allievi davanti agli esercizi costruiti per loro, selezionando quelli che riscuotevano successo didattico ed emotivo. E allora l’impegno, l’immersione linguistica sono così totali che il sedicenne Sajib, da poche settimane in Italia, mentre ti aiuta a spostare il sacco nero delle cartacce, vedendolo squarciarsi e rovesciare a terra tutto quel che contiene, esclama costernato “Mannaggia …” con una spontaneità che quasi ti commuove. Tutti cercano di conquistare parole e pronuncia, ognuno a suo modo, con ritmi legati all’età, all’istruzione, alle abitudini: molti si lanciano nell'imitazione acustica, ma poi pronunciano secondo la fonetica nativa: “Abdel, vuoi il quaderno grande o quello piccolo?” “Bìgolo!”, “Sertifichéiti”, chiede Motiur se desidera un attestato di frequenza. Violeta, poi, continuerà a confondersi con gli articoli (“Vengo a la scòla”: ha sempre paura di dimenticarli e li mette anche quando noi li omettiamo) e soprattutto a ignorare le doppie: “caro atrezi” e “machina”. Niente da meravigliarsi: le doppie non sono forse anche uno dei nostri “problemi” nazionali? La mama del Nord, il cibbo di Roma…, per non dire di altri fonemi, come l’asiugamano in Emilia, il cieloterzo che tte leva i bbrutti penzieri, la ’oda di ’avallo in Toscana, per non parlare delle vocali aperte e chiuse (viéni - vièni) diverse da Nord a Sud e unificate in alcune parti (il foglio di Romagna, i fratelli in Puglia …). I nostri studenti, che siano afghani o egiziani o maliani e senegalesi, tutti si adattano il più possibile all'accento che li accompagna nell’apprendimento a scuola o a cielo aperto. Persino su Facebook si danno da fare con l’italiano; magari con gli inconvenienti del caso, che possiamo ben giustificare (a differenza di tanti nostri connazionali che spropositano in parole e atti, infischiandosene della correttezza del bell'idioma nativo) o se non altro comprendere, se pensiamo che ci vuole anche un certo coraggio a esporsi per salutare o ringraziare chi hanno incontrato a scuola: i loro maiestri, che qualcuno saluta affettuosamente con “Un braccio, Kazim”. Hope, Favour, Haziz, Antonella: le persone Annuario Eiar del 1935Entra Hope (ma può essere Blessing, Glory, Charity, Joy …: hanno tutte nomi straordinariamente augurali, le donne della Nigeria) e subito corre felice verso l’insegnante che ha riconosciuto, l’abbraccia. Allegramente mostra il suo capolavoro di capelli a due colori, treccine e volute fantasiose: la vivacità in persona. Entra Favour, altra nigeriana, e si guarda intorno; qualcuno le va incontro e le indica dove sedersi: all’inizio della distesa di tavolini, perché c’è più spazio e lei deve tenersi vicina la carrozzina con la piccola di cinque mesi, che potrebbe dover cullare, allattare … Favour non sorride mai, tanto che neanche la sua creatura fa smorfie sorridenti. Non sai che dramma ha dietro e dentro di sé; non sembra che si diverta particolarmente, eppure non perde una lezione. Ci vorranno mesi, ma alla fine troverà un timido sorriso anche lei. Arriva Haziz, non fai in tempo a vederlo, si è catapultato in direzione di un amico già seduto a studiare, grida il suo saluto a tutta la compagnia… Eh, sì, i quindicenni egiziani danno sfolgoranti segni di vitalità e se non lo fanno, brutto segno, come quando scoprimmo perché Shakim era stanco e nervoso: il fratello che lo aveva spinto a raggiungerlo in Italia era “in ospedale” o meglio … in carcere. Habibi (amico mio, cuoricino), ma Ismak (Come ti chiami)? Come si divertono a farselo ripetere dalla volontaria anziana! E come si intimidiscono e ridimensionano al cospetto delle coetanee italiane (ragazze, per favore, vestitevi con garbo, non sono abituati!) che oggi sono assegnate loro per la lezione: non vogliono mica fare brutta figura. Fanno a chi ricorda più in fretta i nomi degli oggetti indicati, si buttano a costo di chiamare scarpa una sciarpa, ma poi a modo loro, ridendo e scherzando, imparano e se ne fanno vanto. E Alaa l’indolente? Come mai oggi mi dice “Voglio imparare a scrivere come te.”? Vuole scrivere in corsivo! Già: lo hanno infilato in una classe delle medie, lui vorrebbe, ma non riesce a leggere il quaderno del suo compagno di banco! A questo punto è d’obbligo l’elogio della copiatura: che fatica, povero Alaa! Quando riuscirai a copiare dal tuo compagno, vorrà dire che sai leggere e scrivere. E meriteresti il premio. Certo: avete mai provato a copiare una riga di arabo? Provate, provate. Anche tra i volontari c’è una varietà illimitata: oltre ai ragazzi e ragazze del liceo, trovi molte ex insegnanti e molti ex impiegati che si scoprono felici di insegnare, trovi un attore veterano che è lieto di mettersi a disposizione di quella porzione minima di pubblico tutta per lui: lo studente somalo che lo aspetta, che vuole solo Maurizio, suo amico-padre o forse nonno, data la veneranda età. C’è Antonella che riceve gli involtini regalati dalla studentessa cinese, Marcella che si commuove alle lacrime accettando la mela striminzita offerta dall’adulto afghano; c’è il disegno su foglio bianco del ragazzo di Dacca, ci sono i fiori rubati a una siepe per strada … Sono tutte risposte alla gratuità che questi nuovi Penny percepiscono come ricchezza ineguagliabile. Kingsley, nigeriano, non ne fa un segreto: in Nigeria se non paghi tanto (e fa il gesto eloquente con le dita), niente scuola. Tutti gli africani del Mali, del Senegal, della Costa D’Avorio, Gambia, Camerun, Etiopia e Eritrea vedono la scuola come un privilegio un tempo per loro impensabile. Molti dei nostri Penny sognano un avvenire sportivo (e la cronaca calcistica non dà loro torto), ma sono pronti a fare i lavapiatti o, nel migliore dei casi, a riprendere l’attività di falegname o meccanico che esercitavano prima di essere costretti a strappare le radici e avventurarsi oltremare. Per il momento, si tuffano nello studio dell’italiano in questa scuola-nonscuola che non dà voti, non giudica, non ti affoga in una classe numerosa, ma ti dà una persona che pensa solo a te e a quello che di buono puoi imparare; la volta prossima forse avrai un “maestro” o una “maestra” diversa, ma sempre tutta per te. E alla fine? LAnnuario Eiar del 1935a fine non esiste: il corso finisce quando tu trovi un lavoro e allora non vieni più, quando varchi i confini e vai a Nord, quando sei trasferito così lontano che nemmeno le due ore e mezzo cui si è abituato Kingsley basterebbero a raggiungere la tolda di questa nave-scuola … Alla fine potrai avere un bel foglio su carta intestata dove c’è scritto che tu - nome e cognome - nato a - nazione del mondo - il - spesso un fantasioso 1 gennaio … - hai seguito il corso Penny Wirton per un numero X di ore.Annuario Eiar del 1935 Ma nel tuo portafoglio (attento a non perderlo, come è successo ad altri), insieme ai documenti provvisori e ai biglietti o abbonamenti di viaggio, conserverai il piccolo cartellino arancione con il tuo nome, che la Penny ti ha consegnato al tuo primo arrivo per riconoscerti le volte successive e per lasciarti il suo telefono e indirizzo: ti ci sei affezionato come a un ritratto, una fotografia di famiglia, da estrarre e mostrare anche a distanza di anni per dire che ci conosci, che sei stato dei nostri! Che ne dici, Penny Wirton del fu Tedd, dei ragazzi con profili attenti e precisi, capelli nerissimi e lisci, che sembrano scesi dalle navi con il Lord Jim tanto amato da D’Arzo, o degli altri con sorrisi lucentissimi e capelli crespi, spesso arrotolati in lunghe trecce dentro cuffie colorate, che sembrano ospitare ancora negli occhi l’ombra di un cuore di tenebra? E dei giovani ironici e seri che potrebbero essere cammellieri di un altrettanto “darziano” T. E. Lawrence? E di quelli pallidi, dallo sguardo allusivo che pare abbiano trascorso la notte a controllare i varchi del contrabbando in paesi d’erbe e acque e osterie nelle contrade orientali d’Europa? Che ne dice Anna Wirton della giovane Runa con due figli da accompagnare a scuola e andare a riprendere, loro che parlano già italiano meglio di lei? Ma lei sta sognando di tornare a scuola, ha fatto l’esame di terza media e vorrebbe iscriversi alle superiori. Ce la farà? E le giovani mamme senza marito che si avviano a un futuro in compagnia delle creature che accudiscono amorosamente, qualunque sia stata la loro genesi? I figli sono figli, Anna lo sa: la piccola Joy ha il capino pieno di treccine colorate e infiocchettate, quando arriva da noi. Chissà se la mamma le inventerà una leggenda per raccontarle del padre, per farle coraggio quando andrà in classe e le chiederanno di lui: no, forse no, perché la storia di Penny ci ha insegnato che la bella menzogna può far male, che le sofferenze finiranno quando si riuscirà ad azionare il coraggio di vivere. Sì, è proprio questo che ci trasmettono gli scolari Penny Wirton: una gran voglia di vivere, di buttare via la zavorra che li ha appesantiti e finalmente prendere il volo, loro come noi, nella vita. Bibliografia Affinati E., Lenzi A. L. (2019), Italiani anche noi. Corso di italiano per stranieri. Il libro della scuola Penny Wirton. Illustrazioni di Emma Lenzi, Erickson 2019; Affinati E., Lenzi A. L. (2019a), Italiani anche noi. Il libro degli esercizi della scuola Penny Wirton, Erickson 2019.
