Qui da noi [a San Marco in Lamis, ndr] l’edilizia non ha avuto e non ha rispetto per l’antico. Il restauro conservativo è un’operazione tecnica obsoleta che non ha ragione d’essere finanche per il centro storico, per le chiese, per le edicole votive. Con facilità si staccano e si portano via i portali barocchi; si chiudono col cemento armato le cripte; s’abbattono i 'mugnali'; si smontano 'puteali'; si sotterrano con materiale idraulico consolidante le sepolture rinvenute per caso nel corso di scavi di fondazioni. Cosicché a San Marco in Lamis solamente poche maltrattate testimonianze ci parlano del passato; tant’altre sono state distrutte, murate, rimosse, portate fuori dall’originale contesto.

L'Astrolabio n. 24-1979
Paolo Sylos Labini
Un riformismo rivoluzionario nella “pienezza del tempo”
Dalle tesi di Amendola alla “eutanasia della classe operaia”; l'abolizione della barriera tra lavoro intellettuale e lavoro manuale come premessa per la trasformazione socialista.
[Intervista] a cura di Giorgio Ricordy
Il dibattito in corso nella sinistra si va concentrando sulla politica sindacale e sul sindacato: una delle critiche più diffuse che sono state mosse all'ntervento di Amendola - che aveva messo il sindacato al centro della discussione - è tuttavia contemporaneamente un problema aperto, un interrogativo privo di risposte nette: a quale scopo, per il raggiungimento di quali obiettivi bisogna esortare i lavoratori a sostenere sacrifici? Lei cosa risponderebbe ad una simile domanda?
R. - Molto sommessamente, io sono in gran parte d'accordo con Amendola. Quanto all'incertezza delle finalità sulle quali occorre muoversi, direi che nella sinistra siamo colpevoli un pò tutti. Nel Partito comunista c'è stato un periodo di forte ambiguità, e anche coloro che - come me - non hanno mai detto di essere rivoluzionari ma semplicemente riformisti, avrebbero potuto incalzare e criticare molto più duramente questa ambiguità. Per un periodo non breve, dalla fine della guerra in poi, il PCI ha giocato su due piani: quello rivoluzionario e quello riformista. Si vergognava di definirsi riformista, lasciava intendere di essere rivoluzionario, ma senza spiegare il “come”, il “quando” e il “perché.
Parliamo pure di questa “ambiguità”, ma teniamo presente che quello che lei ha definito il “piano rivoluzionario” ha caratterizzato il PCI per tutto il periodo della sua crescita: e si è trattato di una crescita non solo numerica, ma anche di prestigio culturale, di influenza nelle scelte, almeno, di tutta la sinistra...
R. - Perciò parlo di “ambiguità”. Vari esponenti comunisti parlavano, o lasciavano che si parlasse di rivoluzione, pur rendendosi conto che in Italia non c'erano le condizioni reali per una rivoluzione. In realtà l'obiettivo rivoluzionario è servito come cemento per alcune classi (come quella intellettuale durante il fascismo), nella convinzione che fosse sufficiente far riferimento alla dicotomia classica del marxismo fra proletariato e borghesia. Sono eccezioni come Ignazio Silone o come i fratelli Rosselli, che già in periodo fascista videro l'importanza, nel bene e nel male (in quel periodo soprattutto nel male!), dei ceti medi. Non aver messo questi ceti nel dovuto risalto ha permesso di mantenere l'illusione rivoluzionaria, e quest'illusione è servita a rafforzare il nucleo comunista che è cresciuto, quindi, proprio grazie a questa persistente “ambiguità” dalla quale, però, era necessario prima o poi uscire. Aver vissuto con questa doppia verità per tanti anni, tuttavia, ha alimentato, specialmente nei giovani, molte aspettative. E i giovani poi rimasero delusi e si sentirono traditi dal Partito comunista.
Tuttavia anche lei riconosce che sulla base di questa prospettiva “rivoluzionaria” - ancorché non fondata su condizioni reali che la rendessero praticabile - si è verificata intorno di Partito comunista l'adesione di strati sempre crescenti di popolazione. È giusta questa osservazione?
R. - In un certo senso è giusta. Si tratta di verificare se quegli strati si sarebbero avvicinati al Partito comunista in misura minore o maggiore se questo avesse chiaramente proposto cambiamenti della società anche profondi, ma sul piano delle riforme e non su quello della rivoluzione.
Per intenderci su questi termini che stiamo usando, le chiedo: è corretto dire che “rivoluzione” è, nel nostro caso, abbattimento del capitalismo, e “riforme” significa “miglioramento del capitalismo”?
