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Scriveva Ferruccio Parri, sull'Astrolabio del 4 dicembre 1967
[...] La grande massa che la Democrazia Cristiana conduce e intruppa è in prevalenza politicamente amorfa. Sarebbe ingiusto imputarmi di vilipendio alla Stirpe se dico che questa Italia, non solo questa, è politicamente sottosviluppata, perché è la stessa che da secoli segue docilmente ogni principe, ogni Giolitti, ogni Mussolini e per la sua parte ogni Rumor, guidata da un certo istinto conservatore e, salvo un cinquantennio risorgimentale, dai preti. L'on. Rumor ha purtroppo ragione se prevede che questa base gli permetterà di condizionare il governo del nostro paese anche nel tempo avvenire, pur se di durata e fisionomia incerta. Ma non sono le vernici ideologiche e le teorizzazioni dei gruppi dirigenti che fanno da strutture portanti della stabilità del potere democristiano. [...]

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  • L. Giuliani Ottobre 1860

    L. Giuliani Ottobre 1860

    Leonardo Giuliani, L'ottobre 1860 in San Marco in Lamis, San Giovanni Rotondo e Cagnano Varano, 2003A cura di Tommaso Nardella
    E' bellissimo, da leggere tutto in una volta!
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  • Carlo De Cesare

    Carlo De Cesare

    Un autore, della Destra storica, sconosciuto alla maggior parte ... Consiglio di vedere anche Museo virtuale, Profili, Risorgimento ... Leggi
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    Museo Virtuale

    Un Museo virtuale.
    In mancanza d'altro ...
    Allora era fame nera; ora non c’è più: c’è l’inflazione.
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  • Silvio D'Arzo

    Silvio D'Arzo

    Scrittore dimenticato dalla "cultura" ufficiale.
    Casa d'altri, pubblicato integralmente e da scaricare: è bellissimo!
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    Introduzione

    Molto studiato dagli specialisti, ma poco seguito ed imitato. Ciò che siamo e ciò che avremmo dovuto essere..
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    Un grande attore italiano
    Più famoso che conosciuto..
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  • La Storia dei ladri in Italia

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    Un grande italiano, poco conosciuto dalla "massa" del popolo..
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    Sebastiano (Ninuccio) Contessa racconta la storia delle Acli di San Marco in Lamis.
    Il secondo dopoguerra in un paesino del Meridione. Leggi
  • P. Sylos Labini (1920-2002)

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    Un grande economista italiano, che aveva previsto molte cose. Leggi
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    Egli fu uomo d'azione, in modo folgorante, ma per brevissimo tempo, non più di diciassette giorni in quasi settant'anni di vita. Leggi
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    Nuova sezione
    dedicata ad un Grande alquanto dimenticato.Leggi
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    Il Risorgimento

    Nuova sezione! La foto è una litografia di Rossetti, tratta da Antonio Balbiani, Storia illustrata della vita di Garibaldi, Milano, 1860. Leggi
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    Leggi con me.

    [...] la biblioteca non è solo il luogo della tua memoria, dove conservi quel che hai letto, ma il luogo della memoria universale, dove un giorno, nel momento fatale, potrai trovare quelli altri hanno letto prima di te. È un repositorio dove al limite tutto si confonde e genera una vertigine, un cocktail della memoria dotta. [...]
    Umberto Eco Leggi
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    Nord-Sud

    "Il federalismo - ivi compreso quello 'fiscale' - servirà assai poco al progresso del Paese se il Governo italiano non avvierà contestualmenteuna strutturale ed incisiva politica economica nazionale di sviluppo e di coesione, finalizzata alla unificazione anche 'economica' tra Mezzogiorno e Centro-Nord".
    Nino Novacco (1927-2011) Leggi
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    G. A. Borgese

    [Golia è] Un libro, questo, letto da pochi, purtroppo, allora come oggi, non più in commercio, eppure un libro sul fascismo, sull'Italia fascista, un libro di radicale importanza. Ed è un libro da cui bisogna partire per conoscere Borgese scrittore, oggi effettivamente sconosciuto. L. Sciascia, in Corriere della sera dell'11 settembre 1982 Leggi
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    Le migrazioni

    Il problema dei movimenti migratori è molto vecchio e complesso. Oggi assistiamo, purtroppo e tra il plauso di molti, ad una sua pericolosa e dolorosa semplificazione.La buonanima della mia nonna materna Luigina Tardio (1897-1980) amava dire: così capisce! Ma subito aggiungeva: si stancherà! Leggi
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    Storia statistica di Giuliani

    Ho dedicato una corposa sezione al Notaio sammarchese Leonardo Giuliani (1786-1865), autore della citatissima 'Storia statistica'.Ho aggiunto alla sezione molti 'file' che servono ad inquadrare meglio questa grande figura . Leggi
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    Nascita di una città

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  • Antonio Vieira

    Antonio Vieira

    Nessuno come il gesuita P. Antonio Vieira (1608-1697) ha sferzato così violentemente la molteplicità degli incarichi, le remore della burocrazia, la peste dei favoritismi; nessuno ha ironizzato più spietatamente su la carta bollata, su illustri incompetenti dei loro dicasteri, su le votazioni fatte da ignari della materia su cui decidere. Leggi
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    Tullio De Mauro:
    'Francesco Paolo Borazio irrompe come una voce diversa, originale, della poesia nei dialetti meridionali. Un meridionale di questo secolo che scherza in versi dialettali: ecco un fatto che basta ad assegnare, di qua di ogni più affinata valutazione critica, una posizione eccezionale a Lu Trajone e al suo autore. Leggi
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    Il libro del 1876 in versione integrale. I marmi e gli alabastri del Gargano. Leggi
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    Vite, miti, memorie delle classi popolari di San Marco in Lamis. Ricerca curata da Sergio D'Amaro e stampata a cura della Amministrazione comunale di S. Marco in Lamis nel 1996. Leggi
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    Il resoconto del viaggio compiuto nel 1905 sul Gargano dal giornalista Antonio Beltramelli. Leggi il libro completo pubblicato nel 1907, con centinaia di foto inedite. Ho arricchito il testo con moltissime note, utilizzando la tecnica dell'ipertesto. Leggi
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    Giornate ecologiche

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Paolo Sylos Labini

L'Astrolabio n. 24-1979
Paolo Sylos Labini
Un riformismo rivoluzionario nella “pienezza del tempo”
Dalle tesi di Amendola alla “eutanasia della classe operaia”; l'abolizione della barriera tra lavoro intellettuale e lavoro manuale come premessa per la trasformazione socialista.
[Intervista] a cura di Giorgio Ricordy
Il dibattito in corso nella sinistra si va concentrando sulla politica sindacale e sul sindacato: una delle critiche più diffuse che sono state mosse all'ntervento di Amendola - che aveva messo il sindacato al centro della discussione - è tuttavia contemporaneamente un problema aperto, un interrogativo privo di risposte nette: a quale scopo, per il raggiungimento di quali obiettivi bisogna esortare i lavoratori a sostenere sacrifici? Lei cosa risponderebbe ad una simile domanda?

