Qui da noi [a San Marco in Lamis, ndr] l’edilizia non ha avuto e non ha rispetto per l’antico. Il restauro conservativo è un’operazione tecnica obsoleta che non ha ragione d’essere finanche per il centro storico, per le chiese, per le edicole votive. Con facilità si staccano e si portano via i portali barocchi; si chiudono col cemento armato le cripte; s’abbattono i 'mugnali'; si smontano 'puteali'; si sotterrano con materiale idraulico consolidante le sepolture rinvenute per caso nel corso di scavi di fondazioni. Cosicché a San Marco in Lamis solamente poche maltrattate testimonianze ci parlano del passato; tant’altre sono state distrutte, murate, rimosse, portate fuori dall’originale contesto.

Di nuovo disponibile il maggior romanzo documentale del '900
Torna finalmente in libreria, edito da Bollati Boringhieri, Una spia del regime (pag. 396, L. 55.000),una nuova versione, considerevolmente arricchita ed ampliata a cura di Mimmo Franzinelli, del famoso "romanzo documentale" con cui Ernesto Rossi dimostrò l’impressionante rapporto intercorso nell’arco di 34 anni tra l’avvocato Carlo Del Re, spia ed agente provocatore, ed i capi della polizia fascista, poi repubblichina, infine nazista. L’edizione attuale riproduce un centinaio di documenti inediti del periodo 1930-44, nonché una ricca selezione di materiale relativa al dopoguerra (1946-1966), reperito presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma e negli opuscoli autodifensivi approntati dalla spia nel ’60. Il documento del dossier da cui ha inizio il "romanzo" già compromette il capo della polizia Bocchini, il quadrunviro Italo Balbo e personalmente Mussolini. Il documento finale reca la firma del tenente colonnello delle SS Kappler. Alla prima edizione del ’55 ne successe una seconda nel ’57 e una terza nel ’68, tutte di Feltrinelli. Laterza, da me curata dopo la morte di Rossi, rinunciava a riportare dalla seconda le reazioni dei maggiori intellettuali all’uscita del volume, ma in compenso pubblicava 27 nuovi documenti del carteggio OVRA-Del Re. Infatti, avendomi questi denunziato per diffamazione a mezzo stampa dopo quel che di lui avevo scritto in Lettere ad Ernesto di Elide Rossi e in No al fascismo, per difendermi chiesi ed ottenni diconsultare presso il "Palazzaccio" di Roma l’intero dossier dell’OVRA, e naturalmente ne copiai quei nuovi documenti. Il volume ora offerto ai lettori da Franzinelli non si limita a riportare i più interessanti documenti della terza edizione e (della seconda) le bellissime recensioni di Augusto Monti, Domenico Rea, AlbertoMoravia, nonché certe reazioni parlamentari, ma vi premette un capitolo di oltre 100 pagine nel quale si costruisce di Del Re, con eccezionale capacità di ricerca, analisi ed ordine, l’apprendistato come cospiratore tra antifascisti e massoni, l’iniziale militanza in "Giustizia e Libertà", la partecipazione ai preparativi di attentati dimostrativi contro il regime, ed infine il tradimento.
Lo spione spirò nel giugno ’78: nessun necrologio ne salutò la dipartita.
Luigi Ghersi, Astrolabio, n. 6, 11 febbraio 1968
Un vuoto morale
Davanti a questo problema, del resto, l'atteggiamento di tutti i grossi leader è in definitiva analogo. Differiscono, si capisce, le motivazioni ed anche, di conseguenza, la misura e il senso di una preoccupazione, nel fondo, comune. Provate ad ascoltare Giorgio
Forse Moro, quest'uomo così straordinariamente versato per l'elaborazione di sottili equilibri, e cosi tenace nel difenderli, abilissimo nel parlare alla classe politica ma incapace di farsi intendere dal paese, è intimamente sordo a queste esigenze. La sua, in definitiva, è una visione contrattualistica; la razionalità è rappresentata dagli accordi tra i partiti e si esprime negli equilibri parlamentari, tutto quello che avviene al di fuori, nel paese, non lo riguarda, è l'irrazionale, il caos informe cui soltanto la mediazione ed il filtro delle classi dirigenti può dare dignità e consistenza. Di qui 1a sua imperturbabilità davanti all'ondata di sdegno che sale dal basso, la sua puntigliosità formalistica nel voler dare figura costituzionale a un segreto militare che non è più segreto per nessuno.