R. - Questa è un'altra ambiguità che va rimossa. Il “miglioramento del capitalismo” è proprio di un riformismo conservatore, secondo il quale questo sistema è il migliore possibile, ma occorre correggerne alcuni aspetti. Invece le cose non stanno così. Questo sistema - che pure ha portato con sé risultati di straordinaria importanza nel passato, e basta rileggersi Marx per convincersene - amputa molte possibilità dell'uomo, perciò va cambiato, non semplicemente “migliorato” e siccome credo che i cambiamenti debbano essere totali, si porrebbe parlare di un riformismo “rivoluzionario”. Tuttavia questi cambiamenti devono essere attuati - per usare un'espressione di Schumpeter - “nella pienezza del tempo”, senza aggiungere sofferenze a sofferenze, bensì minimizzando, per quanto possibile, le sofferenze.
L'obiettivo, quindi, resta per lei l'eliminazione, seppure graduale, del sistema capitalistico”
R. - Non c'è dubbio. Ma già il capitalismo attuale è molto diverso dal capitalismo di un secolo fa. Basta pensare al capitalismo agrario, del quale oggi è rimasto ben poco, se non altro come conseguenza dell'abbandono delle campagne. Già questo rappresenta un enorme cambiamento, la cui importanza non viene diminuita dal fatto che la DC, per sostituire il serbatoio di voti su cui poteva contare fra le masse di coltivatori, abbia fatto sempre più ricorso a quelle pratiche clientelari capaci di agganciare i ceti urbani emergenti. Ma i cambiamenti non si fermano a questo, pensiamo alle imprese pubbliche, alle partecipazioni statali; è vero, si tratta ancora di forme di capitalismo, ma è capitalismo di stato, cioè qualcosa di molto diverso ...
Il modo di produzione però è lo stesso...
R. - Intendiamoci, che significa “il modo di produzione è lo stesso”? C'è stata, un tempo, una visione romantica del socialismo secondo cui bisognava abolire la moneta, in Russia hanno anche provato a farlo. Viceversa il problema non è la moneta, ma il suo contenuto. Così per le imprese: sarebbe un grosso errore ipotizzare un sistema di imprese in cui scompaia qualsiasi tipo di sovrappiù; un sovrappiù deve esserci, e se se ne appropria lo Stato - cioè la collettività - vuol dire che ci troviamo in una situazione diversa da quella in cui ad appropiarsene sono i singoli capitalisti. Oggi ci troviamo in una situazione in cui lo Stato è gestito da un partito in misura non piccola corrotto, ma domani questa corruzione potrà essere eliminata e allora si sarà fatto un altro passo avanti, ci sarà stato un altro cambiamento. Ma i cambiamenti avvengono gradualmente, progressivamente, poco per volta.
Non è facile dire quando da un sistema si passa ad un altro, nello stesso modo in cui non è facile dire in quale momento un ragazzo diventa giovane, un giovane adulto, un adulto vecchio... Un momento preciso in cui collocare il passaggio non esiste.
Il paragone è suggestivo, però il ragazzo che diventa adolescente, poi adulto, poi vecchio, resta pur sempre se stesso. Non so se questo mantenimento di identità è possibile in una società impegnata nel trapasso di potere da una classe ad un'altra.
R. - Perché no? I presupposti perché nel giro di venti, trent'anni ci si trovi a vivere in una società molto diversa da quella attuale, già esistono e le trasformazioni già sono in atto. Già adesso la figura dell'operaio è molto diversa da quella tradizionale: supponga, per ipotesi, che gli operai si trasformino veramente tutti in tecnici. Il loro lavoro conserverà, certo, margini di fatica superiori a quello impiegatizio, e perciò, contrariamente a quanto ancor avviene, sarà meglio retribuito. Supponga poi che questo operaio-tecnico possa facilmente diventare impiegato, in un certo momento della sua carriera, e che un impiegato sia disposto a diventare operaio-tecnico (per esempio se vuole guadagnare di più); supponga infine che rappresentanze di operai-tecnici entrino nei consigli di amministrazione delle aziende superando le ragioni di diffidenza - certo legittime ieri, forse legittime oggi, ma non fondate su questioni di principio - che essi stessi nutrono verso simile ipotesi. In una situazione siffatta si può ancora parlare di capitalismo?
Lei propone un quadro nel quale si abbatte la barriera che separa il lavoro manuale da quello intellettuale, ma nel quale la proprietà dei mezzi di produzione resta invariata...