www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/D_Arzo/1_Sebastiani.html del 31 gennaio 2022 Silvio D’Arzo su “Gerarchia”. Lingua e stile tra regime e ricerca di “umanità” di Alberto Sebastiani Libretto di iscrizione all'Università di Bologna di Ezio ComparoniDopo aver dato la maturità da privatista con un anno d’anticipo, Ezio Comparoni (1920-1952), meglio noto con lo pseudonimo Silvio D’Arzo, si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna nell’a.a. 1937/1938, per poi laurearsi nel 1942 con una tesi in glottologia (relatore il prof. Gino Bottiglioni) dal titolo Aggiunte e correzioni all’A.I.S. per il centro 444 (Comparoni 1990). Il suo percorso di studi universitario è documentato dal libretto conservato presso l’Archivio storico dell’Università di Bologna, che testimonia lo studio in ambito letterario e artistico, con Carlo Calcaterra e Roberto Longhi, del Settecento, secolo in cui D’Arzo ambienta All’insegna del Buon Corsiero e i libri per ragazzi Gec dell’Avventura e Penny Wirton e sua madre; i due corsi, di Letteratura italiana e di Storia dell’arte medievale e moderna, rispettivamente del 1937/1938 e 1939/1940, Cerreto Alpiaffrontano infatti gli scrittori politici del Settecento, la storiografia illuministica in Italia e Ludovico Muratori, e poi Caravaggio, i caravaggisti e i ritorni caravaggeschi europei (con lo spagnolo Francisco de Zurbarán, nome che D’Arzo riprenderà per il personaggio Androgeo Zurbaran per il progetto omonimo mai completato). Il libretto suggerisce inoltre che l’onomastica “slava” del racconto L’osteria (composto nel 1942, uscito postumo, per quanto annunciato in uscita per Vallecchi nel gennaio 1946 sul mensile informativo dell’editore, Le carte parlanti) nasca seguendo il corso di Filologia slava con Arturo Cronia, mentre è probabile che nel corso di Filosofia teoretica, tenuto nell’a.a. 1937/1938 dal prof. Giuseppe Saitta, allievo di Giovanni Gentile, trovi origine concettuale o almeno il vocabolario specialistico un intervento saggistico rimasto finora ignoto alle bibliografie darziane, riemerso solo grazie a riferimenti trovati nei nuovi epistolari acquisiti dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia nel “Fondo D’Arzo - Macchioni Jodi” (vedi in questo Speciale l’intervento di Alberto Ferraboschi): Saggio sulle rivoluzioni. Il primo e unico saggio a carattere filosofico e politico L’articolo appare a firma Silvio D’Arzo nel 1939 nella sezione Arengo, che ospita le “(Collaborazione dei lettori)”, come recita il sottotitolo della rubrica, di Gerarchia. Rassegna mensile della rivoluzione fascista (settembre 1939-XVII, anno XIX n. 9, pp. 644-645), la rivista politica per eccellenza del regime, fondata da Mussolini e uscita dal gennaio 1922 al luglio 1943. Il testo quindi sarebbe il primo pubblicato con il celebre pseudonimo (la sua prima attestazione è invece in una lettera di Vallecchi del 22 maggio 1939),dato che l’autore aveva usato Raffaele Comparoni per l’esordio La valanga del 1934, la silloge Luci e penombre e i racconti di Maschere del 1935. Inoltre, è il primo intervento saggistico noto di D’Arzo, e l’unico a carattere filosofico e politico. La sua attività saggistica, infatti, sarà intensa nel secondo dopoguerra, ma di ambito letterario, pur con considerazioni sulla società coeva. Di seguito, diamo trascrizione integrale di Saggio sulle rivoluzioni, di cui, allo stato attuale degli studi, non si hanno altri testimoni:
Cerreto Alpi“Sono le rivoluzioni che fanno la storia. Bisogna star molto attenti perciò, e profondamente studiare ogni movimento, nelle sue origini, nel suo sviluppo, nel suo fine e nei suoi riflessi immediati e probabili per classificarlo al suo posto e non dargli entità che non gli compete, né attribuirgli portate da cui esorbita. Una riforma, anche la più vasta e complessa immaginabile, non può mai, in nessun caso, essere una rivoluzione: ci vuole qualche cosa di più profondo, e, in un certo senso, di più intimo, per trasformare questo superficiale movimento politico, in quella vera e propria manifestazione di un popolo che è la rivoluzione: la stessa cosa può dirsi sul “sovvertimento” che in ultima analisi, non è che una brusca riforma. D’altra parte, considerandola solo superficialmente, si finisce poi con lo svisare il significato umano ed eterno della rivoluzione: si giunge così, quasi sempre, ad attribuirle quello, tutt’altro che storico, di ribellione e a disconoscere, in conseguenza, che essa sia l’espressione più diretta del “senso eroico” dei popoli che non s’adagiano sul costume. Si parlerà altre volte anche di folle e di capipopolo, questione che, per essere eterna, è sempre moderna ed attuale: se cioè sia il popolo, la massa popolare, a far le rivoluzioni e la storia, o gli uomini forti, gli eroi: o se, anche, popolo ed eroi, massa ed individui, non s’identifichino, per essere questi immediata creazione di quella. Per ora, solo la rivoluzione in sé e per sé, intesa come fenomeno puramente politico, e quindi storico, sarà l’argomento delle nostre osservazioni e deduzioni: osservazioni e deduzioni, si badi bene, tratte soltanto dal corso della storia fino ad ora, che non vanno, come non possono andare, più in là dell’oggi, né assumere l’aspetto rigido di leggi: il che varrebbe a togliere senz’altro alla rivoluzione quella che ne è invece l’essenza: il dinamismo. Lo svolgimento di una rivoluzione passa quasi sempre, e logicamente, attraverso tre stadi, tre fasi, che risulteranno più o meno lunghe (ed anche questo è ovvio) a seconda dei numerosi elementi di svariato e complesso ordine, di cui si dovrà necessariamente servire il movimento: così si dovrà tenere il massimo conto del fattore economia, del fattore morale, del fattore politica: coefficienti, questi, che hanno sempre un’influenza decisiva sulle grandi svolte della storia; che anzi, quasi sempre, le determinano e le indirizzano. C’è più d’uno che sostiene nella maniera più categorica che il fattore primo, che l’unico fattore anzi, della vita dei popoli, delle loro lotte continue e dei loro continui progressi, il più remoto principio e il fine ultimo, insomma, di ogni nostra più disparata attività, sia la sola economia: tutto il resto, perciò, non sarebbe altro che un prodotto del “sentimento economico” dei popoli. Cerreto AlpiQuesta tesi, però, spesso poggiata su argomenti assai solidi e che si vale di ben visibili esempi e di prove a portata di chiunque, non può essere accettata così com’è, tutta in blocco: riconosciamo senz’altro - perché il contrario sarebbe