R. - Molto sommessamente, io sono in gran parte d'accordo con Amendola. Quanto all'incertezza delle finalità sulle quali occorre muoversi, direi che nella sinistra siamo colpevoli un pò tutti. Nel Partito comunista c'è stato un periodo di forte ambiguità, e anche coloro che - come me - non hanno mai detto di essere rivoluzionari ma semplicemente riformisti, avrebbero potuto incalzare e criticare molto più duramente questa ambiguità. Per un periodo non breve, dalla fine della guerra in poi, il PCI ha giocato su due piani: quello rivoluzionario e quello riformista. Si vergognava di definirsi riformista, lasciava intendere di essere rivoluzionario, ma senza spiegare il “come”, il “quando” e il “perché.
Parliamo pure di questa “ambiguità”, ma teniamo presente che quello che lei ha definito il “piano rivoluzionario” ha caratterizzato il PCI per tutto il periodo della sua crescita: e si è trattato di una crescita non solo numerica, ma anche di prestigio culturale, di influenza nelle scelte, almeno, di tutta la sinistra...
R. - Perciò parlo di “ambiguità”. Vari esponenti comunisti parlavano, o lasciavano che si parlasse di rivoluzione, pur rendendosi conto che in Italia non c'erano le condizioni reali per una rivoluzione. In realtà l'obiettivo rivoluzionario è servito come cemento per alcune classi (come quella intellettuale durante il fascismo), nella convinzione che fosse sufficiente far riferimento alla dicotomia classica del marxismo fra proletariato e borghesia. Sono eccezioni come Ignazio Silone o come i fratelli Rosselli, che già in periodo fascista videro l'importanza, nel bene e nel male (in quel periodo soprattutto nel male!), dei ceti medi. Non aver messo questi ceti nel dovuto risalto ha permesso di mantenere l'illusione rivoluzionaria, e quest'illusione è servita a rafforzare il nucleo comunista che è cresciuto, quindi, proprio grazie a questa persistente “ambiguità” dalla quale, però, era necessario prima o poi uscire. Aver vissuto con questa doppia verità per tanti anni, tuttavia, ha alimentato, specialmente nei giovani, molte aspettative. E i giovani poi rimasero delusi e si sentirono traditi dal Partito comunista.
Tuttavia anche lei riconosce che sulla base di questa prospettivarivoluzionaria” - ancorché non fondata su condizioni reali che la rendessero praticabile - si è verificata intorno di Partito comunista l'adesione di strati sempre crescenti di popolazione. È giusta questa osservazione?
R. - In un certo senso è giusta. Si tratta di verificare se quegli strati si sarebbero avvicinati al Partito comunista in misura minore o maggiore se questo avesse chiaramente proposto cambiamenti della società anche profondi, ma sul piano delle riforme e non su quello della rivoluzione.
Per intenderci su questi termini che stiamo usando, le chiedo: è corretto dire cherivoluzione” è, nel nostro caso, abbattimento del capitalismo, eriforme” significa “miglioramento del capitalismo”?
R. - Questa è un'altra ambiguità che va rimossa. Il “miglioramento del capitalismo” è proprio di un riformismo conservatore, secondo il quale questo sistema è il migliore possibile, ma occorre correggerne alcuni aspetti. Invece le cose non stanno così. Questo sistema - che pure ha portato con sé risultati di straordinaria importanza nel passato, e basta rileggersi Marx per convincersene - amputa molte possibilità dell'uomo, perciò va cambiato, non semplicemente “migliorato” e siccome credo che i cambiamenti debbano essere totali, si porrebbe parlare di un riformismo “rivoluzionario”. Tuttavia questi cambiamenti devono essere attuati - per usare un'espressione di Schumpeter - “nella pienezza del tempo”, senza aggiungere sofferenze a sofferenze, bensì minimizzando, per quanto possibile, le sofferenze.
L'obiettivo, quindi, resta per lei l'eliminazione, seppure graduale, del sistema capitalistico”
R. - Non c'è dubbio. Ma già il capitalismo attuale è molto diverso dal capitalismo di un secolo fa. Basta pensare al capitalismo agrario, del quale oggi è rimasto ben poco, se non altro come conseguenza dell'abbandono delle campagne. Già questo rappresenta un enorme cambiamento, la cui importanza non viene diminuita dal fatto che la DC, per sostituire il serbatoio di voti su cui poteva contare fra le masse di coltivatori, abbia fatto sempre più ricorso a quelle pratiche clientelari capaci di agganciare i ceti urbani emergenti. Ma i cambiamenti non si fermano a questo, pensiamo alle imprese pubbliche, alle partecipazioni statali; è vero, si tratta ancora di forme di capitalismo, ma è capitalismo di stato, cioè qualcosa di molto diverso ...
Il modo di produzione però è lo stesso...
R. - Intendiamoci, che significa “il modo di produzione è lo stesso”? C'è stata, un tempo, una visione romantica del socialismo secondo cui bisognava abolire la moneta, in Russia hanno anche provato a farlo. Viceversa il problema non è la moneta, ma il suo contenuto. Così per le imprese: sarebbe un grosso errore ipotizzare un sistema di imprese in cui scompaia qualsiasi tipo di sovrappiù; un sovrappiù deve esserci, e se se ne appropria lo Stato - cioè la collettività - vuol dire che ci troviamo in una situazione diversa da quella in cui ad appropiarsene sono i singoli capitalisti. Oggi ci troviamo in una situazione in cui lo Stato è gestito da un partito in misura non piccola corrotto, ma domani questa corruzione potrà essere eliminata e allora si sarà fatto un altro passo avanti, ci sarà stato un altro cambiamento. Ma i cambiamenti avvengono gradualmente, progressivamente, poco per volta.
Non è facile dire quando da un sistema si passa ad un altro, nello stesso modo in cui non è facile dire in quale momento un ragazzo diventa giovane, un giovane adulto, un adulto vecchio... Un momento preciso in cui collocare il passaggio non esiste.
Il paragone è suggestivo, però il ragazzo che diventa adolescente, poi adulto, poi vecchio, resta pur sempre se stesso. Non so se questo mantenimento di identità è possibile in una società impegnata nel trapasso di potere da una classe ad un'altra.
R. - Perché no? I presupposti perché nel giro di venti, trent'anni ci si trovi a vivere in una società molto diversa da quella attuale, già esistono e le trasformazioni già sono in atto. Già adesso la figura dell'operaio è molto diversa da quella tradizionale: supponga, per ipotesi, che gli operai si trasformino veramente tutti in tecnici. Il loro lavoro conserverà, certo, margini di fatica superiori a quello impiegatizio, e perciò, contrariamente a quanto ancor avviene, sarà meglio retribuito. Supponga poi che questo operaio-tecnico possa facilmente diventare impiegato, in un certo momento della sua carriera, e che un impiegato sia disposto a diventare operaio-tecnico (per esempio se vuole guadagnare di più); supponga infine che rappresentanze di operai-tecnici entrino nei consigli di amministrazione delle aziende superando le ragioni di diffidenza - certo legittime ieri, forse legittime oggi, ma non fondate su questioni di principio - che essi stessi nutrono verso simile ipotesi. In una situazione siffatta si può ancora parlare di capitalismo?
Lei propone un quadro nel quale si abbatte la barriera che separa il lavoro manuale da quello intellettuale, ma nel quale la proprietà dei mezzi di produzione resta invariata...
R. Ma oggi è questo quello che conta di più. È il controllo e non la proprietà dei mezzi di produzione che riveste il maggior rilievo (Marx lo aveva già intravisto). Il controllo oggi, con la diffusione delle società per azioni, in gran parte non è più nelle mani della proprietà, ma di regola in quelle dei manager. Ed è proprio l'esistenza di questa barriera fra lavoro intellettuale e lavoro manuale che contribuisce a mantenere la contrapposizione fra i manager, spesso alleati con gli impiegati,e gli operai. Ma una volta assicurata una mobilità orizzontale per la quale non esiste più un'apprezzabile differenza fra operaio, tecnico e impiegato, quella barriera tende a scomparire. A quel punto possiamo tranquillamente ipotizzare consigli di amministrazione indistinguibili dai consigli di fabbrica; in questo modo anche la proprietà può essere indifferentemente delle stesse persone che controllano l'impresa o di altre persone: il risultato sostanzialmente è lo stesso. In un quadro del genere si può parlare ancora di capitalismo? Se per capitalismo intendiamo il regime in cui alcuni privati, attraverso la proprietà dei mezzi di produzione, controllano direttamente i loro dipendenti e indirettamente l'intera società, allora non si può più parlare di capitalismo. Si può parlare di socialismo? A rigore, direi di sì: non c'è divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale e per quanto riguarda il problema di fondo della proprietà dei mezzi di produzione, questa non ha più veramente potere decisionale.
Ad una simile situazione di fatto si può arrivare senza cambiamenti traumatici, sviluppando trasformazioni già in atto; non si tratta di un'utopia astratta, ma di qualcosa di molto verosimile e per di più tutt'altro che privo di tensioni, di contraddizioni, di ogni sorta di pene e di sofferenze.
Lei ha parlato ditrasformazioni in atto” in questa direzione: possiamo fare qualche esempio concreto?
R. - Uno dì questi cambiamenti è proprio quello su cui Amendola concentra alcune delle sue critiche: la crescita dei salari reali che permane anche nell'attuale periodo di crisi. Io guarderei a questo fenomeno in una prospettiva più lunga come avvicinamento fra le retribuzioni degli operai e quelle degli impiegati. Questa marcia è in corso e rappresenta senza dubbio un progresso; ma se viene troppo accelerata può diventare incompatibile con il processo di accumulazione, e allora tutto il sistema si blocca con un'ulteriore divaricazione fra gli stessi salari dell'economia emersa e di quella sommersa. E con il blocco del processo di accumulazione non abbiamo la rivoluzione, abbiamo la palude.
Perciò insisto sull'idea che è necessario procedere nella “pienezza del tempo” verso i due obiettivi principali che sono l'abbattimento della divisione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, e l'altro, definito da un termine molto abusato che è “partecipazione”. Ma non partecipazione della tuta blu messa in un angolo del consiglio di amministrazione per tacitare le sue richieste; parlo di una partecipazione reale, resa possibile proprio dall'eliminazione della divisione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, e capace, a sua volta, non di dare il potere agli operai, ma di far scomparire gli operai in quanto tali. Come Keynes parlava di “eutanasia del rentier” io mi auguro l' “eutanasia dell'operaio”, la progressiva eliminazione della condizione operaia.
Questo processo di trasformazione, tuttavia, sembra adesso arrivato ad una posizione di stallo. Le critiche mosse da Amendola - con le quali lei si è detto in gran parte d'accordo - individuano alcune responsabilità. Ma lei non crede, comunque, che proprio la crisi attuale riveli che il rapporto di forze presenti nella società sia ancora quello caratteristico del regime capitalista?
R. - Ma proprio per questo concordo con le cose che Amendola dice quando rileva l'errore di dare troppo spazio, nelle rivendicazioni sindacali, a richieste di tipo monetario. Troppo poco i sindacalisti accolgono la domanda politica che cresce dalla base, troppo poco si mobilitano su obiettivi più strettamente politici. È proprio l'abuso di slogan l'interpretazione troppo timida di queste esigenze che apre spazi a sbocchi incontrollabili come certe simpatie per l'autonomia o peggio...
In altre parole, lei pensa che ci sia un persistere di quella “ambiguità” di cui parlava all'inizio, e che in questo consista la crisi che la sinistra sta attraversando?
R. - In un certo senso sì. Perché bisognerebbe dire in maniera molto netta e senza complessi di inferiorità, che non si tratta di dibattere il capitalismo nel breve periodo, perché ne verrebbe un crollo che sarebbe rovinoso per tutti. Ci dobbiamo muovere per trarsformarlo in profondità, ma “in the fullness of time”. Le rivoluzioni qualche volta diventano inevitabili, ma non sempre producono quei cambiamemi che si volevano. In fin dei conti la trasformazione è stata più profonda in Inghilterra dove c'è stato Cromwell ma una vera e propria rivoluzione borghese non c'è stata, che non in Francia, dove la rivoluzione c'è stata ma la vecchia provincia è rimasta più stabile e tradizionale che altrove. Del resto i ritardi che adesso dobbiamo registrare sono in gran parte dovuti a quell'ambiguità “rivoluzionaria”. Fino a qualche anno fa ci voleva coraggio a dire “io sono riformista”; e se qualcuno ti definiva così, era quasi un insulto o una provocazione. Si è visto negli anni del centro sinistra: i comunisti dicevano che era inutile parlare di programmazione, dato che anche un bambino sapeva che con il capitalismo una vera programmazione non si sarebbe mai potuta fare. L'aiuto del comunista in quegli anni, è stato pressoché nullo; il loro contributo critico non era “ad meliorandum”. Questo atteggiamento ha finito col giocare un ruolo di conservazione, e già allora si vedeva che le rivendicazioni salariali - come adesso Amendola giustamente denuncia - avrebbero portato da un lato a perdite e a un indebolimento dello sviluppo, dall'altro a inflazione. Il risultato è stato la caduta del profitto, e siccome ci muoviamo ancora dentro un sistema capitalistico, senza il profitto il sistema si ferma e i guai, in fondo, si riassumono proprio in questo. È il movimento operaio che adesso deve farsi carico di ripristinare la profittabilità della impresa Questa è la proposta che io stesso ho fatto più volte, anche in assemblee sindacali, dapprima suscitando scandalo, poi un pò meno: il profitto deve diventare octroyé, come la costituzione nelle monarchie assolute, elargito dalla classe operaia al sistema delle imprese. È proprio per uscire dalla posizione subordinata in cui - è vero - la classe operaia ancora si trova, che essa deve usare in questa linea la propria forza, che è enorme, più grande di quanto gli stessi interessati forse non comprendano. A questo punto la mia posizione potrebbe sembrare di destra, ma non lo è, perché io non dico che bisogna congelare la forza del sindacato, dico che bisogna usarla con un indirizzo più politico che monetario, E tanto poco conservatrice è la mia diagnosi, che gli industriali hanno sempre preferito cedere alle richieste monetarie e salariali che a quelle destinate a dare agli operai maggior potere.
In questa dinamica che lei ha illustrato direi che ci troviamo di fronte ad una contraddizione o almeno a un problema. La sinistra ha raggiunto una posizione di forza tale che potrebbe, senza traumi, tradursi in quella sovranità che consentirebbe di “octroyer la charte o, in questo caso, la profittabilità delle imprese. Viceversa l'esercizio politico di questa sovranità seguita ad essere impedito, e tale impedimento determina ad un tempo il permanere in quella “palude” cui lei accennava, l'erosione progressiva delle forze conquistate e il progressivo intensificarsi di quelle spinte estremiste difficilmente controllabili dalle organizzazioni sindacali e politiche. In questa situazione lei sottolmea tuttavia la necessità dinon accelerare” perché altrimenti si corre il rischio diingolfare il motore”. Allora?
R. - Ripeto che è proprio questa la ambiguità da cui si deve uscire. Se il sindacato, la classe operaia, la sinistra (è questa la giusta successione dei termini), si fanno carico della responsabilità di “salvare il paese” non per amor di patria, ma prima di tutto per interesse di classe, diventando capaci di “octroyer” la profittabilità, allora contemporaneamente procedono verso la loro sovranità e recuperano quei margini di sopravvivenza che la congiuntura internazionale e fattori più propriamente nazionali hanno messo in pericolo. Il grande rischio sta in quella che io ho provocatoriamente definito - e che ribadisco ancora - “politica del maggiordomo”; la politica, cioè, di chi si preoccupa di migliorare la propria situazione infischiandone della casa perché la casa non è sua. Questa “politica del maggiordomo” determina il permanere della subordinazione da cui invece si potrebbe uscire convincendosi che l'andamento della casa riguarda anche noi. Economia significa “governo della casa”, e chi se ne assume la responsabilità diventa un pò per volta il padron di casa. Questo problema della caduta del profitto - di cui già Marx si occupava - non sembra preoccupare abbastanza la sinistra italiana. In paesi come il nostro (o come l'Inghilterra) dove c'è una forte pressione della concorrenza estera, i maggiori costi non riescono a trasferirsi interamente sui prezzi, così si verifica questo paradosso per cui l'inflazione cresce ma non aiuta affatto le imprese.
I sindacati potrebbero essere ad un punto “di non ritorno”, in cui i meccanismi innescati non sono più riconducibilì a quelle esigenze di “pienezza del tempo”?
R. - Ovviamente io spero proprio di no. Ma non c'è dubbio che ci troviamo di fronte ad una crisi gravissima, e il grido d'allarme di Amendola è più che fondato. Tutte le conquiste raggiunte finora sono messe in discussione. Se riusciamo a rimetterci su una via di sviluppo economico e civile si potrà procedere verso quegli obbiettivi che ho descritto, non credo utopisticamente. Se non ci riusciamo, allora perdiamo tutto.
Quando coesistono crisi della sinistra e crisi del capitalismo, si apre la via al fascismo?
R. - Noi abbiamo già avuto Mussolini, che con il suo formidabile, straordinario fallimento economico, politico, morale, militare, ci ha in un certo senso vaccinati. Dobbiamo essergli grati per questo: se non avesse fornito quell'esempio di catastrofe, sicuramente i tentativi che in questi ultimi anni abbiamo avuto per ripristinare una qualche forma di fascismo, sarebbero stati molto più temibili. Ma non dobbiamo fidarci troppo: anche i vaccini hanno una loro scadenza, e noi abbiamo già passato tre decenni e mezzo...