R. Ma oggi è questo quello che conta di più. È il controllo e non la proprietà dei mezzi di produzione che riveste il maggior rilievo (Marx lo aveva già intravisto). Il controllo oggi, con la diffusione delle società per azioni, in gran parte non è più nelle mani della proprietà, ma di regola in quelle dei manager. Ed è proprio l'esistenza di questa barriera fra lavoro intellettuale e lavoro manuale che contribuisce a mantenere la contrapposizione fra i manager, spesso alleati con gli impiegati,e gli operai. Ma una volta assicurata una mobilità orizzontale per la quale non esiste più un'apprezzabile differenza fra operaio, tecnico e impiegato, quella barriera tende a scomparire. A quel punto possiamo tranquillamente ipotizzare consigli di amministrazione indistinguibili dai consigli di fabbrica; in questo modo anche la proprietà può essere indifferentemente delle stesse persone che controllano l'impresa o di altre persone: il risultato sostanzialmente è lo stesso. In un quadro del genere si può parlare ancora di capitalismo? Se per capitalismo intendiamo il regime in cui alcuni privati, attraverso la proprietà dei mezzi di produzione, controllano direttamente i loro dipendenti e indirettamente l'intera società, allora non si può più parlare di capitalismo. Si può parlare di socialismo? A rigore, direi di sì: non c'è divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale e per quanto riguarda il problema di fondo della proprietà dei mezzi di produzione, questa non ha più veramente potere decisionale.
Ad una simile situazione di fatto si può arrivare senza cambiamenti traumatici, sviluppando trasformazioni già in atto; non si tratta di un'utopia astratta, ma di qualcosa di molto verosimile e per di più tutt'altro che privo di tensioni, di contraddizioni, di ogni sorta di pene e di sofferenze.
Lei ha parlato di “trasformazioni in atto” in questa direzione: possiamo fare qualche esempio concreto?
R. - Uno dì questi cambiamenti è proprio quello su cui Amendola concentra alcune delle sue critiche: la crescita dei salari reali che permane anche nell'attuale periodo di crisi. Io guarderei a questo fenomeno in una prospettiva più lunga come avvicinamento fra le retribuzioni degli operai e quelle degli impiegati. Questa marcia è in corso e rappresenta senza dubbio un progresso; ma se viene troppo accelerata può diventare incompatibile con il processo di accumulazione, e allora tutto il sistema si blocca con un'ulteriore divaricazione fra gli stessi salari dell'economia emersa e di quella sommersa. E con il blocco del processo di accumulazione non abbiamo la rivoluzione, abbiamo la palude.
Perciò insisto sull'idea che è necessario procedere nella “pienezza del tempo” verso i due obiettivi principali che sono l'abbattimento della divisione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, e l'altro, definito da un termine molto abusato che è “partecipazione”. Ma non partecipazione della tuta blu messa in un angolo del consiglio di amministrazione per tacitare le sue richieste; parlo di una partecipazione reale, resa possibile proprio dall'eliminazione della divisione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale, e capace, a sua volta, non di dare il potere agli operai, ma di far scomparire gli operai in quanto tali. Come Keynes parlava di “eutanasia del rentier” io mi auguro l' “eutanasia dell'operaio”, la progressiva eliminazione della condizione operaia.
Questo processo di trasformazione, tuttavia, sembra adesso arrivato ad una posizione di stallo. Le critiche mosse da Amendola - con le quali lei si è detto in gran parte d'accordo - individuano alcune responsabilità. Ma lei non crede, comunque, che proprio la crisi attuale riveli che il rapporto di forze presenti nella società sia ancora quello caratteristico del regime capitalista?
R. - Ma proprio per questo concordo con le cose che Amendola dice quando rileva l'errore di dare troppo spazio, nelle rivendicazioni sindacali, a richieste di tipo monetario. Troppo poco i sindacalisti accolgono la domanda politica che cresce dalla base, troppo poco si mobilitano su obiettivi più strettamente politici. È proprio l'abuso di slogan l'interpretazione troppo timida di queste esigenze che apre spazi a sbocchi incontrollabili come certe simpatie per l'autonomia o peggio...
In altre parole, lei pensa che ci sia un persistere di quella “ambiguità” di cui parlava all'inizio, e che in questo consista la crisi che la sinistra sta attraversando?