semplicemente da ciechi - l’importanza grandiosa, capitale della economia, ma non l’esaltiamo a quel punto; è un ragionamento freddo come un teorema, questo, che abbatte ogni altro valore morale o, per lo meno, lo pone all’ombra, in sottordine, e noi non siamo, e non possiamo essere così materialisti da accoglierlo nel nostro patrimonio spirituale: si verrebbe così a menomare l’eroismo, per la sua nuova funzione esclusivamente economica, e si eliminerebbe per sempre il sacrificio che sono invece forze vitali ed operanti di ogni rivoluzione. E già che, anche solo di sfuggita, abbiamo ora accennato alle forze morali dei popoli, credo necessario almeno dedicare due righe di risposta a tutti coloro (e, presumibilmente, non saranno pochi) che si chiederanno meravigliati come mai, in questa scala di valori, non si sia tenuto affatto conto della religione, che è invece l’indice più sicuro dell’elevatezza delle genti. Secondo noi sotto una veste, o, per meglio intenderci, in una funzione che chiameremo storica, essa o s’identifica e si perde nella morale, o diventa vera e propria politica; terzium non datur. Nient’altro che politica umana e terrena, dunque, se considerata soltanto come espressione e strumento della volontà della Chiesa: parte della morale, invece, se intesa come livello spirituale. E si potrebbe anche, a proposito, parlare di quella formidabile Rivoluzione sociale che è il Cristianesimo. Ma il nostro scopo è soltanto quello di dimostrare che la rivoluzione è concezione, e quindi vita: sofferenza e vita: in una parola umanità. Perciò la storia non la farà, assolutamente l’uomo politico, che esaspera gli ideali, né l’uomo economico che li uccide: può essere, e sarà, soltanto l’uomo morale che li congiunge e li tempera: che non cerca di abbattere i valori spirituali, ma non vuol d’altra parte esagerarne alcuni soltanto. Per questo, esclusivamente per questo, le rivoluzioni, umane, profonde e storiche come noi l’intendiamo, non verranno mai dall’Africa che non ha uomini morali, né sorgeranno mai dall’America che ha solo uomini economici: ed anche oggi, noi abbiamo il filiale orgoglio di vedere l’Europa dar vita alla storia e imprimerne il corso. Da lei, ancora una volta, da noi, anzi, sorgono le concezioni nuove che vanno per il mondo e lo plasmano”.
Cerreto AlpiLa struttura è tipica del testo argomentativo, scandita da una paragrafazione puntuale: definizione dell’argomento, affermazione di una tesi con relative argomentazioni, confutazione delle argomentazioni contrarie o divergenti, conclusione. Vi troviamo però soluzioni poco affini alla scrittura saggistica canonica, come espressioni virgolettate, quindi probabili citazioni, ma senza attribuzione (“sovvertimento”, “senso eroico”, “sentimento economico”), affermazioni vaghe (“ci vuole qualche cosa di più profondo”, “che si vale di ben visibili esempi e di prove a portata di chiunque”) o perentorie, quasi sentenziali, e non argomentate: “come mai, in questa scala di valori, non si sia tenuto affatto conto della religione, che è invece l’indice più sicuro dell’elevatezza delle genti”; “Perciò la storia non la farà, assolutamente l’uomo politico, che esaspera gli ideali, né l’uomo economico che li uccide: può essere, e sarà, soltanto l’uomo morale che li congiunge e li tempera: che non cerca di abbattere i valori spirituali, ma non vuol d’altra parte esagerarne alcuni soltanto”. Alle citazioni dirette, infine, sono preferiti i riferimenti generici (es. “C’è più d’uno che sostiene”), soluzione che peraltro ritroveremo nella saggistica postbellica, ad es. in Robinson ’48: “Senza voler prendere la mano a quei commentatori che in ogni verso di Dante giurano di trovar racchiuso tutto lo scibile umano”. Dialogo con Gentile Potremmo ipotizzare che la scelta dell’allusione, reticente, sia dovuta alla notorietà di espressioni e posizioni del dibattito politico e filosofico coevo. Il testo pare infatti dialogare con il neoidealismo gentiliano, in particolare con la sua concezione della storia, ma ritroviamo echi marxisti (filtrati forse dallo stesso Gentile, o da Croce) nel riferimento all’economia come struttura, inoltre nelle affermazioni sul dinamismo e sullo spirito eroico supponiamo un’influenza del corso di Saitta (dedicato, stante l’Annuario, alla concezione eroica della vita nella filosofia moderna; religione e filosofia; la dialettica moderna; la coscienza illuministica; la filosofia dell’azione). Si tratta di concetti dibattuti nella discussione culturale fascista (Tarquini 2011), in cui si forma Comparoni, peraltro attento alle sollecitazioni culturali anche non allineate al regime (Sebastiani 2019), come testimoniano, sia durante che dopo la guerra, le citazioni di Croce nel carteggio con Vallecchi in relazione alla letteratura per l’infanzia (D’Arzo 2004: 47) e nel saggio Maupassant (“Fortuna che, in mezzo a tanto odor di tomba, Croce, Stefano Zweig e Thomas Mann danno tranquillamente a Cesare quel che è suo”). Pluralis maiestatis Esula però dal nostro ambito di ricerca un commento alla riflessione filosofica di D’Arzo; intendiamo piuttosto osservarne alcuni fenomeni stilistici e linguistici funzionali a contestualizzare il testo nella produzione darziana e nell’evoluzione della sua scrittura. Partendo da una questione retorica, notiamo ad es. che Saggio sulle rivoluzioni, dopo l’iniziale andamento impersonale, introduce il pluralis maiestatis (da “l’argomento delle nostre osservazioni e deduzioni”), soluzione poi non adottata in Inchiesta sulla narrativa (1942), il primo intervento “teorico” darziano noto prima d’ora, scritto in forma impersonale, mentre negli articoli successivi prevale la prima persona singolare (es. in Polonio o il sentimento serio della vita: “Così comune, dicevo, la storia, da apparire nuova affatto”; in Robinson ’48: “credo sul serio non sia cosa facile incamminarsi [...]”), spesso però affiancata da un uso inclusivo della prima persona plurale. Si tratta di una soluzione stilistica con cui D’Arzo punta alla costruzione di una complicità con il lettore: l’autore, con fare pedagogico, coinvolge nel processo interpretativo i suoi interlocutori, soluzione che riscontriamo in nuce anche in questo testo, a partire dall’inciso “per meglio intenderci”. Un noi inclusivo Se, infatti, di rado incontreremo l’alternanza io/noi per la voce autoriale (già qui: “abbiamo ora accennato alle forze morali dei popoli, credo necessario almeno […]”), stilema darziano è piuttosto il noi inclusivo che abbraccia la comunità dei lettori. Ad es. in Lisola di Tusitala: “E