L'Astrolabio n. 9-1978
Uno studio del Formez
Il Sud fra errori effettivi e recuperi difficili
di Giorgio Ricordy

Il Governo Andreotti - Da L'Astrolabio del 1978.
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Circa vent'anni fa i responsabili della politica economica italiana scoprirono la formula capace di riscattare il Mezzogiorno dal suo secolare stato di sottosviluppo. Secondo questa formula, che d'altra parte risaliva ad alcune autorevoli correnti del pensiero economico europeo, occorreva creare nelle regioni sottosviluppate del Sud alcuni “poli” industrializzati: da tali poli, con opportuni interventi di sostegno, la industrializzazione si sarebbe irradiata a macchia d'olio sconfiggendo disoccupazione, emigrazione, arretratezza, miseria.
Gli anni successivi, quelli del centro-sinistra e della Programmazione Economica, furono dedicati al tentativo di realizzare questo obiettivo con ingenti mobilitazioni di capitali, massicci interventi dell'industria di stato e varando la politica degli incentivi necessaria a indurre grandi imprese del nord a costruire impianti nel Mezzogiorno nonostante le difficoltà che le nuove localizzazioni avrebbero presentato.
Da L'Astrolabio del 1978.
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Oggi, a ventanni di distanza, il Mezzogiorno è cambiato radicalmente, senza alcun dubbio, ma nessuno si nasconde che l'atteso sviluppo non c'è stato, settori come il chimico e il siderurgico, che dovevano funzionare da assi portanti del processo di industrializzazione, sono entrati essi stessi in crisi gravissima; i giganteschi insediamenti industriali attorno ai quali doveva crescere tutto il nuovo tessuto produttivo locale fatto di piccole e medie imprese indotte, sono stati battezzati “cattedrali nel deserto” perché intorno ad essi, nella maggior parte dei casi, non è cresciuto assolutamente niente.
In un recente seminario organizzato dal Formez (il centro studi e formazione professionale collegato alla Cassa del Mezzogiorno) su “la struttura industriale del mezzogiorno”, il mancato raggiungimento di quegli obiettivi è stato dettagliatamente analizzato da numerosi studiosi di tutta Italia, ma principalmente provenienti da Università del Sud, utilizzando ricerche condotte in diverse località sedi di grandi insediamenti industriali. Base del confronto fra i diversi economisti, è stata un'ampia ricerca condotta dal Formez su 8 insediamenti del Mezzogiorno (Taranto, Gela, Pisticci, Porto Torres, Pomigliano d'Arco, Cassino, Lecce e L'Aquila) dalla quale scaturisce l'immagine di una profonda disgregazione a livello produttivo, demografico, occupazional. I tre ricercatori che hanno condotto lo studio (Carlo Buttari, Rosa Maria Gervasio e Gianfranco D'Ottavio) scrivono nelle loro conclusioni:

“Il quadro che emerge conferma la realtà di un Mezzogiorno che nel suo complesso perde significativamente terreno rispetto al resto del Paese presentando una crescita dell'occupazione ad un tasso inferiore alla stessa media nazionale” e ancora: “lo stato di degradazione economica e sociale del Mezzogiorno sembra riferirsi al particolare processo di espansione della base produttiva, che non solo non si è rivelato capace di superare le disuguaglianze tra il Mezzogiorno e il resto del Paese, ma ha prodotto al suo interno forti differenziazioni anche in quelle aree ove in misura maggiore è stato indirizzato il flusso degli invescìmenti”.