R. - In un certo senso sì. Perché bisognerebbe dire in maniera molto netta e senza complessi di inferiorità, che non si tratta di dibattere il capitalismo nel breve periodo, perché ne verrebbe un crollo che sarebbe rovinoso per tutti. Ci dobbiamo muovere per trarsformarlo in profondità, ma “in the fullness of time”. Le rivoluzioni qualche volta diventano inevitabili, ma non sempre producono quei cambiamemi che si volevano. In fin dei conti la trasformazione è stata più profonda in Inghilterra dove c'è stato Cromwell ma una vera e propria rivoluzione borghese non c'è stata, che non in Francia, dove la rivoluzione c'è stata ma la vecchia provincia è rimasta più stabile e tradizionale che altrove. Del resto i ritardi che adesso dobbiamo registrare sono in gran parte dovuti a quell'ambiguità “rivoluzionaria”. Fino a qualche anno fa ci voleva coraggio a dire “io sono riformista”; e se qualcuno ti definiva così, era quasi un insulto o una provocazione. Si è visto negli anni del centro sinistra: i comunisti dicevano che era inutile parlare di programmazione, dato che anche un bambino sapeva che con il capitalismo una vera programmazione non si sarebbe mai potuta fare. L'aiuto del comunista in quegli anni, è stato pressoché nullo; il loro contributo critico non era “ad meliorandum”. Questo atteggiamento ha finito col giocare un ruolo di conservazione, e già allora si vedeva che le rivendicazioni salariali - come adesso Amendola giustamente denuncia - avrebbero portato da un lato a perdite e a un indebolimento dello sviluppo, dall'altro a inflazione. Il risultato è stato la caduta del profitto, e siccome ci muoviamo ancora dentro un sistema capitalistico, senza il profitto il sistema si ferma e i guai, in fondo, si riassumono proprio in questo. È il movimento operaio che adesso deve farsi carico di ripristinare la profittabilità della impresa Questa è la proposta che io stesso ho fatto più volte, anche in assemblee sindacali, dapprima suscitando scandalo, poi un pò meno: il profitto deve diventare octroyé, come la costituzione nelle monarchie assolute, elargito dalla classe operaia al sistema delle imprese. È proprio per uscire dalla posizione subordinata in cui - è vero - la classe operaia ancora si trova, che essa deve usare in questa linea la propria forza, che è enorme, più grande di quanto gli stessi interessati forse non comprendano. A questo punto la mia posizione potrebbe sembrare di destra, ma non lo è, perché io non dico che bisogna congelare la forza del sindacato, dico che bisogna usarla con un indirizzo più politico che monetario, E tanto poco conservatrice è la mia diagnosi, che gli industriali hanno sempre preferito cedere alle richieste monetarie e salariali che a quelle destinate a dare agli operai maggior potere.
In questa dinamica che lei ha illustrato direi che ci troviamo di fronte ad una contraddizione o almeno a un problema. La sinistra ha raggiunto una posizione di forza tale che potrebbe, senza traumi, tradursi in quella sovranità che consentirebbe di “octroyer la charte” o, in questo caso, la profittabilità delle imprese. Viceversa l'esercizio politico di questa sovranità seguita ad essere impedito, e tale impedimento determina ad un tempo il permanere in quella “palude” cui lei accennava, l'erosione progressiva delle forze conquistate e il progressivo intensificarsi di quelle spinte estremiste difficilmente controllabili dalle organizzazioni sindacali e politiche. In questa situazione lei sottolmea tuttavia la necessità di “non accelerare” perché altrimenti si corre il rischio di “ingolfare il motore”. Allora?
R. - Ripeto che è proprio questa la ambiguità da cui si deve uscire. Se il sindacato, la classe operaia, la sinistra (è questa la giusta successione dei termini), si fanno carico della responsabilità di “salvare il paese” non per amor di patria, ma prima di tutto per interesse di classe, diventando capaci di “octroyer” la profittabilità, allora contemporaneamente procedono verso la loro sovranità e recuperano quei margini di sopravvivenza che la congiuntura internazionale e fattori più propriamente nazionali hanno messo in pericolo. Il grande rischio sta in quella che io ho provocatoriamente definito - e che ribadisco ancora - “politica del maggiordomo”; la politica, cioè, di chi si preoccupa di migliorare la propria situazione infischiandone della casa perché la casa non è sua. Questa “politica del maggiordomo” determina il permanere della subordinazione da cui invece si potrebbe uscire convincendosi che l'andamento della casa riguarda anche noi. Economia significa “governo della casa”, e chi se ne assume la responsabilità diventa un pò per volta il padron di casa. Questo problema della caduta del profitto - di cui già Marx si occupava - non sembra preoccupare abbastanza la sinistra italiana. In paesi come il nostro (o come l'Inghilterra) dove c'è una forte pressione della concorrenza estera, i maggiori costi non riescono a trasferirsi interamente sui prezzi, così si verifica questo paradosso per cui l'inflazione cresce ma non aiuta affatto le imprese.
I sindacati potrebbero essere ad un punto “di non ritorno”, in cui i meccanismi innescati non sono più riconducibilì a quelle esigenze di “pienezza del tempo”?
R. - Ovviamente io spero proprio di no. Ma non c'è dubbio che ci troviamo di fronte ad una crisi gravissima, e il grido d'allarme di Amendola è più che fondato. Tutte le conquiste raggiunte finora sono messe in discussione. Se riusciamo a rimetterci su una via di sviluppo economico e civile si potrà procedere verso quegli obbiettivi che ho descritto, non credo utopisticamente. Se non ci riusciamo, allora perdiamo tutto.