Al di là degli stati d'animo, in alcuni casi sinceri, le lamentazioni sul distacco degli italiani dalla politica suonano false, quando provengono da certi settori della maggioranza. Una maggioranza che sulla spoliticizzazionc del paese ha fondato tutti i suoi disegni.
Oggi, in Italia, questo vuoto ha un nome: è il vuoto d'una iniziativa socialista. Ed e, come negarlo?, essenzialmente un vuoto morale, l'incapacità di capire che il paese è sveglio, che non ha accettato l'umiliazione delle forze democratiche davanti al ricatto della crisi di governo. Un parlito che motiva così il suo silenzio ha perso, evidentemente, il contatto col paese.
Eppure sta maturando nelle cose una grande occasione socialista. Il fallimento e la brutalità della politica di potenza americana nel Vietnam danno un senso nuovo al neutralismo socialista, ne fanno un'ipotesi di lavoro concreta, non più una mitologia di sapore ottocentesco. Si va prospettando in Europa, con la disgregazione irreversibile delle strutture atlantiche, l'alternativa tra la spirale del nazionalismo riemergente - la Germania oggi è ancora un problema ma domani potrebbe diventare di nuovo un incubo - e un nuovo equilibrio fondato su vaste aree di disarmo, internazionalmente garantite, e su una compenetrazione economica crescente tra sistemi collettivisti e sistemi di capitalismo condizionato.
Quale vittoria per la politica di autonomia socialista che dodici anni fa Pietro Nenni aveva intrapreso assieme a De Martino e Lombardi!
Malgrado tutto questo la democrazia italiana non può fare a meno d'una forza socialista. Chi, come me, ne è profondamente convinto non può augurarsene, anche se la teme, la falcidia elettorale. Non può augurarsela perché l'esperienza storica ha insegnato che i partiti non s'inventano in un fiat sull'onda di una campagna moralistica, per sacrosanta che sia; e che grandi forze popolari che sembravano irrimediabilmente compromesse dagli errori e dai cedimenti hanno poi saputo ritrovare se stesse e la loro vocazione: la SFIO, il partito di Suez e delle repressioni in Algeria, non è forse oggi una componente essenziale dell'alternativa dì sinistra al gollismo? Non può augurarsela perché non riesce a vedere, dopo la disfatta del partito socialista, con quali forze una politica democratica di sinistra o comunque una politica dì sinistra possa avere il sopravvento; perché è convinto che la disgregazione della forza socialista costituirebbe inevitabilmente il primo tempo della sconfitta di tutta la sinistra, una sconfitta magari meno ingloriosa ma certo non meno sicura.
Perciò, con la bocca amara, io resto da questa parte.
Luigi Ghersi
Ernesto Rossi, Aria fritta, Laterza 1956
L'andazzo di Torre le Vigne
L'omino che viene ad offrirti il suo aiuto è, in generale, un povero diavolo, che ha ben poco da perdere anche se lo mettono al fresco per qualche settimana; ma ha conoscenze autorevoli nella capitale od è in missione per incarico di un importante studio di consulenza tributaria e commerciale, diretto da un commendatore, già capo servizio nell'ufficio in cui attende di essere “evasa” la tua pratica: il commendatore è da poco a riposo, ma ha conservato ottimi rapporti con i suoi ex colleghi.
Se ungi le ruote, la pratica va avanti e facilmente si risolve in tuo favore, anche se hai torto. Se non le ungi, scende dal millesimo al milionesimo posto nella pila delle pratiche del medesimo ufficio, oppure si risolve a tuo danno, anche se hai mille ragioni da vendere.
- La sugna per ungere le ruote - ho domandato - costa parecchio?
- Dipende - mi ha risposto l'amico. - Il prezzo è una percentuale più o meno elevata del beneficio, a seconda della natura della operazione. Ottenere il pagamento immediato di una somma che lo Stato ti deve, ad esempio, costa molto meno che ottenere un finanziamento la cui concessione è una facoltà discrezionale degli “uffici competenti”.