Due tesi contrapposte

Dalla tua sx: Flaminio Piccoli (1915-2000), Giulio Andreotti (1919-2013), Benigno Zaccagnini (1912-1989) - Da L'Astrolabio del 1978.
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Si tratta di affermazioni più volte ripetute, nelle aspre polemiche sviluppatesi sull'argomento negli ultimi anni, ma che assumono un particolare significato oggi, fatte da un organismo collegato alla Cassa del Mezzogiorno che, nel bene e nel male, è stata tra i principali artefici di quella filosofia dello sviìuppo per poli che adesso si trova sotto processo.
D'altra parte, se tutti concordano nella constatazione dei dati di fatto, non tutti seguono gli stessi orientamenti nell'individuarne le cause o gli aspetti di maggior rilievo. Augusto Graziani - economista e meridionalista tra i più agguerriti nel criticare la recente ritorma della legge per il Mezzogiorno - ha coordinato il seminario e, concludendo, ha individuato due tendenze nettamente distinte: una, che lui ha definito “sviluppista” secondo cui non la logica degli interventi per il Sud sarebbe da mettere in stato di accusa, ma la carenza di risorse che si sono sapute mobilitare. Mancanza di imprenditorialità locale, ad esempio, ma anche mancanza di strutture finanziarie, di infrastrutture e, soprattutto, inadeguatezza dell'apparato pubblico nel massimizzare gli effetti positivi del grande insediamento utilizzandoli a beneficio della collettività. La seconda tendenza che Graziani indica, definendola “funzionalista”, attribuisce invece al mancato sviluppo del Mezzogiorno una sua ragion d'essere nel processo di sviluppo capitalistico: l'imprenditoria locale esiste, ma si orienta verso iniziative speculative (edilizia, particolari attività commerciali); la struttura finanziaria c'è, ma sostiene la speculazione e non le iniziative produttive; la pubblica amministrazione, infine, è inefficiente perché si vuole che lo sia, perché risponde a logiche clientelari non diverse da quelle invalse in tutto il Paese e sostenute da una classe politica che su tale clientelismo e su tale inefficienza ha fondato il suo sistema di potere.
Senza entrare nel merito della distinzione tra “sviluppisti” e “funzionalisti”, si può comunque trarre utile insegnamento dall'esame dei fatti che dalla ricerca Formez emergono e che gli altri studi confermano ampiamente.
Prima di tutto la genesi di questi grandi insediamenti: “in ogni occasione - è scritto nella relazione del Formez - sono stati presentati dalle forze politiche nazionali e dai gruppi economici e finanziari interessati, come fatto risolutore del problema occupativo e dello sviluppo socio-economico locale”. Non concepiti all'interno di un ampio programma di interventi integrati sul territorio, dunque, ma come misure-tampone, slegate e occasionali.
Impreparazione delle classi dominanti
Filippo Maria Pandolfi (1927 - ), Carlo Donat Cattin (1919-1991) - Da L'Astrolabio del 1979.
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Poi la reazione locale all'arrivo della grande impresa: essa “suscita da un lato vaste attese nella popolazione per la risoluzione del gravoso problema della disoccupazione, dall'altro profondi interessi da parte della classe politica dominante a livello locale, che vede in questa occasione la possibilità di rafforzare il proprio potere. Questa classe politica - scrivono ancora i ricercatori del Formez - si manifesta impreparata a gestire in una prospettiva dinamica il processo di industrializzazione, estraneo alla realtà locale, né è in grado di comprendere, a causa dei limiti politico-culturali determinati da una situazione socio-economica in stasi, i potenziali elementi innovativi, che il processo di industrializzazione può mettere in moto, sui quali intervenire secondo una strategia dì sviluppo proiettata nel tempo. Pertanto l'elemento principale che sembra catalizzare gli interessi locali è costituito dalla creazione di nuovi posti di lavoro, fatto che rappresenta un'occasione da sfruttare imponendo all'impresa il proprio ruolo di mediazione nel momento del reclutamento e della selezione del personale da inserire in azienda”.
Torna alla mente l'immagine formulata da Guido Carli in cui l'impresa industriale rimane soffocata dai “lacci e lacciuoli” della politica e delle clientele, e il presidente del Formez Sergio Zoppi sottolinea:

“Nessuna democrazia industriale può vivere senza un apparato pubblico, centrale e periferico, efficiente!”.

Gianni Agnelli (1921-2003), RomanoProdi (1939- ) - Da L'Astrolabio del 1979.
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Le conseguenze di questo stato di cose si ripercuotono pesantemente sul tessuto produttivo preesistente all'arrivo della grande impresa: piccoli imprenditori e artigiani locali, infatti, vengono spazzati via dalle profonde trasformazioni che intervengono, poiché “la natura dei loro rapporti con la grande impresa è nella maggior parte dei casi conflittuale, non solo perché si scontrano con la particolare politica degli approvvigionamenti dell'impresa (che, almeno per una prima fase, privilegia il mercato nazionale), ma anche perché subiscono nell'area la concorrenza dovuta all'accentuarsi della presenza di imprese del Centro-Nord, attirate dall'incremento del reddito locale. Ciò, unitamente al particolare comportamento della struttura finanziaria locale, limita l'ipotesi di un loro sviluppo economico e di produzione sociale investendone la stessa capacità di resistere al mercato.
Un generale ritorno all'agricoltura?
Non manca, tuttavia, chi, come Paolo Baratta, ha affermato che la scomparsa di
Catena di montaggio della Vespa
Leggi tutto: 1978 - Il Sud tra errori e recuperi
quelle attività produttive locali tradizionali è, nella logica delle cose, inevitabile: si trattava, egli dice, di attività rivolte alla soddisfazione di un mercato locale. Quando il mercato si apre all'intero Paese o addirittura all'integrazione internazionale, per quelle attività non c'è più alcuna possibilità di sopravvivenza. D'altra parte, sostiene Baratta, la situazione del Sud è davvero gravissima soprattutto per lo “sbandamento” che la classe dirigente locale dimostra comportandosi verso la realtà rappresentata dai grandi impianti con criteri “da economia feudale”, e sostenendo oggi la necessità di una ripresa economica puntando sull'agricoltura che, notoriamente, è ben lontana dal possedere le potenzialità risanatrici che codesti amministratori suppongono.
Anche la ricerca del Formez, pur raccomandando di non subordinare lo sviluppo dell'agricoltura alle esigenze dell'industrializzazione, mette in guardia dal rischio che,

“partendo dal rigetto del modello di industrializzazione, si enfatizzi la strategigità del settore agricolo e si giunga a teorizzare il generale ritorno all'agricoltura come risolutore dei problemi economici e sociali dell'area, senza definire verso quale tipo di agricoltura, di quali dimensioni, con che ordinamento cui mirare, e con quali modelli organizzativi e gestionali ci si debba indirizzare”.

Spazzare il terreno dagli antichi equivoci

Manifestazione di metalmeccanici a Napoli - Da L'Astrolabio del 1979.
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Sembra, dunque, inequivocabilmente, che le maggiori responsabilità degli errori passati, ma anche e soprattutto per le possibilità di un recupero futuro, gravino sulle spalle della pubblica amministrazione. E tanto più questo è vero, quanto più trova il processo di decentramento amministrativo che attribuisce larghe competenze alle Regioni e agli enti locali minori. Il senso di ciò. tuttavia, risulterebbe mistificante se non si sottolineasse che il funzionamento e gli orientamenti degli amministratori locali sono fatti politici, che discendono a loro volta da scelte politiche precise che, generalmente, trovano le loro formulazioni in sedi ben diverse dai consigli comunali o dagli assessorati all'Industria.
Lo studio del Formez, che pure non sembra trarre dalla massa di osservazioni raccolte, analisi di carattere politico, senza dubbio ha il merito di spazzare il terreno da una gran massa di equivoci antichi: i programmatori degli anni '60, infatti, avevano elaborato teorie che facevano riferimento ad una situazione sociale e politica profondamente diversa da quella reale; oggi, sui connotati di quella realtà non è più lecito nutrire dubbi o costruirsi alibi.
Pur non avendo creato l'atteso sviluppo, l'arrivo della grande industria nelle regioni del Sud ha certamente determinato la nascita e lo sviluppo di grossi nuclei di classe operaia; questi nuclei, negli anni trascorsi e oggi, confrontandosi con la crisi di tutto il Paese, hanno acquisito livelli di responsabilizzazione e di consapevolezza da cui sarà possibile attendersi il contributo nuovo e determinante per quella trasformazione del Mezzogiorno che non dovrà misurarsi in termini di reddito e di produttività soltanto, ma anche sul metro della pianificazione organica del territorio, della partecipazione alle scelte, della qualità della vita.

L'Unità dell'8.12.2005
Addio a Sylos Labini, economista in rivolta
di Bruno Gravagnuolo