una cosa, quanto all’isola, vorrei rilevare, grazie alla quale l’avventura non deve considerarsi irrimediabilmente finita e il mare non si richiude per l’eternità sullo scoglio: perché infatti ci sembra che appunto da questo nasca quel sottile potere suggestivo che ci rende ancor oggi il sogno possibile”. Vorrei rilevare e ci sembra mostrano l’alternanza autoriale, ma ci rende estende il referente del pronome. Estensione che abbiamo anche in Saggio sulle rivoluzioni in “noi abbiamo il filiale orgoglio di vedere l’Europa dar vita alla storia e imprimerne il corso”, poi ad es. in Henry James: “Ormai dei fatti siamo arrivati a farcene una specie di culto o poco meno; direi che non si crede più che in quelli”; o in Hemingway: “Bene. Per conto mio, io invece penserei d’andar cauti. […] Ma lasciamo per ora andar Faulkner, scrittore in fondo più citato che letto; e fermiamoci piuttosto su Hemingway”. E in Maupassant la comunità ideale istituita dal noi è esplicitamente denominata: “Quanto al noi, suoi lettori, è positivo che ci ignora: tranquillamente, senza orgoglio, ma ci ignora”. Perentorio Cerreto AlpiRispetto alla produzione successiva, inoltre, di Saggio sulle rivoluzioni va sottolineata la scarsa presenzadi formule dubitative o attenuative ricorrenti in D’Arzo, ovvero verbi, avverbi e costrutti «seminatori didubbio» (Marazzini 1984), qui assenti, come parere, magari, forse, avremmo anche. Incontriamo però ainfrangere la successione degli assai perentori «non può mai, in nessun caso», o «è sempre moderna edattuale», l’uso di quasi sempre: «si giunge così, quasi sempre, ad attribuirle quello, tutt’altro che storico,di ribellione», «Lo svolgimento di una rivoluzione passa quasi sempre, e logicamente, attraverso trestadi». La titubanza che la locuzione introduce è significativa nella prossimità di sempre a quasi semprein «coefficienti, questi, che hanno sempre un’influenza decisiva sulle grandi svolte della storia; che anzi,quasi sempre, le determinano e le indirizzano». È una spia dello stile darziano (narrativo soprattutto) inun testo dai toni ben lontani da quelli noti, in cui però riscontriamo fenomeni attestati nella scritturasuccessiva (per cui rimandiamo anche a Testa 2004, Martignoni 1984), come le allocuzioni al lettore«Bisogna star molto attenti perciò», «si badi bene», il colloquialismo «tutta in blocco», fino all’incisoidiomatico «perché il contrario sarebbe semplicemente da ciechi» che peraltro nomina una delle figuretopiche darziane per eccellenza: il cieco. O come l’anadiplosi («[…] delle nostre osservazioni e deduzioni:osservazioni e deduzioni, si badi bene, [...]»), le coppie aggettivali («il significato umano ed eterno dellarivoluzione», «la più vasta e complessa immaginabile, moderna e attuale, elementi di svariato ecomplesso ordine»), o, nell’ambito della punteggiatura, l’uso non sempre standard della virgola (forse quianche dovuta a errori di battitura in «che[,] in ultima analisi, non è che una brusca riforma»), o ritmico(«ed anche oggi, noi abbiamo il filiale orgoglio»), e quello dei due punti in successione nella stessa frase. Freddo come un teorema Annuario Eiar del 1935Anche a livello lessicale riscontriamo fenomeni rilevanti per l’evoluzione della scrittura darziana: hapax,prime attestazioni e futuri stilemi. Innanzitutto, anche per il tema trattato, rileviamo una presenzaconsistente di lessico filosofico e politico. Il primo è testimoniato ad es. da parole come entità, o dasintagmi quali «il più remoto principio e il fine ultimo», del tutto assenti nella produzione letteraria edepistolare coeva e successiva, come anche i sostantivi fattore, coefficiente, materialisti, fenomeno, i verbiplasmare e svisare, l’espressione forze morali dei popoli, la formula si dovrà necessariamente, mentreprincipio appare usato solo per ‘inizio’. Segnaliamo anche l’insistenza sulla parola popolo (e derivati e composti come popolare e capipopolo), che conta qui 9 occorrenze contro le 14 nel resto dell’opera darziana, mentre ritroviamo il sintagma nominale "nel nostro patrimonio spirituale" in L’uomo che camminava per le strade, coevo all’articolo ma edito postumo: "Siamo troppo abituati a servirci delle frasi fatte, che adottiamo sul momento per comodità, e che a lungo andare vengono a far parte del nostro patrimonio spirituale" (D’Arzo 2003: 169). Tra articolo e testo letterario riscontriamo anche il passaggio della similitudine "freddo come un teorema" in due occasioni: "Una dimostrazione parca, fredda eprecisa come un teorema" (p. 465); "Era freddo, parco e preciso come la dimostrazione d’un teorema: diceva spesso evidentemente e, per indicare la difficoltà di qualche cosa, accennava a un procedimento molto laborioso" (p. 142), in cui, di fatto, D’Arzo ironizza sullo stile usato in Saggio sulle rivoluzioni. Nell’Italia fascistizzata Per quanto riguarda il lessico politico, l’intervento su Gerarchia appare in anni in cui, ricorda Norberto Bobbio (1973: 235), "gli intellettuali superstiti, ormai inquadrati, diedero vita all’Istituto di mistica fascista", mistica legata alla figura di Mussolini, che almeno nell’articolo darziano non è nominato. Se però non abbiamo riferimenti al mito del Duce, né appare la parola fascismo, è un fatto che D’Arzo cresca e viva in un’Italia fascistizzata, esordisca nella Antologia dei giovani scrittori e poeti italiani (1934) con la prefazione dello scrittore legato al regime Guido Milanesi, e tra il 1940 e il 1941 pubblichi su Il Meridiano di Roma e Quadrivio, ed è indubbio che la sua scrittura risente delle peculiarità linguistiche del Ventennio (Raffaelli 2010). Basti notare l’insistenza nel Saggio sulle rivoluzioni sul "senso eroico" dei popoli e di parole come eroismo, sacrificio, aggettivazioni roboanti del tipo formidabile, eterna, importanza grandiosa, espressioni come "forze vitali ed operanti di ogni rivoluzione", "grandi svolte della storia", affermazioni quali "noi abbiamo il filiale orgoglio di vedere l’Europa dar vita alla storia e imprimerne il corso". Un vocabolario e uno stile che ritroviamo ad es. nelle poesiole pubblicate quattro anni prima in Luci e penombre, non prive di risonanze dei miti e della retorica fascisti, per cui basti leggere, ad es., 4 Novembre:
"O madri, voi che della vostra carne / la carne deste, e che del vostro sangue / il sangue offriste all’ara del dovere, / alzate il volto al bacio del martirio; / soldati, alzate i vostri moncherini / che seppero la gloria e il sacrificio / e fissate con l’orbite accecate / la sfolgorante primavera nuova / [...]".