Ultimamente chiesi per la mia piccola industria un prestito di
- È da molto tempo che dura questo sistema?
- Dal tempo che si tiravano su i pantaloni con le carrucole. Lo abbiamo ereditato dal malgoverno dei Borboni e - in misura minore - dai regimi assoluti che vigevano negli altri Stati italiani prima della unificazione. Ma è certo che, durante il primo cinquantennio dell'unità, la virulenza del male si era molto attutita. La selezione del personale attraverso regolari concorsi, la pubblicità di tutti gli atti della amministrazione, il controllo della stampa e del parlamento, il meccanismo automatico del mercato per la distribuzione del credito e delle merci e per la determinazione dei prezzi, erano potenti antisettici, che avevano ridotto le pratiche camorristiche entro limiti tollerabili. La economia di guerra e venti anni di dittatura fascista (moneta manovrata, contingentamento delle importazioni, controllo sui cambi, assegnazioni ai “normali operatori”, disciplina dei nuovi impianti industriali, bavaglio alla stampa, e, infine, l'assunzione di decine di migliaia di impiegati, senza concorsi, per soli meriti politici) ci hanno ridotti nelle condizioni in cui siamo. Se avessi assistito all'ultima perquisizione al mio ufficio, te ne saresti potuto fare una idea...
- Perquisizione? O che sei sospettato anche tu di spionaggio atomico?
- Peggio. Come tutti gli italiani, sono un “evasore fiscale”. Nessuno, oggi, nel nostro Paese, paga tutto quello che dovrebbe pagare di imposte, contributi, taglie, balzelli. Nel ginepraio di leggi, regolamenti, circolari ministeriali, nessuno riesce più a capire che cosa gli viene richiesto. E poi chi volesse ottemperare veramente a tutte le disposizioni in questa materia non dovrebbe fare altro per l'intera giornata che riempire moduli, appiccicare marche, far la fila agli sportelli, e immediatamente sarebbe buttato a terra dai concorrenti meno scrupolosi di lui. Gli agenti della polizia tributaria piombano in casa, rovistano in tutti i cassetti, confrontano libri, corrispondenza, ricevute, accertano irregolarità, appongono sigilli, impediscono l'uso del telefono, terrorizzano moglie, figli, donna di servizio, fino il gatto in cucina... Solo se sai fare, diventano comprensivi.
- Ma tu perché non presenti una brava denuncia alla magistratura, quando sei costretto a trangugiare soprusi? Se non cominciate a muovervi voi, che siete direttamente interessati, come potete sperare che si muovano i ministri e i parlamentari in vostra difesa?
- Durante la guerra ti è passata mai per la contraccassa del cervello l'idea di ottenere giustizia, denunciando gli speculatori che ti vendevano pasta, burro, zucchero sul mercato nero? Se presentassi una denuncia, non riuscirei a provare le mie accuse e verrei segnato sul libro nero. Ricordi quel contadino di Dicomano, di cui racconta il Sacchetti, che andò a dolersi perché un parente di Francesco de' Medici gli voleva portar via una vigna?
Questo mondo corre per andazzi - disse il contadino a messer Francesco - e quando corre un andazzo di vaiuolo, quando di pestilenza mortale, quando è andazzo che si ammazzino parecchie persone, quando che non si faccia giustizia: e così quando è andazzo di una cosa e quando d'un'altra. Contro questi andazzi è inutile prendersela: non si può far riparo. Perciò se ora mi dite che è andazzo di torre le vigne, il vostro parente si prenda pure la mia, e se ne vada con Dio. Ma se non lo fosse, vi prego caldamente di farmela restituire.
L'andazzo è quello che ti ho detto. Se non provvedono “li maggiori” a farlo cambiare, noi non possiamo fare altro che pagare e tacere.
La Stampa, 22 luglio 1953.
Ernesto Rossi, Il Malgoverno, pp. V-IX, Laterza 1955
Prefazione
- Se una squadra di arabi doveva trasportare a spalla una longarina, appena la squadra si muoveva, sempre uno di loro si abbassava un poco, per scaricare il peso sui compagni; un altro seguiva subito il suo esempio, poi un altro, poi un altro. Dopo cssersi curvati tutti più che potevano, per abbassarsi ancora più, andavano con le gambe piegate. Alla fine erano tutti ginocchioni, quasi schiacciati sotto la longarina.