Paolo Sylos Labini ha amato molto l'Italia.
Leggi tutto: Un corridore tignoso
Ieri il “corridore tignoso” se ne è andato. Era così che lui stesso si auto-definiva, con civetteria. Ricordando un passato da fondista, in realtà ironizzando sulla sua tigna di avversario implacabile di Berlusconi.
“Ero bravo, sa? - ci disse una volta - ma avevo battiti cardiaci troppo forti, e quelli con battiti più lenti da fermo mi fregavano”.
Chissà, ora che il cuore di Sylos non batte più, in questa piccola confessione autobiografica si può scoprire tutta la personalità di un eminente studioso che era anche un merviglioso e geniale attaccabrighe. Sì, il professor Paolo Sylos Labini non avrà la soddisfazione di vederla, la sconfitta del Cavaliere e del “regime” contro cui combatteva con l'energia di un corridore ventenne. Non risparmiando fendenti a nessuno. Nemmeno a quelli che combattevano dalla sua stessa parte, quando aveva la sensazione di aggiustamenti o timidezze nella battaglia d'opposizione al governo. Eppure Sylos resterà parte integrante della riscossa del centrosinistra in cammino. Alla quale, con tutta la sua autorità di economista spigoloso, aveva dato il “la” tra i primi. Addirittura da prima della sconfitta del 2001. Quando bandì, con altre eminenti figure tra cui Norberto Bobbio, un proclama sui rischi della democrazia connessi alla vittoria di Berlusconi.
Appello il cui contenuto rivendicava ad ogni piè sospinto. Appoggiandosi ai dati dell'Osservatorio di Pavia. A Ricolfi e Mannheimer. Con l'argomento che l'accento messo sul pericolo di “regime” aveva poi fruttato un milione di voti in più al centrosinistra pur sconfitto. Togliendone altrettanti all'avversario.
Fatale dunque che l'attivismo di Sylos si incontrasse con la parabola dell'Unità rediviva, del nostro giornale. Per il quale tra l'altro scrisse pagine e pagine non di invettive. Bensì di riflessioni teoriche. Che replicavano in piccolo tanti suoi capolavori.
Da Economie capitalistiche ed economie pianificate al Saggio sulle classi sociali, fino a la Crisi italiana e altri ancora.
Pagine su Marx, sul vero riformismo, sulla democrazia, sul liberalismo. Una vera e propria enciclopedia militante, ispirata da un lato alle sue idee di fondo. E dall'altro alla lotta per il programma. Per il rilancio produttivo di un'Italia minacciata dallo spettro “Argentina”: stasi, monopoli, corporativismo, sprechi, default. E patrimonialismo di uno stato ridotto ad azienda privata.
Ma raccontato così Paolo Sylos Labini rischia di apparire soltanto un “girotondino”. E Dio sa quanto i girotondi lui li amasse e quanto, li vedesse come espressione di un “ceto medio vasto preparato e attento”. Non mancando di aggiungere allegramente: “Sono ottimi e i tre quarti sono donne, intelligentissime e anche belle".
Semmai però il Professore era una specie di Bertrand Russell dei movimenti. Giustamente.
Perché non solo era imprevedibile e divertente. Ma aveva ruvido carisma e autorità. Già, un Accademico dei Lincei con animo libertario e “indignato”. Ed era uno spettacolo quando montava sulle furie senza fronzoli. Contro i mali perenni e presenti dell'Italia. Dal fascismo, al Concordato, all' “inciucio”, a Berlusconi, alle banche...
Un Salvemini redivivo e persuasivo insomma, incavolato e didascalico. Con accento romanesco inconfondibile. Bene, lui se lo poteva permettere, ne aveva i titoli e la storia. Perciò lo stavano a sentire, dovevano sentirlo, anche quelli che “venivano da lontano”. Perciò lo stavano a sentire, anche quando certe tirate contro Marx e Machiavelli, realisti e “violenti”, ci parevano un po' astratte e moralistiche (ma non aveva tutti i torti). Perché? Intanto perché era un grandissimo studioso. Il vero decano dell'economia italiana e insieme il padre di un'intera generazione di economisti. Un uomo serio, sempre con dati forti e argomenti alla mano. Con profonda attitudine etica fin dall'inizio, intrisa di illuminismo e “problemismo”. Che aveva in odio le fumisterie e gli slogan, luoghi comuni di destra o di sinistra.
Un'attitudine la sua maturata già in Italia, quando si laurea nel 1942, in Economia. Ad appena 22 anni e con mille dubbi sul fascismo nel quale era cresciuto e del quale il padre lo esortava a dubitare. Poi risolutivo fu l'incontro con Gateano Salvemini negli Usa, al tempo della specializzazione ad Harvard e Cambridge nel 1948, che lascerà un'impronta indelebile nella formazione di Sylos. È all'ombra del grande esule pugliese e storico del meridione che Labini matura una concezione dell'economia mai sganciata dalla storia e dalla cultura. Per capire l'economia - sostenne sempre - “cultura e storia sono ben più importanti dell'economia”. E in Italia a suo avviso, l'onda lunga della civiltà urbana a un certo punto s'era fermata.
Era mancata la società civile diffusa, qualcosa di analogo all'Inghilterra e alla Scozia di Adam Smith, o all'America dei Puritani.
Tutte cose che il Professore diceva molto prima del celebre studio di Robert Putnam degli anni 90 sulla civiltà urbana assente nell'Italia del sud.
E molto prima di Banfield, il teorico del “familismo amorale”, fenomeno che aveva condannato il nostro paese all'asfissia di microeconomie locali senza riproduzione allargata del capitale e senza classi dirigenti.
Adam Smith? “Non facciamone un santone liberista - ripeteva - la sua era una lezione di sobrietà risparmiatrice. Di innovazione e onesta trasparenza. Di simpatia morale e umana che faceva della benevolenza, e non dell'imbroglio mercantile, l'occasione per un “utile economico allargato”.
Proprio qui il punto teorico di Sylos: l'aumento di produttività su scala globale. L'innovazione, il coinvolgimento dei soggetti produttivi in virtù di un'etica condivisa. E sopratutto l'allargamento del mercato dei beni e dei servizi.
Tramite alti salari capaci di stimolare la diminuzione del “costo del lavoro per unità di prodotto”, grazie alla tecnologia. E qui anche il nucleo fecondo di Sylos, non solo teorico ma programmatico. Di un'impostazione che a ben guardare è oggi quella del centrosinistra: spostare risorse dalla rendita e dal consumo improduttivo al lavoro. Per potenziare la produttività, alzare i salari e incrementare i consumi.
In un quadro di tendenziale aumento dell'occupazione, non precaria ma di buona qualità e stabile. Produttivismo e redistribuzione quindi. Ma a condizione di rompere la gabbia endemica, politica e culturale, dei mali italiani. Di cui per Sylos Labini Berlusconi era l'acme. Il vero precipitato storico e autobiografico di una nazione. Nel senso dell'antieconomia, dell'antipolitica, della degenerazione del costume civico e del trasformismo. Rompere la prigione del berlusconismo, il regime mediatico ed economico. Per far spazio alla nuova economia e alla nuova identità civica degli italiani. Erano questi i chiodi fissi di Sylos. E per tutta la vita cercò di piantarli nel futuro. Con i libri, i “movimenti”, le lezioni e le sfuriate. Ma a vedere qualche frutto, il corridore tignoso non non ce l’ha fatta per un pelo. Peccato.

L'Astrolabio n. 2-1975
Dibattito sul saggio di Sylos Labini
Stratificazione sociale e omogeneità di classe
di Carlo Vallauri  *