SAnnuario Eiar del 1935ono invece assenti dai successivi testi letterari darziani elementi del lessico politico quali rivoluzione, riforma, "sovvertimento", movimento, mentre prendendo movimento politico riscontriamo alcune occorrenze, per quanto generiche, della parola politica, come aggettivo e sostantivo, nei coevi Piccolo mondo degli umili ("Prende il foglio, lo mette sotto gli occhi di chi ha dubitato un solo istante delle sue idee ed esclama con intimo compiacimento: “Leggete, lì, ragazzo, e poi venite a parlarmi dipolitica” ") e Fine di Mirco ("Mirco non parlava mai di politica né aveva le tasche"), e insieme a democratico in L’uomo che camminava per le strade: "Ma, detto fra noi, abbiamo avuto qualche divergenza politica, sai ... Lui non è democratico, ecco". La parola intimo Saggio sulle rivoluzioni è quindi da inserire nel clima linguistico e culturale del tardo Ventennio, cometestimonia anche l’affermazione razzista per cui «le rivoluzioni, umane, profonde e storiche come noil’intendiamo, non verranno mai dall’Africa che non ha uomini morali», ma va notata una sensibilitàpersonale che emerge in spie lessicali, soluzioni retoriche e stilistiche che esulano dalla scritturasaggistica, filosofica e politica, e che caratterizzeranno la poetica del D’Arzo maturo. Nella frase «ci vuolequalche cosa di più profondo, e, in un certo senso, di più intimo» troviamo ad es. intimo, ovvero unaparola chiave dell’autore per esprimere l’interiorità e una difficile condizione relazionale tra sé e il mondo. La ritroviamo (come anche le forme intime e intima) nelle lettere a Vallecchi e ad Ada Gorini, e nei coevi, o comunque riconducibili al periodo formativo, Essi pensano ad altro, L’uomo che camminava per le strade, All’insegna del Buon Corsiero, L’osteria, Maschere. La parola è poi presente anche nella produzione saggistica del dopoguerra, e in Tobby in prigione. Quale rivoluzione Dalla rivista Al Dòmèla del novembre 2018Il concetto è strettamente connesso con l’elemento più significativo, per la scrittura e la poetica darziana,di questo testo: la definizione di “rivoluzione”. Curiosamente, l’intervento appare nello stesso numero della rivista che ospita Concetto mussoliniano della “rivoluzione permanente” di Giuseppe Bottai, articolo che identifica fascismo e rivoluzione, e che riprende fin dal titolo il celebre concetto trotskiano, ma all’interno della retorica della "rivoluzione in marcia" tanto cara al regime (Lucaroni 2015), definendola come "realtà stessa del processo storico" che, con radici nel Risorgimento e distinta da quella Francese, vive una prima fase nella Grande Guerra, "che acquista un contenuto morale, politico e sociale di rinnovazione", e poi, sotto la guida di Mussolini, diviene una "energia creativa, materiale e spirituale insieme, che si mantiene integra attraverso gli anni e si affina nelle continue prove", "un moto interiore", "una forza in azione [ … che] genera il Fascismo" (Bottai 1939). Bisognerebbe indagare nella corrispondenza e negli archivi redazionali di Gerarchia per capire se sia solo una coincidenza la pubblicazione di Saggio sulle rivoluzioni nello stesso numero del testo di Bottai, ma è innegabile l’affinità di elementi lessicali e concettuali (basti ricordare, per il mito dell’azione: "il che varrebbe a togliere senz’altro alla rivoluzione quella che ne è invece l’essenza: il dinamismo"); è però interessante notare una peculiarità darziana quando afferma che: "la rivoluzione è concezione, e quindi vita: sofferenza evita: in una parola umanità". L’uso di concezione è ambiguo, può rimandare al concepimento, all’elaborazione di una riflessione, all’assunto fondamentale di un pensiero (GDLI), ed è accostato a vita con un rapporto esplicativo, per cui sottende una metafora biologica che riconduce il vitalismo (il dinamismo) in un orizzonte dove si incontrano vita e sofferenza, evocando così di fatto una complessità esistenziale e una contraddittorietà rispetto al vitalismo energico sintetizzate in umanità. Un processo di semantizzazione che depotenzia l’azione concreta, il gesto eroico, e interiorizza la trasformazione, intima, fatto insolito per la retorica di regime. Solitudine e socialità Dalla rivista Al Domela di novembre 2018La parola umanità è assente nel saggio di Bottai, ed è curiosamente un termine che Benedetto Croce userà nell’articolo Il fascismo come pericolo mondiale, sul New York Times, il 14 ottobre 1943, nell’individuazione delle premesse ideologiche del fascismo, per cui l’ideale del superuomo "era un ideale profondamente immorale e anticristiano in quanto negava l’umanità dell’uomo" (Croce 1993). ‘Umanità’, quindi, non come ‘genere umano’ ma come ‘natura umana’, ‘partecipazione alla condizione umana’ (GDLI). Tale significato è prossimo all’uso darziano, che parla anche di "significato umano ed eterno della rivoluzione", di "rivoluzioni, umane, profonde e storiche", ed è spia della sua peculiare ricerca poetica, che svilupperà nel dopoguerra. Nel coevo L’uomo che camminava per le strade, però, l’espressione è usata per ‘insieme degli esseri umani’: "Egli per l’umanità esisteva ormai solo in quanto sichiamava Umberto Frassi ed aveva ucciso una donna la sera del sette giugno delmillenovecentotrentacinque" (D’Arzo 2003: 157), quindi è in Gerarchia che appare con il significato poi sviluppato come espressione della ‘condizione di essere umano’ che ritroveremo nella Prefazione a Nostro lunedì("Ma il curioso era questo. LDalla rivista Al Domela di novembre 2018eggevamo già il vecchio Conrad, e il vecchio Melville e Cecof: ci salutavamo alle volte citando una frase di Lord Jim o di Bartleby, e per scrivere una novella alla Cecof avremmo dato ogni cosa e anche più. "Che umanità ... che umanità» dicevamo", p. 497), o nei saggi Polonio e Kipling e l’isola (pp. 562. 568), fino a definire una condizione apparentemente ossimorica (come "sofferenza e vita"), consapevole e a suo modo aristocratica, di empatia: una "dolorosa simpatia per gli uomini", "virile e solitaria e malinconica" in Joseph Conrad o dell’“Umanità" (pp. 585, 591), saggio che focalizza il concetto fin dal titolo e lo affronta nell’analisi dell’opera di Conrad, per cui: "se ci furono mai circostanze e atmosfere adatte a formare un suo pubblico, circostanze e atmosfere ci sembrano, per più di un aspetto, quelle appunto di adesso: se ci furono uomini che poterono con certa facilità riconoscersi in qualcuna delle creature di Conrad e sentirne non solo letterariamente l’esilio, questi uomini, credo, si possono trovare fra noi". Qui, nel consueto movimento pronominale, sposta l’asse del discorso dal letterario al sociale. È "la possibilità [...] di “un diretto rapporto cogliuomini” " in T.E. Lawrence (p. 610), che incarna "un punto di vista moderno", come scrive a Vallecchi nel1946 (D’Arzo 2004: 160), e che nel 1947 specificherà come "il desiderio di solitudine, il bisogno di solitudine, e nello stesso tempo il desiderio di amare e di scendere in mezzo agli uomini" (p. 198). Alla ricerca di umanità Saggio sulle rivoluzioni, quindi, al di là degli evidenti debiti, nella commistione di lingua roboante dir egime e concezioni filosofiche in voga lascia trapelare un lessico e una sensibilità che si discostano dalla retorica dominante, e mostra come D’Arzo, già nel 1939, stia cercando quel percorso individuale, intimo, introducendo il concetto di umanità, parola chiave per comprendere nel dopoguerra la sua ricerca poetica e il conflitto con la produzione (neo) realistica egemone in ambito artistico, letterario in particolare (Macchioni Jodi 1984: 106, Vignali 2010: 50-52). A ben vedere, quindi, è il suo primo timido tentativo di affermazione da outsider, come lo definirà Pier Paolo Pasolini nel 1961 (Pasolini 1999), per quanto alla continua ricerca di un suo posto al mondo. Bibliografia Dalla rivista Al Domela di novembre 2018Si ringraziano, per la consulenza in ambito filosofico, Igor Pelgreffi e Gian Luigi Zucchini. Bobbio N. (1973), La cultura e il fascismo, in Fascismo e società italiana, a cura di G. Quazza, Torino,Einaudi, pp. 209-246 Bottai G. (1939), Concetto mussoliniano della “rivoluzione permanente”, in Gerarchia. Rassegna mensile della rivoluzione fascista, settembre 1939-XVII, anno XIX, n. 9, pp. 592-599 Comparoni E. (1990), Aggiunte e correzioni all’A.I.S. per il Centro 444, a cura di U. Bellocchi, Centro Studi sul Dialetto Reggiano, Albinea Croce B. (1993), Il fascismo come pericolo mondiale, in Scritti e discorsi politici (1943-1947), vol. I, a cura di A. Carella, Napoli, Bibliopolis, pp. 15-23 D’Arzo S. (2004), Lettere, a cura di A. Sebastiani, Parma, Monte Università Parma D’Arzo S. (2003), Opere, a cura di S. Costanzi, E. Orlandini, A. Sebastiani, Parma, Monte Università Parma Lucaroni G. (2015), Appunti sulla “rivoluzione fascista”: Gerarchia, 1922-1943, in “Nuova Rivista Storica”, vol. XCIX, fascicolo III, pp. 923-942 Macchioni Jodi R. (1984), D’Arzo critico letterario e collaboratore di riviste, in Silvio D’Arzo. Lo scrittore ela sua ombra. Atti delle Giornate di studio, Reggio Emilia, 29-30 ottobre 1982, Firenze, Vallecchi, pp. 99-114 Martignoni C. (1984), Per l’elaborazione testuale e stilistica di Casa d’altri, in Silvio D’Arzo. Lo scrittore e la sua ombra. Atti delle Giornate di studio, Reggio Emilia, 29-30 ottobre 1982, Firenze, Vallecchi, pp.31-50 Marazzini C. (1984), Lingua e stile nell’opera di Silvio D’Arzo, in Silvio D’Arzo. Lo scrittore e la sua ombra. Atti delle Giornate di studio, Reggio Emilia, 29-30 ottobre 1982, Firenze, Vallecchi, pp. 115-128 Pasolini P.P. (1999), Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori,pp. 2321-2324 Raffaelli A. (2010), Fascismo, lingua del, in Enciclopedia dell’Italiano, a cura di R. Simone, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Sebastiani A. (2019), L’abbandono di una poetica. Intertestualità e processi di riscrittura in Gec dell’Avventura di Silvio D’Arzo, in “Otto/Novecento”, a. XLIII, n. 2-3, pp. 23-53 Tarquini A. (2011), Storia della cultura fascista, Bologna, il Mulino Testa E. (2004), Lingua e dialogo in Casa d’altri, in Silvio D’Arzo scrittore del nostro tempo. Atti della Giornata di studi, Reggio Emilia, 13 aprile 2002, Reggio Emilia, Aliberti, pp. 29-41 Vignali E. (2010), Silvio D’Arzo. Scrittore fra la provincia e il mondo, Bologna, Archetipo libri