- Quegli arabi - feci allora osservare al mio compagno di cella - si meritavano la cittadinanza italiana. Erano “furbi” come noi. Per aver cercato di scaricare sugli altri il peso relativamente lieve della cosa pubblica, che ognuno di noi doveva portare, ci troviamo ora schiacciati da una banda di avventurieri senza scrupoli, che ci fanno star tutti quanti ginocchioni.
L'immagine degli arabi aotto la longarina mi è tornata più volte alla mente mentre scrivevo gli articoli che ho raccolti in questo libro.
I grandi industriali sono “furbi” quando fanno svalutare la moneta per annullare i debiti con i quali hanno costruiti i loro impianti. I latifondisti sono “furbi” quando aumentano le loro rendite, facendo raddoppiare il prezzo del pane col dazio sul grano. Gli statali sono “furbi” quando levano taglie e balzelli su chiunque chieda un documento, una registrazione, un timbro ai loro uffici. I generali sono “furbi” quando accrescono gli stipendi ed allargano gli organici con i miliardi che dovrebbero servire a migliorare gli armamenti. I plutocrati sono “furbi” quando si intendono con gli agenti del fisco per sottrarre all'imposta la maggior parte possibile del loro reddito imponibile.
Tutti “furbi” in Italia. Tutti “furbi” che fan finta di prendere molto sul serio, ma mai si lasciano veramente incantare dalle proclamazioni dei grandi principi sulla libertà, la democrazia, la giustizia sociale, la solidarietà nazionale.
Il vanto a cui maggiormente tengono gli abitanti della città più miserabile d'Italia - “Cà nisciuno è fesso” - potrebbe essere inciso come motto araldico sullo stemma della nostra Repubblica. E siccome “nisciuno è fesso”, tutti sono disposti a dar fuoco a una intera foresta, se la foresta è della collettività, per cuocersi un uovo al tegamino.
Questa è la vera ragione della nostra miseria. Questa e non la scarsità delle terre coltivabili e delle materie prime.
In due pagine ristampate ultimamente nel Buongoverno, Luigi Einaudi spiega che i fattori principali della ricchezza delle nazioni non sono le risorse naturali; sono le qualità morali degli abitanti:
“La culla della ricchezza americana - scrive Einaudi - non è stata nelle regioni del Sud, ricche di cotone, nelle pianure centrali feconde di frumento, nelle terre a carbone a ferro od a petrolio. Fu negli Stati della Nuova Inghilterra, nelle inospiti, pietrose contrade, poste fra New York e i confini del Canada, dove la terra non dà messi, perché la roccia affiora dappertutto, dove le foreste vengono a stento, dove non ci sono miniere di nessun minerale, dove mancava tutto, salvo l'energia indomabile dell'uomo”.
La Svizzera è un paese più ricco del nostro solo perché è un paese meglio amministrato. Ed è un paese meglio amministrato perché gli svizzeri sono meno “furbi” di noi.
Gli articoli che ho raccolti in Settimo: non rubare e quelli che ho scelti in questo libro possono - a me sembra - dare al lettore una prima idea delle conseguenze della nostra generale “furberia” nei rapporti con i nostri simili.
In conseguenza delle trincee che ogni gruppo scava a difesa dei propri interessi sezionali, è raro che in Italia il lavoro venga eseguito dalle persone che lo sanno eseguire, nel luogo e nel modo in cui riuscirebbe più redditizio. Alle spalle di ogni persona adulta, che effettivamente lavora, ne vivono senza lavorare almeno un paio: grattascartoffie, controllori, intermediari, procacciatori, azzeccagarbugli, monache, frati, militari, grandi baroni E una volta ottenuto il prodotto, la gran parte va perduta in operazioni di arrembaggio, con le quali i più “furbi” ancora riescono a spogliare coloro che dovrebbero esserne i legittimi proprietari.