Paolo Sylos Labini: Saggio sulle classi sociali
Leggi tutto: L'Astrolabio nel 1975
In questa sede non è più necessario sottolineare l'importanza dello studio che Paolo Sylos Labini (Saggio sulle classi sociali, Laterza, Bari 1974) ha condotto sulle modificazioni nella composizione delle classi sociali in Italia sia per l'eco scientifica e politica suscitata dalla ricerca sia per il dibattito che ne è seguito e che ancora si svolge su varie riviste.
L'analisi condotta sulla base della ripartizione per grandi aggregati (borghesia, classi medie, classe operaia), con una serie di distinzioni interne (proprietari, imprenditori e dirigenti; piccola borghesia degli impiegati privati, pubblici e degli insegnanti; piccola borghesia relativamente autonoma: coltivatori diretti, fittavoli, artigiani, commercianti; categorie particolari, operai addetti rispettivamente all'agricoltura, all'industria, all'edilizia, al commercio, ai trasporti e ai servizi, nonché domestici) parte dal 1881 e, attraverso i censimenti del 1901, del 1921, del 1936, del 1951, del 1961 e del 1971, registra le modifiche intervenute nelle tre grandi zone del paese (nord, centro, sud), fornendo utili confronti internazionali (con i paesi industrialmente avanzati, anche se a differenti regimi di proprietà, e con paesi sottosviluppati) e riporta più dettagliati esami per quanto concerne i dati italiani del 1971.
L'autore compie la ricerca tenendo conto dei modi di afflusso dei redditi (rendite, profitti, redditi misti, stipendi, salari) e uficializza - con opportune ed attente rielaborazioni - le categorie risultanti dai censimenti. L'osservazione da alcune parti avanzata, secondo cui l'analisi è impostata sulla distribuzione del reddito anziché sulla distribuzione relativa alla sussistenza o meno nei singoli della proprietà privata dei mezzi di produzione, è già superata nell'esposizione di Sylos Labini, quando premette che “in una società come quella italiana la distribuzione del reddito oggi dipende, congiuntamente, dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, dal controllo politico ed amministrativo del processo di accumulazione e dai diversi gradi di istruzione e di qualificazione di coloro che lavorano”.
La vertenza Calabria. Da L'Astrolabio.
Leggi tutto: L'Astrolabio nel 1975
Il fenomeno più rilevante messo in luce è quello della sostanziale stabilità delle tre grandi classi (la borghesia passa in quasi un secolo dal 1,9 al 2,6, le classi medie dal 45,9 al 49,6, la classe operaia dal 32,2 al 47,8): l'aumento della piccola borghesia - numericamente sensibile e per questo apparentemente vistoso - è collegato alla estensione dei colletti bianchi e del settore commerciale mentre la flessione della classe operaia è la risultante della caduta dei salariati agricoli (dal 35,6 al 6,2) contemporanea all'incremento dei salariati dell'industria, dell'edilizia e di altri settori (dal 16,6 al 41,6).
Sia per queste che per altre variazioni possiamo osservare come i mutamenti intervenuti tra periodo fascista e primo periodo post-fascista non siano di grande entità mentre più significativi appaiono i mutamenti negli anni sessanta: conferma questa della tesi di una continuità di strutture sociali tra gli anni quaranta e cinquanta, non interrotta dalle terribili esperienze della guerra e dell'occupazione straniera, e invece di un avvio a modifiche di fondo negli anni sessanta per effetto dei processi di industrializzazione e delle conseguenti migrazioni interne, non solo di territorio, ma di attività.
Gli effetti di un evento non si producono immediatamente, e come le nuove dislocazioni degli apparati produttivi determinano conseguenze a distanza di tempo, così la socializzazione scolare in atto nel nostro paese non ha sinora apportato modifiche apprezzabili (anche se, come rileva l'A., il semianalfabetismo è sceso dal 90 al 70%). Poiché non è stata (né nel periodo centrista né durante il centro-sinistra) programmata la utilizzazione dell'impiego degli studi la facilità d'accesso ai diplomi ed alle lauree ha prodotto soltanto una preoccupante disoccupazione intellettuale (di cui l'esplosione di Reggio Calabria è il sintomo più noto).
Gli spostamenti all'interno delleclassi” - usiamo questo termine nell'accezione che ne fa Sylos Labini - rivelano una serie di modifiche che, alterando la stratificazione sociale del paese, determinano una diversa distribuzione dell'incidenza delle rispettive componenti.
L'ingresso della donna nel processo produttivo dei settori secondario e terziario - e che ha contribuito a modifiche nel sistema familiare e nel costume - non traspare in tutta evidenza per il contemporaneo esodo della donna dal lavoro nel settore primario. Ecco però già qui emergere come sia indispensabile una “lettura” dei dati che tenga conto delle diversità intervenute nei rapporti tra lavoratore (o lavoratrice) e strumento di produzione, giacché il passaggio da un settore all'altro provoca un “salto” qualitativo che le quantità numeriche non sono in grado di indicare, un salto che ha conseguenze rilevanti sul piano economico, sociale e psicologico.
Elemento di massimo rilievo è poi il trasferimento dei salariati in genere dall'agricoltura ad attività extra-agricole: qui non solo si ha un mutamento di settore, ma una diversa posizione sociale con il passaggio dall'ambiente rurale ad un contesto urbano o sub-urbano.
All'isolamento del bracciante - che trovava nelle leghe lo sbocco politico anche se continuava a subire le influenze tradizionali nelle abitudini di vita e nei valori - si sostituisce l'aggregazione nella metropoli, in una sorta di oscuro destino che fa sentire con maggiore vigore l'urgenza di quelle infrastrutture civili che mancano. Ma - osserviamo - se al lento rincorrersi delle stagioni succede il ritmo ossessivo delle fabbriche (i guai della pendolarità, della lunghezza del tragitto tra casa e luogo di lavoro, dell'insufficienza delle abitazioni e delle attrezzature igieniche non rappresentano una novità per troppi lavoratori), comincia anche a nascere il senso della partecipazione ad un comune “status”, la classe in senso oggettivo si fa classe anche in senso soggettivo.
Emigrazione e Tasse - Da l'Astrolabio.
Leggi tutto: L'Astrolabio nel 1975
Le confuse aspettazioni di una astratta età migliore si inverano in una precisa chiarificazione di ruoli e di comportamenti: caduto il “mito” di una liberazione dall'esterno (gli americani portano il consumismo, i sovietici scoprono i misfatti del loro indiscusso capo), la classe operaia comincia ad avvertite che solo dalla sua capacità dì organizzazione all'interno della fabbrica in connessione con il movimento di tutti gli altri lavoratori potrà conseguire risultati positivi per quanto attiene la sua condizione di lavoro e la “qualità” della sua esistenza.
Ha scritto G. Amendola (“Critica marxista” 1973, n. 4) che negli anni sessanta la classe operaia in Italia ha aumentato la sua forza contrattuale, e non il suo peso politico. Il problema di come accrescere il peso politica appartiene alla tematica di fondo dei partiti e dei movimenti della sinistra, storica o no.
A questo punto s'inserisce il discorso sulle altre componenti della classe lavoratrice. Sylos Labini si è soffermato a lungo sui caratteri delle classi medie, di cui ha sottolineato la già accennata prevalenza dell'elemento impiegatizio e commerciale, ma anche l'aspetto parassitario di una sua parte cospicua. A questo proposito se sono in qualche modo collegati con l'attività produttrice, con i costi e i prezzi, gli stipendi degli impiegati che operano in imprese o aziende pubbliche o private che producono merci nel mercato aperto, non esiste - ci domandiamo - qualche forma di collegamento tra l'attività degli impiegati che operano in un (catastrofico ma reale pur nella sua negatività) sistema “assistenziale”, in uno Stato interventista (anche se in forme distorte a vantaggio di pochi) nell'economia e l'organizzazione produttiva? Cioè l'attività di questi impiegati è di per sé improduttiva o non è improduttiva per il modo in cui è esercitata? E questomodo” dipende da una volontà negativa, dalla pigrizia, dalla superficialità, dalla corruttibilità dei “colletti bianchi” o non dalla volontà positiva delle forze dominanti di mantenere inalterate le strutture amministrative, fatiscenti, con una arcaica legge sulla contabilità di stato (sulla quale proprio Sylos Labini ha posto giustamente l'accento) incapace a far “procedere” le spese decise dal Parlamento e stanziate in bilancio?
Gaetano Salvemini (1873-1957). Da L'Astrolabio
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L'apparato burocratico italiano è pieno di difetti ma esso è il frutto di mancate trasformazioni istituzionali, di mancati interventi politici. Né noi crediamo che la grande borghesia, particolarmente quella industriale, abbia interesse che si facciano le riforme rivolte alla “razionalizzazione del sistema”.
Proprio Sylos Labini, in un dibattito al congresso internazionale di sociologia a Roma (1969), rispondendo a Sweezy, ebbe a rilevare, sulla scorta di Adamo Smith, che come la superiorità del sistema borghese su quello aristocratico-feudale risultava dalla sua maggiore capacità razionalizzatrice (investimenti e non consumi) così spetta ai nuovi sistemi economici dimostrare oggi la loro superiore razionalità (nella possibilità di distribuire i beni a tutti i popoli anziché di favorire gli “sprechi”).
Ebbene: la “grande borghesia” tutto ha fatto nel nostro paese fuorché cercare di razionalizzare il sistema burocratico, e non ha interesse a farlo perché così come esso è oggi, questo sistema serve egregiamente (i modi di attuazione della politica degli incentivi ne sono la dimostrazione); i contrasti interni tra i diversi settori della grande borghesia possono portare alla penalizzazione di un settore (es. elettrico) ma ai fini di un più sicuro dominio degli altri settori (il recente libro di Scalfari e Turani suggerisce al riguardo utili acquisizioni).
Una vignetta di "Domenico". - Da L'Astrolabio-
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Il nostro è uno stato assistenziale non tanto perché assiste (male) invalidi, disoccupati, pensionati dell'INPS e similari quanto perché assiste (con finanziamenti) settori e gruppi economici. Se i ceti medi si avvantaggiano di un “sovrappiù”, anche appartenenti alla classe operaia partecipano di un “sovrappiù” che lo Stato capitalistico (chiamiamo le cose con il loro nome esatto) elargisce agli imprenditori (soprattutto “grossi”). questi ultimi usufruiscono quasi integralmente delle risorse sottratte attraverso l'erario alla totalità dei cittadini, ed alcune categorie di privilegiati, operai e impiegati se ne avvalgono, in misura sia pure minore.
Viene così a determinarsi una corsa a godere i vantaggi acquisiti, che rende impossibile il concretarsi di quel blocco tra occupati e disoccupati, tra interessi offesi del Sud e interessi distorti del Nord, che Salvemini, maestro comune, ha insegnato a considerare, sin dall'inizio del secolo, come alleanza alternativa da contrapporre alla rete degli interessi protetti.
Proprio Amendola, nello scritto sopra ricordato, lamentava la non avvenuta saldatura tra operai e contadini, tra occupati (privilegiati) e sottoccupati. Ma perché da questa alleanza “storica” (non “compromesso”, che è un'altra cosa) debbono essere esclusi i ceti medi?
Sylos Labini afferma che “caduta la previsione del Manifesto circa la progressiva scomparsa della classe media, non è più sostenibile la tesi del bipolarismo classista, sia pure solo tendenziale”.
Giorgio Amendola (1897-1980). Da L'Astrolabio
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Se si è avuta diminuzione di alcune categorie delle classi medie (piccoli imprenditori, coltivatori diretti), la nascita delle nuovi classi medie va vista come conseguenza dello stesso processo di produzione che secerne appunto da un lato operai qualificati (la “nuova classe operaia”, per dirla con Mallet), dall'altro impiegati addetti a servizi, i quali si trovano di fronte al processo di produzione e di fronte alla capacità di interventi sugli investimenti - nella stessa identica condizione di “impotenza” di tutti i salariati. La tendenza alla “unificazione” salariale tra operai e impiegati è appunto la risultante della consapevolezza di una omogeneità di condizioni che la eterogeneità dei livelli di redditi non contraddice, e se vi sono sperperi, ineguaglianze non sempre denunciate dai sindacati con la stessa chiarezza con cui il segretario generale della CGIL ha parlato degli aumenti dei giornalisti, questi fenomeni non vanno assunti come indici di fondo ma come aberrazioni da correggere, e solo un forte movimento unitario di tutte le categorie di lavoratori può avere la forza di farlo.
E la stessa contestazione - verso la quale Sylos Labini non risparmia critiche, che sono giuste se rivolte agli esempi degenerativi indicati ma che sono parziali se ritengono di esaurire la complessità del fenomeno - che cosa è stata se non la consapevolezza dei figli dei borghesi, dei ceti medi che la condizione di “privilegio” dei padri è “antieconomica”, cioè “irrazionale” ancor prima che ingiusta?
Dalla diversità della stratificazione sociale Sylos trae una proposta di riforme basata sulla capacità della classe operaia produttiva di intervenire nel “tiro alla fune” per dare uno strappo capace di allentare la presa dei gruppi più retrivi della borghesia; e perché questo strappo sia consistente si sollecita l'alleanza con i gruppi più robusti e relativamente più omogenei della piccola borghesia.
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Lavoratori nel Mezzogiorno. Da L'Astrolabio.
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'autore denuncia soprattutto la borghesia “finanziaria e speculativa” e annette a questa anche l' “alta borghesia burocratica” nonché le frazioni della borghesia che all'interno degli stessi partiti di sinistra operano come gruppi clientelari rendendo più forte il peso del parassitismo.
Se costituisce errore di valutazione confondere in uno schematismo astratto le diverse componenti della borghesia, non è però neppure possibile separare la grande borghesia “finanziaria” e “mediatrice” dalla borghesia “industriale”, perché questa a quella è legata, nel nostro sistema. da un rapporto di funzionalità.
Non vorremmo allora che il fronte operaio dovesse limitarsi - in una visione illuministica - a contenere un “corretto” sviluppo dell'economia industriale “libera”, per ridurre alla ragione - alla ragione del “potere”, s'intende - ilsistema”.
L'emergere delle nuove classi medie non va interpretato, a nostro avviso, come l'affiorare di una “terza” classe, anche se la molteplicità degli “ibridi” di classe potrebbe far pensare all'utilità di una simile distinzione.
Se la distinzione serve per rendersi conto delle eterogeneità dei caratteri di tutte le componenti della classe senza potere, senza possibilità cioè di intervento nell'uso degli investimenti, nel controllo delle risorse, siamo d'accordo. Se invece della individuazione del fenomeno si volesse dedurre una differenziazione sociale interna di classe, riteniamo che al contrario viene in evidenza la esistenza di una classe generale del proletariato impotente rispetto al potere economico, distorta nei suoi comportamenti per effetto dell'uso fatto dalla classe dominante degli strumenti del potere politico (istituzioni, scuola, mass media).
Fenomeni aberranti di spinte corporative e consumistiche all'interno di questa classe vanno denunciati e combattuti proprio perché essi contribuiscono al mantenimento di una apparente eterogeneità: quindi le tendenze che portano verso le parificazioni salariali costituiscono la controspinta che può ridare alla omogeneità obiettiva di fondo quella omogeneità soggettiva, senza la quale il legame di classe minaccia di snaturarsi in sviamenti integrazionistici. E le degenerazioni particolanstiche non possono essere confuse, pur nella denuncia rigorosa dei privilegi feudali con la tendenza di fondo ai fini di una analisi globale.
Carlo Vallauri