www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/D_Arzo/mainSpeciale.html Molto contavamo su di te, Silvio D’Arzo. Tra lingua, stile e filologia Cerreto AlpiSilvio D’Arzo è lo pseudonimo più noto con cui Ezio Comparoni (Reggio Emilia, 1920-1952) ha firmato le sue pubblicazioni a partire dal romanzo All’insegna del Buon Corsiero (Vallecchi 1942). Il suo capolavoro è considerato Casa d’altri, uscito postumo come la maggior parte delle sue opere, ma, anche considerando la morte precoce, D’Arzo è stato un autore incredibilmente prolifico, come testimoniano le oltre mille pagine in cui nel 2003 sono stati raccolti i suoi testi narrativi, per adulti e perragazzi, poetici e saggistici (Opere, Mup), a cui vanno aggiunti i ritrovamenti successivi, tra cui un intervento apparso su Gerarchia nel 1939, Saggio sulle rivoluzioni, finora ignoto e qui riproposto per la prima volta. Questo Speciale, curato da Alberto Sebastiani, vuole offrire alcuni esempi della ricchezza linguistica dell’autore, dei problemi filologici che comporta la sua opera, di come essa abbia dato vita a esperienze didattiche ed editoriali di rilievo. Così, analizzando e contestualizzando Saggio sulle rivoluzioni nell’opera dell’autore, Sebastiani individua la prima apparizione di una parola chiave della produzione letteraria e saggistica darziana, ovvero “umanità”, mentre Rosarita Digregorio affronta la lingua della produzione per ragazzi, interrogandosi anche sulla sua collocazione nella tradizione italiana. Cerreto AlpiLe ipotesi formulate dai due interventi andranno verificate anche alla prova dei tanti manoscritti e dattiloscritti con cui, dal 2016, è stato istituito il “Fondo D’Arzo – Macchioni Jodi” alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. Un patrimonio che si è accresciuto di nuovi epistolari nel 2019, e della cui importanza offre qui una panoramica Alberto Ferraboschi. Il Fondo, infatti, sta permettendo di scoprire inediti, aprire nuove questioni filologiche sui testi editi, o affrontare lacune relative ad esempio a progetti annunciati nelle lettere e poi abbandonati, o di cui non si sono trovati riscontri. In quest’ambito indaga il saggio diStefano Costanzi, che sta interrogando carte del Fondo riconducibili al progetto Nostro lunedì di Ignoto del XX secolo. Un libro di "500 pagine", scriveva D’Arzo a Vallecchi il 26 settembre 1951, a pochi mesi dalla morte, un romanzo di cui nelle ricerche degli anni Ottanta si sono individuate le tracce in alcuni racconti. A proporre l’ipotesi, avvalorata e sviluppata ora dai ritrovamenti di Costanzi, era stata Anna Luce Lenzi, tra le prime studiose di D’Arzo, che però in questo Speciale affronta in una prospettiva inedita il rapporto tra letteratura e vita tanto caro allo scrittore, raccontando un’esperienza personale nata dalla lettura di Penny Wirton e sua madre. Lei e suo marito, Eraldo Affinati, hanno infatti fondato nel 2008 una scuola per insegnare l’italiano ai migranti chiamandola “Penny Wirton”, come il personaggio darziano, orfano, povero, costretto ad affrontare il mondo con le sue sole forze. La condivisione delle sue avventure con le persone che si iscrivono alla scuola è parte del percorso di apprendimento della lingua italiana, qui testimoniato, e della scoperta della ricchezza esistenziale di un testo letterario. La produzione di D’Arzo quindi attiva anche progetti che vanno oltre la ricerca letteraria, o filologica, e approdano alla vita reale, a territori di formazione e di didattica della lingua; o editoriali e di scrittura, come testimonia Guido Conti, che riflette su come il suo incontro con l’autore reggiano lo abbia portato,da scrittore, a una particolare attenzione alla lingua e, da editore, fondatore e direttore editoriale della Mup fino al 2010, a pubblicarne le Opere, nonché, successivamente, edizioni illustrate dei singoli testi,specie di quelli per ragazzi. È quindi uno Speciale che crede in un futuro proficuo per gli studi su Silvio D’Arzo, nel settantennale della sua scomparsa. D’altronde, come scrisse Attilio Bertolucci il 23 dicembre 1950 a Comparoni, parlandogli dei progetti per la rivista Paragone
"non credere che t’abbiamodimenticato: l’altro giorno a Firenze coi Longhi, progettando per il [19]51 (lo sai che usciremo sempre a80 pag.?) molto contavamo su di te".
www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/D_Arzo/2_Digregorio.html del 1 febbraio 2022 Questa è roba da libro: Silvio D’Arzo scrittore per ragazzi di Rosarita Digregorio Silvio d'Arzo, scrittore per ragazziTutta la produzione darziana per ragazzi è arrivata a noi per vie postume, traverse, complesse, per certi versi quasi miracolose, visti i tanti ostacoli non solo esterni, ma persino interni alla sua stessa genesi. La vita breve e travagliata del giovane autore, intrecciata al dramma della guerra; i timori e le titubanze editoriali di fronte a una narrativa innovativa, in qualche modo deflagrante e rischiosa, carica di suggestioni contrastanti; soprattutto la furia creativa dello stesso D’Arzo che sottopose questi romanzi e racconti a un processo compositivo non lineare, pieno di idee e ripensamenti, un cantiere in continua evoluzione, sempre aperto perché costantemente aperta era la riflessione dello scrittore emiliano sulla scrittura e la letteratura. Tante e diverse, dunque, le ragioni che ci hanno consegnato edizioni solo postume di tutte le opere per ragazzi: Penny Wirton e sua madre, Tobby in prigione, Il pinguino senza frac. Annuario Eiar del 1935Ma anche Gec dell’avventura, romanzo inedito e incompiuto, scritto tra il 1944 e il 1945, per molto tempo considerato come la prima, ancora incerta stesura di Penny Wirton e che, invece, nel 2020, grazie all’edizione critica di Alberto Sebastiani e all’epilogo apocrifo affidato a Eraldo Affinati, ha trovato con Einaudi una vita propria del tutto indipendente e significativa. Sempre a Einaudi, del resto, si deve la prima pubblicazione, nel 1978, ne Gli struzzi Ragazzi – la stessa collana che aveva accolto Rodari, Lodi, Luzzati - di Penny Wirton e sua madre, con disegni appositamente eseguiti da Alberto Manfredi sin dal1959. La storia del giovane emarginato Penny, alter ego letterario di quell’Ezio Comparoni che fece per tutta la vita i conti con le origini umili e marginali e soprattutto con la mancanza del padre, pure aveva visto la sua forma definitiva nel 1948, proprio dopo l’abbandono del progetto di Gec, rimanendo tuttavia in un cassetto fino a quando Rodolfo Macchioni Jodi, conterraneo, prima vicedirettore della Biblioteca Panizzi e poi docente di Letteratura italiana all’Università di Perugia, amico ed estimatore di D’Arzo, non intraprese l’opera di curatela delle sue carte, con lo sguardo doppiamente attento del filologo e dell’amico. Anche l’incompiuto racconto Una storia così, scritto poco tempo prima della prematura scomparsa dello scrittore, ha recentemente rivisto la luce in forma autonoma con Corsiero Editore (2021), arricchendosi del finale scritto da Matteo Razzini e delle illustrazioni di Giuseppe Vitale, dopo un’apparizione in appendice al saggio critico Comparoni e l’altro di Paolo Lagazzi (1992). Queste riprese editoriali contemporanee ci dicono quanto sia ancora vitale e potente la vena darziana: il racconto tenero e drammatico de Il pinguino senza frac, per esempio, ha avuto nel 2015, di nuovo con Corsiero, un’elegantissima riedizione, con le tavole poetiche di Sonia Maria Luce Possentini, risultata vincitrice del premio The White Ravens 2016 e rielaborata, sempre da Corsiero, anche in Comunicazione Aumentativa Alternativa. Il dono della proposta di Vallecchi Silvio D’Arzo approdò alla letteratura per ragazzi grazie all’intuizione dell’editore Vallecchi, che, in una lettera del 12 febbraio del 1943, lo invitava senza tanti giri di parole a scrivere “un libro per i ragazzi”.