Quando coesistono crisi della sinistra e crisi del capitalismo, si apre la via al fascismo?
R. - Noi abbiamo già avuto Mussolini, che con il suo formidabile, straordinario fallimento economico, politico, morale, militare, ci ha in un certo senso vaccinati. Dobbiamo essergli grati per questo: se non avesse fornito quell'esempio di catastrofe, sicuramente i tentativi che in questi ultimi anni abbiamo avuto per ripristinare una qualche forma di fascismo, sarebbero stati molto più temibili. Ma non dobbiamo fidarci troppo: anche i vaccini hanno una loro scadenza, e noi abbiamo già passato tre decenni e mezzo...
L'Astrolabio n. 9-1978
Uno studio del Formez
Il Sud fra errori effettivi e recuperi difficili
di Giorgio Ricordy
Gli anni successivi, quelli del centro-sinistra e della Programmazione Economica, furono dedicati al tentativo di realizzare questo obiettivo con ingenti mobilitazioni di capitali, massicci interventi dell'industria di stato e varando la politica degli incentivi necessaria a indurre grandi imprese del nord a costruire impianti nel Mezzogiorno nonostante le difficoltà che le nuove localizzazioni avrebbero presentato.
In un recente seminario organizzato dal Formez (il centro studi e formazione professionale collegato alla Cassa del Mezzogiorno) su “la struttura industriale del mezzogiorno”, il mancato raggiungimento di quegli obiettivi è stato dettagliatamente analizzato da numerosi studiosi di tutta Italia, ma principalmente provenienti da Università del Sud, utilizzando ricerche condotte in diverse località sedi di grandi insediamenti industriali. Base del confronto fra i diversi economisti, è stata un'ampia ricerca condotta dal Formez su 8 insediamenti del Mezzogiorno (Taranto, Gela, Pisticci, Porto Torres, Pomigliano d'Arco, Cassino, Lecce e L'Aquila) dalla quale scaturisce l'immagine di una profonda disgregazione a livello produttivo, demografico, occupazional. I tre ricercatori che hanno condotto lo studio (Carlo Buttari, Rosa Maria Gervasio e Gianfranco D'Ottavio) scrivono nelle loro conclusioni:
“Il quadro che emerge conferma la realtà di un Mezzogiorno che nel suo complesso perde significativamente terreno rispetto al resto del Paese presentando una crescita dell'occupazione ad un tasso inferiore alla stessa media nazionale” e ancora: “lo stato di degradazione economica e sociale del Mezzogiorno sembra riferirsi al particolare processo di espansione della base produttiva, che non solo non si è rivelato capace di superare le disuguaglianze tra il Mezzogiorno e il resto del Paese, ma ha prodotto al suo interno forti differenziazioni anche in quelle aree ove in misura maggiore è stato indirizzato il flusso degli invescìmenti”.
Due tesi contrapposte
D'altra parte, se tutti concordano nella constatazione dei dati di fatto, non tutti seguono gli stessi orientamenti nell'individuarne le cause o gli aspetti di maggior rilievo. Augusto Graziani - economista e meridionalista tra i più agguerriti nel criticare la recente ritorma della legge per il Mezzogiorno - ha coordinato il seminario e, concludendo, ha individuato due tendenze nettamente distinte: una, che lui ha definito “sviluppista” secondo cui non la logica degli interventi per il Sud sarebbe da mettere in stato di accusa, ma la carenza di risorse che si sono sapute mobilitare. Mancanza di imprenditorialità locale, ad esempio, ma anche mancanza di strutture finanziarie, di infrastrutture e, soprattutto, inadeguatezza dell'apparato pubblico nel massimizzare gli effetti positivi del grande insediamento utilizzandoli a beneficio della collettività. La seconda tendenza che Graziani indica, definendola “funzionalista”, attribuisce invece al mancato sviluppo del Mezzogiorno una sua ragion d'essere nel processo di sviluppo capitalistico: l'imprenditoria locale esiste, ma si orienta verso iniziative speculative (edilizia, particolari attività commerciali); la struttura finanziaria c'è, ma sostiene la speculazione e non le iniziative produttive; la pubblica amministrazione, infine, è inefficiente perché si vuole che lo sia, perché risponde a logiche clientelari non diverse da quelle invalse in tutto il Paese e sostenute da una classe politica che su tale clientelismo e su tale inefficienza ha fondato il suo sistema di potere.
Senza entrare nel merito della distinzione tra “sviluppisti” e “funzionalisti”, si può comunque trarre utile insegnamento dall'esame dei fatti che dalla ricerca Formez emergono e che gli altri studi confermano ampiamente.