Fonte: https://www.syloslabini.info/online/prefazione-al-librio-gli-intoccabili-di-m-travaglio-e-s-lodato/
Mafia e Stato, dalla convivenza all’alleanza
di Paolo Sylos Labini

Crac-Craxi - Da L'Astrolabio
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Chi legge questo libro, alla fine, non può non porsi una domanda: come siamo potuti cadere così in basso? Possibile che la guerra alla mafia, che soltanto dieci anni fa pareva non lontana dal successo, sia finita così male, addirittura con la mafia al potere? E ancora: possibile che il "popolo di geni" di cui vaneggiava Mussolini continui a credere, dopo dieci anni, alle atroci menzogne di un Berlusconi e della sua corte dei miracoli? Verrebbe da concludere che siamo un popolo di imbecilli e di malfattori, altro che geni. Ma, prima di abbandonarci all’angoscia e alla disperazione, proviamo a ragionare. Al fondo c’è un micidiale, radicale cinismo che domina tutto, un’assuefazione al malaffare che diventa ambiente e costringe le persone civili e oneste – ce ne sono ancora, e tante – a una ammutolita paralisi. Perciò è importante che escano e circolino libri come questo. Perché sono una delle poche armi che ci rimangono per trovare o rinfocolare il coraggio di combattere.
E’ l’informazione particolareggiata dei fatti che dà coraggio. Solo la verità può rendere liberi quanti oggi non vogliono essere servi, ma finiscono per esserlo inconsapevolmente, col torpore rassegnato che li paralizza. Una condizione che io spiego non solo col nostro machiavellico cinismo, ma anche con qualcosa di ancora peggiore: una grave carenza di autostima, come direbbe Adam Smith; un diffuso autodisprezzo, come dico io. Spesso, dopo infinite discussioni su questi temi, mi capita di sentire da persone di "destra" e di "sinistra" la terribile battuta: "Ma che diavolo pretendi, in fondo siamo italiani!". E ogni volta mi domando perché ci siamo ridotti in questo stato miserabile, in questo abisso di abiezione che, sotto certi aspetti, è peggiore di quello in cui ci aveva cacciati Mussolini.
Licio Gelli (1919-2015) - Da L'Astrolabio
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Certo, la mancanza di senso dello Stato, che deriva dalla mancanza di uno Stato. Certo, la superficialità della cultura popolare e la grave debolezza della borghesia intellettuale ed economica spiegano il carattere volubile dell’opinione pubblica e la facilità con cui viene sistematicamente ingannata per mezzo del micidiale potere persuasivo del monopolio televisivo. Certo, i guasti della Controriforma senza Riforma. Certo, i sottoprodotti della morale cattolica, che privilegia la misericordia piuttosto che la giustizia. Non tanto perché sia migliore il protestantesimo rispetto al cattolicesimo, ma perché da noi la Chiesa ha avuto il potere temporale, e dunque ha usato la religione come instrumentum regni.
Mi ha sempre colpito il racconto di Nassau Senior, un economista mediocre, famoso più che altro per gli attacchi che gli riservò Karl Marx. A metà dell’Ottocento la sua passione per i viaggi e per la conoscenza dei potenti d’Europa lo portò a Roma, dove conobbe il papa e dipinse un quadro raccapricciante dello Stato pontificio. Senior racconta di un confessore che, a una donna con un figlio di idee liberali, impose di denunciarlo con tutti i particolari in cambio dell’assoluzione. La donna ci pensò qualche giorno, poi denunciò il figlio, che fu arrestato e torturato. Come meravigliarci, allora, se l’Unità d’Italia non s’è mai davvero compiuta, se il bene comune non è mai stato considerato come un obiettivo di tutti, a dispetto del nostro nazionalismo di cartapesta? L’uomo è un animale sociale e aspira ad avere l’orgoglio di appartenere a una comunità: la famiglia, il gruppo, la patria.
Ora, la Patria in Italia è venuta tardi e in condizioni infelici. Ancora un secolo fa l’analfabetismo era gigantesco. Quando all’inizio del Novecento Salvemini si batteva per il suffragio universale, le persone che avevano diritto al voto erano il 6-7% della popolazione. Con una legge di Giolitti salirono al 20%, perché per votare bisognava saper leggere e scrivere e avere un piccolo peculio; il voto, poi, era concesso solo agli uomini. Il pericolo del fascismo lo capirono in pochi, all’inizio. Lo stesso Benedetto Croce fu per anni filofascista e, da senatore, votò a favore di Mussolini, anche dopo il delitto Matteotti. Solo in seguito divenne uno dei padri dell’antifascismo. Anche nell’esigua cultura liberale dell’epoca, quelli che denunciarono il regime fin dall’inizio non furono molti: Piero Gobetti, Giustino Fortunato e pochi altri. Retorica a parte, il cosiddetto impero e poi la seconda guerra mondiale, con tutti quei richiami all’antica Roma, non potevano certo far crescere l’autostima del popolo italiano e quindi l’amor di Patria. E infatti l’ubriacatura passò in fretta, con la campagna di Grecia, che svelò a tutti la nostra assoluta impreparazione. L’ostilità al regime divenne diffusa e fortissima e poi la sconfitta apparve ignominiosa proprio perché gli Italiani si resero conto dell’irresponsabilità del capo, che si autoproclamava infallibile ma che aveva gettato l’Italia in quelle condizioni nella fornace di una guerra terribile. Penso che la morte della Patria - speriamo temporanea - risalga a quella tragedia. Attenzione: anche la mafia è una comunità, con le sue regole, il suo codice, il suo diritto, le sue istituzioni. Per coloro che ne fanno parte, pure se si definiscono "uomini d’onore", è più difficile provare orgoglio. Ma è più facile toccarne con mano i benefici: ricchezze, potenza, protezione
Giangiacomo Feltrinelli (1926-1972)
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La studio da quarant’anni, la mafia: da quando Giangiacomo Feltrinelli, nel 1958, mi propose di organizzare un gruppo di ricercatori - io ero professore a Catania - per condurre un’indagine ad ampio raggio in Sicilia, che alla fine diventò un corposo volume di 1500 pagine. Nel giugno 1965, dopo Catania, fui ascoltato dalla commissione parlamentare Antimafia, presieduta dal senatore Donato Pafundi (la mia deposizione fu poi pubblicata nel 1970 da Laterza in Problemi dello sviluppo economico). Nel 1974, come si ricorda in questo libro, mi dimisi dal comitato tecnicoscientifico del ministero del Bilancio, di cui facevo parte da circa un decennio, quando il titolare di quel dicastero, Giulio Andreotti, nominò sottosegretario Salvo Lima. Siccome Lima compariva più volte nelle relazioni dell’Antimafia ed era stato oggetto di ben quattro richieste di autorizzazione a procedere della magistratura, feci presente la cosa al mio amico Nino Andreatta, perché ne parlasse con Aldo Moro, presidente del Consiglio. Qualche giorno dopo Andreatta tornò da me con la coda fra le gambe: Moro gli aveva confessato la sua impotenza, perché - gli aveva detto - “Lima è troppo forte e troppo pericoloso”. Allora affrontai l’argomento direttamente con Andreotti, dicendogli: “O lei revoca la nomina di Lima, che scredita l’immagine del ministero, o mi dimetto”. Non mi lasciò neppure finire: mi interruppe e mi liquidò dicendo che ne avremmo parlato un’altra volta. A quel punto resi ufficiali le dimissioni. La mia lettera fu pubblicata dal “Corriere della Sera” e da vari altri giornali, e la cosa fece un certo scalpore per alcune settimane. Ci furono anche delle vibrate proteste dei giovani Dc. Poi calò l’oblio. Di quella faccenda si tornò a parlare quando Gian Carlo Caselli e i suoi pm mi chiamarono a testimoniare al processo Andreotti: era chiaro, da quell’episodio, che Andreotti - e non solo lui - sapeva benissimo chi era Lima. Lo sapevo persino io… La cosa che mi colpì fu che il mio gesto fu visto come prova di coraggio non comune. E’ deprimente che, in Italia, un gesto di normale decenza venga visto così. Dà la misura di come ci siamo ridotti. Tutti mi domandavano: ma come ha fatto, dove ha trovato la forza? Io rispondevo: ma quale forza, ma quale coraggio? C’era una persona che non ritenevo perbene, non volevo lavorarci insieme, e me ne andai. Tutto qui. E’ stato facile.
Giulio Andreotti (1919-20013) nel 1948.
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Nella deposizione prima ricordata ho cercato di chiarire i miei punti di vista sulle origini della mafia e sulle sue caratteristiche attuali. Che cosa sia oggi questo libro di Lodato e Travaglio lo spiega benissimo. Mafia vuol dire appalti, licenze edilizie, aree fabbricabili, sistemi di irrigazione, controllo dei mercati ortofrutticoli e sull’acqua, cioè sulla vita dei siciliani, e poi commercio di droga e altri affari sporchi, ma anche “puliti” come il Ponte sullo Stretto e la grande mangiatoia della sanità pubblica. Ma, soprattutto, mafia vuol dire agganci con la politica, con l’economia, con pezzi delle istituzioni che non saprei nemmeno se chiamare “deviate” oppure no (in questo paese i deviati rischiano di essere quelli che la mafia la combattono davvero). Sono queste le sue assicurazioni sulla vita, le ragioni della sopravvivenza di un’organizzazione tutto sommato arcaica in pieno terzo millennio. Il libro spiega anche com’è cambiata l’antimafia, o forse come non è cambiata, essendo sempre stata affidata a pochi “volontari”, isolati e forse anche un po’ matti. Cioè a una élite di poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, intellettuali e politici che hanno maturato, non si sa come, quel senso dello Stato e dell’autostima che non è mai diventato patrimonio di tutti. La cultura delle regole, il senso della legalità, l’amore per la trasparenza sono da sempre minoritari, in Italia. Per una serie infinita di fattori storici, da noi non s’è mai affermata una cultura liberale e democratica di massa: i liberalsocialisti come i liberalconservatori sono sempre stati quattro gatti, guardati con un misto di sospetto e di curiosità dai ceti dominanti. Il che spiega perché l’autoritarismo, come la cultura mafiosa, hanno sempre trovato terreno fertile. E spiega anche perché oggi il regime berlusconiano, terribile sintesi della cultura autoritaria e di quella mafiosa, incontra resistenze così scarse. Hanno ragione gli autori del libro quando, a proposito della mafia, parlano di “cosiddetto Antistato”. Perché troppo spesso i confini fra Stato e Antistato sono confusi, invisibili, vischiosi, come quelli fra legalità e illegalità. Anche la mafia è stata, nel corso dell’ultimo secolo, un instrumentum regni da imbrigliare e utilizzare per scopi di potere.