“Con la vostra fantasia – lo incalza Vallecchi - che si accende anche nelle occasioni più modeste, mi sembra che potreste riuscire brillantemente anche nel settore della letteratura infantile. Naturalmente bisognerebbe tenere presente che certi resultati magici della vostra prosa non sono adatti per i piccoli lettori, i quali non rintraccerebbero il valore evocativo di gesti, situazioni, ecc. Ma di queste messe a punto sicuramente non avete bisogno”.
Annuario Eiar del 1935L’editore sembrava così materializzare un desiderio che, sulla scia della lettura delle fiabe di Perrault e di J. Matthiew Barrie, D’Arzo in realtà coltivava da tempo, come egli stesso rivelava nella risposta del 27 febbraio 1943. Quella proposta fu quindi accolta come un dono,lo sprone a liberarsi da ogni ritrosia e a gettarsi in quell’impresa fino ad allora solo vagheggiata, non senza preoccupazione e timore, vista la delicatezza della sfida, i pregiudizi degli intellettuali e della “letteratura alta”, presso cui pure D’Arzo ambiva ad accreditarsi definitivamente, nei confronti di quella per l’infanzia, e, da ultimo, il tormento di trovare una cifra propria, originale ma allo stesso tempo non del tutto eccentrica. Le ragioni di un interesse così acceso per il pubblico dei piccoli si annidavano nella convinzione che la letteratura per bambini potesse aprirgli “orizzonti inaspettati, vastissimi”, a dispetto della visione piuttosto riduttiva che appunto la grande critica letteraria riservava in quegli anni alle opere per bambini e che aveva trovato la sua più rimarchevole espressione addirittura con Benedetto Croce,nella recensione, apparsa su La Critica, a Limiti e ragioni della letteratura infantile (Firenze, Barbera,1942) di Luigi Santucci. Gec, “un libro per bambini che possono leggere anche i grandi” Il ruolo fondamentale di D’Arzo nella storia della letteratura italiana per ragazzi è probabilmente ancora da approfondire e rinsaldare: dalle osservazioni che puntellano l’epistolario emerge una visione complessiva per quei tempi straordinaria, oggi invece del tutto imprescindibile per chi voglia scrivere e pubblicare per i più giovani. Sottolineiamo solo le considerazioni più importanti, tratte dalla lettera a Vallecchi del 30 maggio 1944, una sorta di sintetico manifesto della nuova letteratura giovanile italiana: la differenziazione dei lettori in base alla fascia d’età, quando lo scrittore insiste a chiamare il suo romanzo “libro per ragazzi” e non “per bambini”, rompendo l’errata percezione dell’infanzia come pubblico indistinto per il quale una storia vale l’altra, purché sia avventurosa, divertente e moraleggiante. E ancora, la necessità di rivolgere ai ragazzi una produzione di qualità, affrancandoli da
“libri brutti e sciatti e balbettanti” che D’Arzo vede proliferare in nome di una malintesa semplicità e facilità: “Qualcosa, forse,i ragazzi non capiranno: non certamente l’essenziale. L’allegoria, forse: ma l’allegoria l’ho fatta per i grandi: io sono del parere, infatti, che Gec dell’Avventura sia un libro per bambini che possono leggere anche i grandi, piuttosto che viceversa”.
D’Arzo, insomma, rivendica, tra i primi in Italia, una piena dignità letteraria anche per la produzione per l’infanzia, in cui lo stile, la fantasia, il coraggio della sperimentazione, la libertà di scelta di modelli, soggetti, trame osi sfidare stereotipi, banalità, paternalismi. Sempre nella stessa lettera, il richiamo a prodotti editoriali ben congegnati, in cui rivestano un ruolo fondamentale le illustrazioni, non più mero corredo al testo, ma parte integrante dei contenuti:
“io sono del parere che, in una prima lettura, il libro non sia più che un commento alle illustrazioni”.
Infine il coinvolgimento nella lettura di genitori e insegnanti, intuizione che è alla base di ogni moderna idea di promozione della lettura tra bambini e ragazzi. In Una storia così D’Arzo, con poche pennellate, delinea proprio l’idea chiusa e retrograda del rapporto tra bambini e lettura che ancora nell’avanzato dopoguerra gravava soprattutto sulla didattica scolastica. A scuola il professore Ezio Comparoni aveva provato a esercitare il ruolo di docente in modo innovativo, spesso scontrandosi con la dirigenza e proprio di quella opprimente esperienza diretta D’Arzo scrive nel primo capitolo del racconto:
“Ed ecco qui la sua idea [di Tobia Corcoran, dirigente del Premiato Collegio Minerva]: “Uno studente dai sei anni in avanti non può compiere azione più immorale, malvagia, spregevole, pericolosa, allarmante che leggere libri che non siano i tre libri di testo. E a sua volta un maestro dai vent’anni in avanti non può compiere azione più infamante, allarmante, pericolosa, spregevole, malvagia, immorale che far leggere libri che non siano i tre libri di testo”.
D’Arzo, invece, proprio come il maestro supplente Teddy Ted, sua trasfigurazione letteraria (doppio letterario del professor Comparoni è anche il maestro supplente Isaia Balcop in Penny Wirton e sua madre, frustrato dall’esperienza di un precariato annichilente) aspira a una vera e propria sprovincializzazione della letteratura italiana per ragazzi, attingendo a piene mani e in modo esplicito alla letteratura internazionale proprio per aggiornare radicalmente il repertorio dei modelli letterari. In Una storia così, quindi, troviamo citazioni di autori e testi: vi si animano i personaggi di Bourroghs, Kipling, Carroll, Dickens, Burnett, Swift, Defoe, Conan Doyle, Jack London, Mark Twain, ma anche quelli delle fiabe classiche e persino Topolino, che in quegli anni cominciava a diventare universalmente famoso dai fumetti e dai film della Disney. Additando questi autori e le loro opere, D’Arzo indicava una strada maestra per arrivare ai bambini e ai ragazzi: la fantasia, il libero fluire dell’immaginazione, il campo aperto dell’invenzione. Una posizione rodariana ante litteram e Comparoni, come si evince dalla lettera all’amico Canzio Dasioli del 27 febbraio 1943 era ben consapevole di aprire una strada sperimentale, del tutto nuova per l’Italia:
“Ti confesso che l’idea mi attirerebbe, non fosse altro che per il valore di esperimento, e per fare qualcosa – tentare, adesso esagero – di fare qualcosa che in Italia […] ancora non c’è. Non credi, infatti, che manchi (Pinocchio escluso) un libro per ragazzi che sia di poesia e di dignità. Anzi, negli ultimi anni questo genere è diventato addirittura nauseante”.