Prima di tutto la genesi di questi grandi insediamenti: “in ogni occasione - è scritto nella relazione del Formez - sono stati presentati dalle forze politiche nazionali e dai gruppi economici e finanziari interessati, come fatto risolutore del problema occupativo e dello sviluppo socio-economico locale”. Non concepiti all'interno di un ampio programma di interventi integrati sul territorio, dunque, ma come misure-tampone, slegate e occasionali.
Impreparazione delle classi dominanti
Torna alla mente l'immagine formulata da Guido Carli in cui l'impresa industriale rimane soffocata dai “lacci e lacciuoli” della politica e delle clientele, e il presidente del Formez Sergio Zoppi sottolinea:
“Nessuna democrazia industriale può vivere senza un apparato pubblico, centrale e periferico, efficiente!”.
Un generale ritorno all'agricoltura?
Non manca, tuttavia, chi, come Paolo Baratta, ha affermato che la scomparsa di
Anche la ricerca del Formez, pur raccomandando di non subordinare lo sviluppo dell'agricoltura alle esigenze dell'industrializzazione, mette in guardia dal rischio che,
“partendo dal rigetto del modello di industrializzazione, si enfatizzi la strategigità del settore agricolo e si giunga a teorizzare il generale ritorno all'agricoltura come risolutore dei problemi economici e sociali dell'area, senza definire verso quale tipo di agricoltura, di quali dimensioni, con che ordinamento cui mirare, e con quali modelli organizzativi e gestionali ci si debba indirizzare”.
Spazzare il terreno dagli antichi equivoci
Lo studio del Formez, che pure non sembra trarre dalla massa di osservazioni raccolte, analisi di carattere politico, senza dubbio ha il merito di spazzare il terreno da una gran massa di equivoci antichi: i programmatori degli anni '60, infatti, avevano elaborato teorie che facevano riferimento ad una situazione sociale e politica profondamente diversa da quella reale; oggi, sui connotati di quella realtà non è più lecito nutrire dubbi o costruirsi alibi.
Pur non avendo creato l'atteso sviluppo, l'arrivo della grande industria nelle regioni del Sud ha certamente determinato la nascita e lo sviluppo di grossi nuclei di classe operaia; questi nuclei, negli anni trascorsi e oggi, confrontandosi con la crisi di tutto il Paese, hanno acquisito livelli di responsabilizzazione e di consapevolezza da cui sarà possibile attendersi il contributo nuovo e determinante per quella trasformazione del Mezzogiorno che non dovrà misurarsi in termini di reddito e di produttività soltanto, ma anche sul metro della pianificazione organica del territorio, della partecipazione alle scelte, della qualità della vita.
L'Unità dell'8.12.2005
Addio a Sylos Labini, economista in rivolta
di Bruno Gravagnuolo
“Ero bravo, sa ? - ci disse una volta - ma avevo battiti cardiaci troppo forti, e quelli con battiti più lenti da fermo mi fregavano”.
Chissà, ora che il cuore di Sylos non batte più, in questa piccola confessione autobiografica si può scoprire tutta la personalità di un eminente studioso che era anche un merviglioso e geniale attaccabrighe. Sì, il professor Paolo Sylos Labini non avrà la soddisfazione di vederla, la sconfitta del Cavaliere e del “regime” contro cui combatteva con l'energia di un corridore ventenne. Non risparmiando fendenti a nessuno. Nemmeno a quelli che combattevano dalla sua stessa parte, quando aveva la sensazione di aggiustamenti o timidezze nella battaglia d'opposizione al governo. Eppure Sylos resterà parte integrante della riscossa del centrosinistra in cammino. Alla quale, con tutta la sua autorità di economista spigoloso, aveva dato il “la” tra i primi. Addirittura da prima della sconfitta del 2001. Quando bandì, con altre eminenti figure tra cui Norberto Bobbio, un proclama sui rischi della democrazia connessi alla vittoria di Berlusconi.
Appello il cui contenuto rivendicava ad ogni piè sospinto. Appoggiandosi ai dati dell'Osservatorio di Pavia. A Ricolti e Mannheimer. Con l'argomento che l'accento messo sul pericolo di “regime” aveva poi fruttato un milione di voti in più al centrosinistra pur sconfitto. Togliendone altrettanti all'avversario.
Fatale dunque che l'attivismo di Sylos si incontrasse con la parabola dell'Unità rediviva, del nostro giornale. Per il quale tra l'altro scrisse pagine e pagine non di invettive. Bensì di riflessioni teoriche. Che replicavano in piccolo tanti suoi capolavori.
Da Economie capitalistiche ed economie pianificate al Saggio sulle classi sociali, fino a la Crisi italiana e altri ancora.