La sentenza Andreotti, che qui viene finalmente raccontata per quello che dice davvero, dopo anni di bugie infami, è illuminante. La politica combatte Cosa Nostra quando alza troppo la testa, quando pretende di comandare anziché collaborare, poi torna al tavolo della trattativa per stabilire nuovi patti e nuovi equilibri. L’uomo politico che chiede favori alla mafia non può poi agire autonomamente e tanto meno prendere misure contro la mafia, credendosi forte del suo potere politico. Se lo fa, viene punito. Mutando quel che va mutato, questo vale anche per chi entra in rapporti di dare e avere con Berlusconi. E non mancano le tragedie greche. Mattarella aveva due figli che vollero cambiare linee di condotta; uno divenne presidente della Regione siciliana e decise di ostacolare la distribuzione degli appalti alla mafia. Fu assassinato. Chi è visto come ostacolo all’eterna trattativa fra politici e mafiosi - cioè le élites più avanzate della politica, della cultura e della magistratura - viene isolato come un fastidioso ingombro e tolto di mezzo. Col tritolo o con le campagne mediatiche di delegittimazione. Oggi, poi, la politica intesa come mediazione fra Stato legale e Stato illegale ha fatto un altro salto di qualità: il ministro Lunardi, quando dice che “con la mafia bisogna convivere”, pecca di minimalismo.
Fino ad Andreotti, lo Stato conviveva con la mafia. Oggi, con i Berlusconi e i Dell’Utri al potere, dei quali anche questo libro dimostra inoppugnabilmente i legami con la mafia, è peggio di prima, peggio di sempre: dalla convivenza siamo passati all’alleanza. Una vera lotta alla mafia si può fare soltanto con un governo che non abbia rapporti con la mafia. Un governo che non sia come quello di oggi, e come molti di ieri. Certo, quando sarà passato il lungo incubo che ha spazzato via i due o tre anni di successi seguiti allo choc delle stragi del 1992-93, sarà difficile ricominciare. Perché questo lungo incubo, che si chiama Berlusconi e dura ormai da dieci anni anche per le furbizie di un’opposizione debole se non addirittura complice, ha vieppiù abbassato la nostra già scarsa autostima. In una spirale perversa che non sembra avere mai fine, ha creato ulteriore assuefazione. E ha fiaccato le speranze e gli entusiasmi che sarebbero necessari per riprendere la lotta.
Genco Russo (1893-1976)
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L’antimafia è affidata ai “pochi pazzi malinconici” di cui parlava Salvemini. Io mi sento un pazzo triste ma arrabbiato: e forse quel che mi salva è proprio la rabbia. Non è questione di ottimismo o di pessimismo. Occorre ritrovare il realismo che nasce dalla conoscenza della nostra storia, con le sue luci e le sue ombre. Non bisogna mai dimenticare né le une né le altre. Per me, poi, c’è anche una lunga esperienza personale, che, con mia meraviglia, ebbe una conclusione positiva. Ricordo quando mi scontrai con Giacomo Mancini, che nel Psi era una potenza e in Calabria un ras incontrastato. Pretendeva che la nuova università di Cosenza sorgesse in una zona che gli stava a cuore per certi interessi suoi o dei suoi amici. Andreatta e io, in quanto membri del comitato che doveva organizzare la nuova università, contrastammo le sue manovre e riuscimmo a farla nascere in tutt’altro luogo, molto più adatto al suo sviluppo. Mancini pretendeva pure che dovessimo dare un incarico d’insegnamento a un suo protetto.
Giacomo Mancini (1912-2002) - Da L'Astrolabio
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Tutto ciò al prezzo di una denuncia e di un’incriminazione da parte di un giudice legato a Mancini, che mi tenne sotto inchiesta per anni, privandomi addirittura del passaporto (per due lustri fui costretto, ogni volta che andavo all’estero, a recarmi alla Farnesina e chiedere un permesso speciale per l’espatrio). Poi, quando scemò l’influenza di Mancini, ebbero finalmente il coraggio di assolvermi. Con formula non piena, ma pienissima: “il fatto non sussiste”. Erano tutte calunnie. Oggi l’Università della Calabria funziona bene, con ottime attrezzature e 26.000 studenti. Mi hanno anche invitato, come uno dei padri fondatori. E’ una storia a lieto fine: mi è costata molte pene, ma è stato giusto patirle.
L’esperienza è incoraggiante, perché dimostra che chi intraprende una battaglia civile non è condannato al fallimento: se ha tenacia, può vincere. Intendiamoci. Dinanzi al quadro che emerge dal libro, la tentazione sarebbe quella dell’angoscia e della disperazione. La prima è sacrosanta, e anche salutare. La seconda no, guai a disperare: a mente fredda, sarebbe un errore. Scriveva Calamandrei nel suo diario il 23 novembre 1939: “la tragedia dell’Italia è proprio questa generale putrefazione morale, questa indifferenza, questa vigliaccheria”. Ma poi venne la Resistenza: non tutti furono eroi veri, molti furono eroi per caso o per necessità. Ma il nucleo forte trascinò tanti, contribuì a liberarci dal nazifascismo e - con uno di quei miracoli che a volte fanno le minoranze agguerrite - ci regalò la Costituzione, che oggi è presa a colpi di piccone dalla banda Berlusconi. Ecco, lo stesso direi oggi per la lotta alla mafia: in alcune fasi storiche - quella di Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino, e poi quella di Caselli e dei suoi uomini - le minoranze che si sentono Stato e Patria hanno trascinato la maggioranza verso esiti straordinari, oggi in via di smantellamento. Questo libro, perforando il sudario di un’informazione serva e di una disinformazione organizzata, ci aiuta a conoscere tali risultati. E dunque a non dimenticarli, anche se la luminosa stagione che li ha determinati è finita da un pezzo. Quanto sia stata importante lo dimostrano i continui tentativi di deturparne il ricordo: da parte sia di chi ne parla male, sia di sepolcri imbiancati che ne parlano bene. Intanto anche nella magistratura, in sintonia con le esigenze di politici senza scrupoli, si manifestano le viltà, i servilismi, il «tirare a campare», i compromessi meschini.
Felice Riva (1935-2017) - Da L'Astrolabio.
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Ma finirà anche questa stagione buia. L’importante è sapere che contro la mafia e i suoi protettori nelle istituzioni e nei consigli di amministrazione si possono fare grandi cose. Si sono fatte grandi cose. Se la prima e la seconda ondata dell’attacco, come quelle dei fanti in certe battaglie della prima guerra mondiale, sono state decimate e respinte, la terza potrà avere successi più duraturi. Basta aver chiaro fin da subito che anche quella sarà una battaglia di minoranza, e anche per quella bisognerà mettere in conto la solitudine. Intanto, per preparare la battaglia, bisogna conoscere. E’ fondamentale l’informazione. L’attacco va portato con fatti inoppugnabili e documentati. Come quelli raccontati in questo libro, che ci aiuta a capire da chi e come siamo stati e siamo governati, ma anche come si è riusciti a sconfiggere il pool di Caselli, come già quello di Borrelli a Milano. E,soprattutto, perché. Ci sono verità troppo forti perché il Potere le affidi a cuor leggero a magistrati «ingestibili», che intendono applicare semplicemente la legge in maniera uguale per tutti. Quelle verità, quando sono ormai scritte in sentenze definitive – come quella su Andreotti - devono essere per forza cancellate e oscurate, perché non giungano sotto gli occhi dell’opinione pubblica. Per quelle, invece, ancora giudiziariamente da accertare (dalle varie "trattative" fra Stato e mafia al capitolo dei "mandanti occulti" delle stragi), si seguono i canoni della "guerra preventiva": si tolgono di mezzo i magistrati che potrebbero, presto o tardi, scoperchiarle. La mafia, come ogni forma di illegalità, campa e ingrassa sull’ignoranza. E nel nostro regime di oggi l’ignoranza viene diffusa a reti unificate, facendo leva sui nostri due peggiori vizi nazionali, i sottoprodotti della nostra scarsissima autostima che spesso copriamo col patriottismo ipocrita: la cupidigia di servilismo e la cupidigia di abiezione. Chi vuole conoscere, o perlomeno intravedere, le verità indicibili che oggi costituiscono la vera posta in gioco non ha che da leggere questo libro. Più sarà diffusa la conoscenza, più sarà difficile l’insabbiamento.