Nel vivo della storia Annuario Eiar del 1935Il riferimento a Pinocchio non è casuale: i modelli a cui D’Arzo guarda per scrivere i suoi libri per ragazzi sono essenzialmente fuori dall’Italia, come detto, Barrie, ma soprattutto Stevenson, Conrad, Kipling, ma,tra i connazionali, Collodi rimane per lui quasi geneticamente determinante. Il sapore collodiano delle opere darziane per bambini emerge dalla commistione perfetta tra l’atmosfera rarefatta di un’ambientazione e una trama fantastiche con una lingua viva e fervida, aperta ad accogliere forme e costrutti del parlato, con l’effetto complessivo di un indiscutibile realismo magico. La lingua colta nella scoppiettante vitalità delle sue manifestazioni orali, del resto, era stata per Ezio Comparoni materia preminente d’interesse sin dai tempi degli studi universitari, come testimoniato dalla tesi di laurea in glottologia sul dialetto reggiano collinare. La lingua di D’Arzo è debitrice verso quella di Collodi soprattutto per quello che Ornella Castellani Polidori, nell’introduzione all’edizione critica di Pinocchio del1983, definisce il “tono medio”, parimenti distante dall’italiano letterario e da quello popolare: espressioni più auliche e toscanismi, con assaggi di parole anche difficili e tecnicismi (per esempio ne Il pinguino senza frac, ‘cinismo’, ‘patri lari’, ‘miope’, ‘presbite’) mescolati con interiezioni, intercalari e colloquialismi tipici del parlato familiare (per esempio, ancora dal Pinguino e da Penny Wirton, ‘di grazia’, ‘va là’, ‘tanto peggio per lui’, ‘s’intende’, ‘fin qui niente di strano, d’accordo’, ‘quel diavolaccio di Huclebig’, ‘quella povera vecchia gallina della Emily Spain’). E poi formule proverbiali, icastiche, idiomatiche (‘Penny è già al terzo sonno’; ‘questo è il rebus più turco che mi sia capitato di sentire in trenta anni’; ‘Quelle lì si bruciano e amen’). Come anche nei romanzi per adulti, troviamo appelli e allocuzioni dirette, specie nei prologhi (‘quella che segue, ragazzi e ragazze, è la storia …’; ‘capite?’; ‘aprite bene le orecchie’; ‘capirete anche voi’; ‘E in che modo lo avrete già immaginato da voi’) che abbattono le distanze con il pubblico e lo trascinano nel vivo della storia e del giudizio sulle vicende narrate. In Penny Wirton e sua madre il ricorso all’allocuzione diretta del prologo ha il tono brusco dell’estrema confidenza (“Se il nome vi riesce un po’ troppo difficile, ciascuno di voi può cambiarlo a piacere, e padronissimo di metterci il suo. La storia, per questo, non verrà a cambiare nemmeno di un soldo. E se uno di voi, letta la storia di Penny, chiude il libro e sbadiglia ed è convinto di aver perso il suo tempo, affar suo, e più amici di prima”). Degno di nota è il parlare figurato, pieno di metafore della saggezza popolare (‘Perdonate a una stupida e tutto il resto non vale un centesimo’; ‘un tono di mandorle e miele’; ‘un grammo di buono’; ‘qualcosa me lo diceva in qualche tana del cuore’) e paragoni espressivi, a volte poetici, a volte divertenti (‘e la luna, nascosta dietro un branco di nuvole, chiuse gli occhi anche lei’; ‘La paura non è più di un topo: picchia un piede per terra e non lo ritrovi più’; ‘L’Oste si afflosciò su di una panca né più né meno che un budino mal fatto’). Infine i dialoghi fitti e densi, che sembrano riprodurre a volte delle vere e proprie gag teatrali, segno di un legame profondo anche con la scrittura drammaturgica; scambi che occupano lo spazio narrativo diventato quinta teatrale in cui si muovono personaggi primari e secondari e che spesso abbondano di puntini di sospensione, con la funzione di chiamare in causa la complicità del lettore e la sua capacità di comprendere il non detto. Ai margini del testo Grande cura è riservata alla dimensione paratestuale; costante, in particolare, il ricorso ai titoli dei capitolia sommario, talora allusivi, come l’ultimo di Penny Wirton: ‘Capitolo ultimo. Dove tutto finisce. E comincia’, talora descrittivi, ma sempre velatamente pregni, come nel Pinguino senza frac: ‘Dove per la prima volta si parla di un frac. - Dove il Padre Pinguino e sua moglie non ne vorrebbero sentire parlare’. Il Pinguino per i più piccoli, Penny Wirton per gli adolescenti Dicevamo della volontà di differenziare il pubblico più giovane: e così Il Pinguino senza frac sembra chiaramente concepito per lettori più piccoli, con un linguaggio favolistico pieno di indeterminatezza di tempi e luoghi e persino schemi e formule ripetute, tipiche della scrittura per i bambini (‘babbo e mamma carissimi’). Penny Wirton e sua madre è invece un romanzo per adolescenti, certamente di formazione, con il percorso del giovane protagonista puntellato da mille traversie ma giunto a buon fine, simbolizzato proprio nel finale:
“E domani sarà lunedì. - Lunedì? - disse sua madre fissandolo. - Penny, ecco una decente parola. Una garbata parola, lunedì. Così parlava anche tuo padre ai suoi bei giorni. E per giunta è l’unica strada per arrivare a domenica”.
La storia è ambientata in quel Settecento protagonista anche del Buon Corsiero e studiato all’università di Bologna. I nomi di persona (Anna Holbey, i Catmor, Patty, Nathaniel Welcome, il Giudice Lowing) e i toponimi (la contea di Pictown, la locanda di Shorly, il crocicchio di Curley, il Crocicchio di Berry) sono inglesi. L’ambientazione sembra dunque puntuale e determinata - appunto un Settecento anglosassone - per quanto immaginaria ed è evidente l’eco delle letture preferite dello scrittore, da L’Isola del tesoro di Stevenson ai racconti di Kipling, e tuttavia il racconto appare pervaso da una sorta di distopia, alimentata in particolare da alcuni tratti: ovviamente la convivenza e la vicinanza nel racconto di un regno dei vivi e di un regno dei morti, ma anche la scelta di non nominare alcune figure chiave, come il Supplente, il Cieco, la Guardia di Notte, le Guardie del Giorno, il Cancelliere di Villa, il Procuratore Signifero, il Maestro Aulico, avvolte nel mistero di un’identità personale sfuggente. E ancora: i dialoghi stretti e intensi, ma sempre ambiguamente reticenti e proiettati con leggera e incisiva ironia oltre l’hic e nunc della vicenda narrata, perché il tono didascalico non abbia mai il sopravvento sul piacere del racconto.
“E in due parole ecco qui: ogni giorno s’impara più o meno qualcosa, e l’ultima è sempre la più matta di tutte. E poi c’è ancora un altro fatto più curioso che no: delle volte il bene è perfino meno peggio del male, e per giunta fa anche più ridere. Questo non è il mio ramo,si capisce, ma tutto sta a farci su l’abitudine”:
queste parole, fatte pronunciare, in una combinazione straniante, al furbo Cieco di Penny Wirton restituiscono la volontà di D’Arzo di lasciare che il suo giovane lettore/interlocutore sia libero di costruirsi un proprio immaginario relazionale, emotivo e persino morale a partire dalla sola forza propulsiva delle parole e delle storie. Bibliografia Le citazioni sono tratte da Silvio D’Arzo, Opere, a cura di S. Costanzi, E. Orlandini, A. Sebastiani, Parma, Monte Università Parma, 2003; e da Id., Lettere, a cura di A. Sebastiani, Parma, Monte UniversitàParma, 2004.
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