Pagine su Marx, sul vero riformismo, sulla democrazia, sul liberalismo. Una vera e propria enciclopedia militante, ispirata da un lato alle sue idee di fondo. E dall'altro alla lotta per il programma. Per il rilancio produttivo di un'Italia minacciata dallo spettro “Argentina”: stasi, monopoli, corporativismo, sprechi, default. E patrimonialismo di uno stato ridotto ad azienda privata.
Ma raccontato così Paolo Sylos Labini rischia di apparire soltanto un “girotondino”. E Dio sa quanto i girotondi lui li amasse e quanto, li vedesse come espressione di un “ceto medio vasto preparato e attento”. Non mancando di aggiungere allegramente: “Sono ottimi e i tre quarti sono donne, intelligentissime e anche belle".
Semmai però il Professore era una specie di Bertrand Russell dei movimenti. Giustamente.
Perché non solo era imprevedibile e divertente. Ma aveva ruvido carisma e autorità. Già, un Accademico dei Lincei con animo libertario e “indignato”. Ed era uno spettacolo quando montava sulle furie senza fronzoli. Contro i mali perenni e presenti dell'Italia. Dal fascismo, al Concordato, all' “inciucio”, a Berlusconi, alle banche...
Un Salvemini redivivo e persuasivo insomma, incavolato e didascalico. Con accento romanesco inconfondibile. Bene, lui se lo poteva permettere, ne aveva i titoli e la storia. Perciò lo stavano a sentire, dovevano sentirlo, anche quelli che “venivano da lontano”. Perciò lo stavano a sentire, anche quando certe tirate contro Marx e Machiavelli, realisti e “violenti”, ci parevano un po' astratte e moralistiche (ma non aveva tutti i torti). Perché? Intanto perché era un grandissimo studioso. Il vero decano dell'economia italiana e insieme il padre di un'intera generazione di economisti. Un uomo serio, sempre con dati forti e argomenti alla mano. Con profonda attitudine etica fin dall'inizio, intrisa di illuminismo e “problemismo”. Che aveva in odio le fumisterie e gli slogan, luoghi comuni di destra o di sinistra.
Un'attitudine la sua maturata già in Italia, quando si laurea nel 1 942, in Economia. Ad appena 22 anni e con mille dubbi sul fascismo nel quale era cresciuto e del quale il padre lo esortava a dubitare. Poi risolutivo fu l'incontro con Gateano Salvemini negli Usa, al tempo della specializzazione ad Harvard e Cambridge nel 1948, che lascerà un'impronta indelebile nella formazione di Sylos. È all'ombra del grande esule pugliese e storico del meridione che Labini matura una concezione dell'economia mai sganciata dalla storia e dalla cultura. Per capire l'economia - sostenne sempre - “cultura e storia sono ben più importanti dell'economia”. E in Italia a suo avviso, l'onda lunga della civiltà urbana a un certo punto s'era fermata.
Era mancata la società civile diffusa, qualcosa di analogo all'Inghilterra e alla Scozia di Adam Smith, o all'America dei Puritani.
Tutte cose che il Professore diceva molto prima del celebre studio di Robert Putnam degli anni 90 sulla civiltà urbana assente nell'Italia del sud.
E molto prima di Banfield, il teorico del “familismo amorale”, fenomeno che aveva condannato il nostro paese all'asfissia di microeconomie locali senza riproduzione allargata del capitale e senza classi dirigenti.
Adam Smith? “Non facciamone un santone liberista - ripeteva - la sua era una lezione di sobrietà risparmiatrice. Di innovazione e onesta trasparenza. Di simpatia morale e umana che faceva della benevolenza, e non dell'imbroglio mercantile, l'occasione per un “utile economico allargato”.
Proprio qui il punto teorico di Sylos: l'aumento di produttività su scala globale. L'innovazione, il coinvolgimento dei soggetti produttivi in virtù di un'etica condivisa. E sopratutto l'allargamento del mercato dei beni e dei servizi.
Tramite alti salari capaci di stimolare la diminuzione del “costo del lavoro per unità di prodotto”, grazie alla tecnologia. E qui anche il nucleo fecondo di Sylos, non solo teorico ma programmatico. Di un'impostazione che a ben guardare è oggi quella del centrosinistra: spostare risorse dalla rendita e dal consumo improduttivo al lavoro. Per potenziare la produttività, alzare i salari e incrementare i consumi.
In un quadro di tendenziale aumento dell'occupazione, non precaria ma di buona qualità e stabile. Produttivismo e redistribuzione quindi. Ma a condizione di rompere la gabbia endemica, politica e culturale, dei mali italiani. Di cui per Sylos Labini Berlusconi era l'acme. Il vero precipitato storico e autobiografico di una nazione. Nel senso dell'antieconomia, dell'antipolitica, della degenerazione del costume civico e del trasformismo. Rompere la prigione del berlusconismo, il regime mediatico ed economico. Per far spazio alla nuova economia e alla nuova identità civica degli italiani. Erano questi i chiodi fissi di Sylos. E per tutta la vita cercò di piantarli nel futuro. Con i libri, i “movimenti”, le lezioni e le sfuriate. Ma a vedere qualche frutto, il corridore tignoso non non ce l’ha fatta per un pelo. Peccato.