Finché gli italiani continueranno ad essere “furbi” a questo modo, nessun piano di investimenti, nessuna politica produttivistica, riuscirà a guarirli dalla loro miseria. Anche se l'Italia divenisse, per miracolo, dalla sera alla mattina, tutta quanta pianeggiante e fertile come la “Campania felice”, anche se la precipitazione delle acque fosse sempre in tutte le regioni la più favorevole alle diverse culture, anche se scoprissimo nel sottosuolo i più ricchi giacimenti di oro, rame, ferro, carbone, petrolio, gli ultimi strati della nostra popolazione sarebbero sempre costretti a vivere in condizioni di vita bestiale.
È questa una verità che non dobbiamo stancarci di ripetere contro coloro che vorrebbero scaricare molto comodamente le responsabilità di tutti i nostri malanni sul governo e sul Padreterno.
Roma, agosto 1954.
Ernesto Rossi
Il 9 febbraio del 1967, 54 anni fa, moriva Ernesto Rossi. Ecco come lo ricordo nel mio “Istantanee tra cronaca e storia” (Pungitopo editore).
Ernesto Rossi, l'anticonformista e l'Astrolabio
Entrava come una ventata, il cappotto fino alle caviglie, la vecchia borsa gonfia sottobraccio. Si fermava soltanto al centro dello stanzone di mezzo. Lì alzava gli occhi: "C'è Ferruccio?". Se Parri c'era, qualsiasi cosa stesse facendo, era suo, irrimediabilmente coinvolto nelle vicende della Federconsorzi e degli archivi vaticani o nell'organizzazione di un convegno del Movimento Salvemini. Se Parri non c'era, Ernesto Rossi si chiudeva nella sua stanza. Era l'unico ad averne una tutta per sè a l'Astrolabio di via Pisanelli. Piccola, certo, dove entravano appena una scrivanietta, una brutta vetrina e un paio di tavoli traboccanti di appunti e di giornali. Ma lì erano nati Viaggio nel feudo di Bonomi, Padroni del vapore e fascismo e Pagine anticlericali.
L'Astrolabio lo aveva voluto lui nel 1963, dopo la sofferta rottura con Il Mondo e con il gruppo di Pannunzio, Carandini, Libonati, Cattani che aveva messo in crisi e poi abbandonato il partito radicale. Nel consiglio nazionale che sancì la rottura, erano stati tenuti interventi di fuoco. Una brutta pagina della democrazia italiana. Antiche amicizie frantumate per sempre, andate a farsi benedire le pur deboli speranze di creare una terza forza laica tra la Democrazia cristiana e il partito comunista. Rossi accusò Pannunzio di avere svolto un'opposizione di comodo al fascismo, mentre i veri antifascisti marcivano in galera. Lo rivedo ancora subito dopo il suo intervento, pallido, disfatto, consapevole della gravità delle sue accuse, ma non per questo pentito di averle pronunciate, mentre i consiglieri si dividevano in due opposte schiere vocianti e Carandini gli gridava in faccia: Vergogna, Rossi, vergogna. Una brutta pagina.
Dopo, il nuovo giornale, l'Astrolabio. Aveva convinto tutti, da Ferruccio Parri, che ne divenne il direttore, a Riccardo Lombardi, da Leopoldo Piccardi a Paolo Sylos Labini, da Lamberto Borghi a Nino Valeri. Suo il bizzarro nome del giornale, allora mensile. E sua, cocciutamente, contro ogni ragionevole previsione di debacle finanziaria, l'idea di trasformarlo due anni dopo in settimanale. Fino al 1967, anno della sua morte, Rossi lavorò a l'Astrolabio e al Movimento Gaetano Salvemini, che ne fu in qualche modo la propaggine, con l'impeto di un ventenne. Sconvolse biblioteche, archivi, corrispondenze, registri. Attaccò potentati, corporazioni, monopoli. Fece politica, con quel suo modo scomodo e cristallino di far politica che tanti dopo giudicarono a loro difesa impolitico.
Cominciò a star male nel 1966, in settembre. Ma non rinunciò a scrivere. E il 2 ottobre, per il primo decennale della morte di Piero Calamandrei, mandò dalla clinica un ricordo che rischiò di far venire un infarto a Parri. Scriveva di lui e di Piero, della comune confraternita salveminiana, delle lotte divise come il pane per quasi quarant'anni, dello spiritaccio fiorentino di Calamandrei, che gli permetteva di passare dalle barzellette (le maialate, diceva Rossi, ma come purificate dalla bellezza della forma letteraria, come le novelle anche le più sconcie, del Boccaccio e del Sacchetti) agli argomenti più gravi e seri, nei quali era maestro. Rossi, a titolo d'esempio, ricordava una maialata raccontatagli da Calamandrei poco prima di fare uno dei suoi discorsi più elevati e appassionati nell'ultimo comitato centrale del partito d'azione, quello dello scioglimento.
Parri lesse attentamente l'articolo. Dapprima annuiva, commosso. Ma all'improvviso si fermò, con aria esterrefatta, tolse gli occhiali dalla fronte e li buttò con stizza sul tavolo. Ernesto è impazzito, disse. Aveva letto di Pierino, costretto dal fidanzato della sorella a contare dalla finestra le donne che passavano, senza voltarsi, per non disturbare i due che gli stavano alle spalle. Pierino riceveva un compenso: tante lire per ogni donna. E a un certo punto cominciò a sghignazzare: questa volta la sega la ti costa cara. Sta avvicinandosi una processione di figlie di Maria. Lo scontro fra il pudore piemontese e la spregiudicatezza toscana fu grosso. Parri andò in clinica. Mi dispiace, Ernesto, ma quella roba non posso proprio pubblicarla". Quella roba, come la chiami tu, Ferruccio, si pubblica. Vinse Rossi, naturalmente. E il suo pezzo apparve integralmente sul numero successivo de l'Astrolabio, con il titolo Così ricordo Calamandrei e proprio a fianco di una composta rievocazione di Parri: Oltre il ponte.
Poi, la prima operazione, un breve ritorno al giornale e il secondo ricovero per il nuovo intervento, quello fatale. La notizia della sua morte ci raggiunse in redazione. Barbara Spinelli, ragazzina, telefonò per prima: Ma è proprio vero? Papà non ha la forza di chiedervelo. E dopo di lei tanti altri, in egual misura increduli di fronte alla notizia che Rossi non avrebbe più parlato e scritto. Il suo corpo giacque per tutta la notte nella camera mortuaria della clinica dove era stato ricoverato. E vicino a lui, a vegliarlo per tutta la notte, Marco Pannella, Angelo Bandinelli, Gianfranco Spadaccia, Mario Signorino ed io.
L'Astrolabio ricordò il suo Ernesto il 19 febbraio con un numero speciale: in copertina un ritratto di Rossi, opera di Carlo Levi, e nell'interno gli articoli di Parri, Signorino, Jemolo, Piccardi, Sylos Labini, Spinelli, Spadaccia. Ma il saluto più commosso ed affettuoso Rossi lo ebbe al suo funerale. C'erano tutti quelli che lui avrebbe voluto: Parri, Nenni, Foa, La Malfa, Piccardi, Spinelli, Lombardi, Pannella, Felice Ippolito, da pochi giorni reduce dalla sua disavventura giudiziaria, e Randolfo Pacciardi, scansato da tutti e pallido come se il morto fosse lui. Unico tra i democristiani, Mario Ferrari Aggradi. Era stato ministro dell'agricoltura poco tempo prima. Il ciclone Rossi lo aveva investito, costringendolo per mesi ad aprire archivi, a esibire documentazioni, a rispondere delle malefatte delle organizzazioni bonomiane. E adesso era lì, a piangere con gli altri il caro nemico che non avrebbe più attentato alla sua pace. Per ultimo arrivò Nello Traquandi da Firenze, con la bandiera rossa e nera di Giustizia e Libertà. Parri gli andò incontro: Come va, vecchio?. Traquandi scosse con forza la testa tozza di operaio d'altri tempi. Lui si crede sempre giovane, ribatté. E il corteo si mosse. Una breve sosta sul lungotevere Arnaldo da Brescia, dove quarantatré anni prima era stato rapito Giacomo Matteotti. E la lunga corsa fino al cimitero di Trespiano, alle soglie di Firenze, dove erano ad attenderlo Salvemini e i fratelli Rosselli.
Giuseppe Loteta