L'Astrolabio n. 2-1975
Dibattito sul saggio di Sylos Labini
Stratificazione sociale e omogeneità di classe
di Carlo Vallauri *
L'analisi condotta sulla base della ripartizione per grandi aggregati (borghesia, classi medie, classe operaia), con una serie di distinzioni interne (proprietari, imprenditori e dirigenti; piccola borghesia degli impiegati privati, pubblici e degli insegnanti; piccola borghesia relativamente autonoma: coltivatori diretti, fittavoli, artigiani, commercianti; categorie particolari, operai addetti rispettivamente all'agricoltura, all'industria, all'edilizia, al commercio, ai trasporti e ai servizi, nonché domestici) parte dal 1881 e, attraverso i censimenti del 1901, del 1921, del 1936, del 1951, del 1961 e del 1971, registra le modifiche intervenute nelle tre grandi zone del paese (nord, centro, sud), fornendo utili confronti internazionali (con i paesi industrialmente avanzati, anche se a differenti regimi di proprietà, e con paesi sottosviluppati) e riporta più dettagliati esami per quanto concerne i dati italiani del 1971.
L'autore compie la ricerca tenendo conto dei modi di afflusso dei redditi (rendite, profitti, redditi misti, stipendi, salari) e uficializza - con opportune ed attente rielaborazioni - le categorie risultanti dai censimenti. L'osservazione da alcune parti avanzata, secondo cui l'analisi è impostata sulla distribuzione del reddito anziché sulla distribuzione relativa alla sussistenza o meno nei singoli della proprietà privata dei mezzi di produzione, è già superata nell'esposizione di Sylos Labini, quando premette che “in una società come quella italiana la distribuzione del reddito oggi dipende, congiuntamente, dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, dal controllo politico ed amministrativo del processo di accumulazione e dai diversi gradi di istruzione e di qualificazione di coloro che lavorano”.
Sia per queste che per altre variazioni possiamo osservare come i mutamenti intervenuti tra periodo fascista e primo periodo post-fascista non siano di grande entità mentre più significativi appaiono i mutamenti negli anni sessanta: conferma questa della tesi di una continuità di strutture sociali tra gli anni quaranta e cinquanta, non interrotta dalle terribili esperienze della guerra e dell'occupazione straniera, e invece di un avvio a modifiche di fondo negli anni sessanta per effetto dei processi di industrializzazione e delle conseguenti migrazioni interne, non solo di territorio, ma di attività.
Gli effetti di un evento non si producono immediatamente, e come le nuove dislocazioni degli apparati produttivi determinano conseguenze a distanza di tempo, così la socializzazione scolare in atto nel nostro paese non ha sinora apportato modifiche apprezzabili (anche se, come rileva l'A., il semianalfabetismo è sceso dal 90 al 70%). Poiché non è stata (né nel periodo centrista né durante il centro-sinistra) programmata la utilizzazione dell'impiego degli studi la facilità d'accesso ai diplomi ed alle lauree ha prodotto soltanto una preoccupante disoccupazione intellettuale (di cui l'esplosione di Reggio Calabria è il sintomo più noto).
Gli spostamenti all'interno delle “classi” - usiamo questo termine nell'accezione che ne fa Sylos Labini - rivelano una serie di modifiche che, alterando la stratificazione sociale del paese, determinano una diversa distribuzione dell'incidenza delle rispettive componenti.
L'ingresso della donna nel processo produttivo dei settori secondario e terziario - e che ha contribuito a modifiche nel sistema familiare e nel costume - non traspare in tutta evidenza per il contemporaneo esodo della donna dal lavoro nel settore primario. Ecco però già qui emergere come sia indispensabile una “lettura” dei dati che tenga conto delle diversità intervenute nei rapporti tra lavoratore (o lavoratrice) e strumento di produzione, giacché il passaggio da un settore all'altro provoca un “salto” qualitativo che le quantità numeriche non sono in grado di indicare, un salto che ha conseguenze rilevanti sul piano economico, sociale e psicologico.
Elemento di massimo rilievo è poi il trasferimento dei salariati in genere dall'agricoltura ad attività extra-agricole: qui non solo si ha un mutamento di settore, ma una diversa posizione sociale con il passaggio dall'ambiente rurale ad un contesto urbano o sub-urbano.
All'isolamento del bracciante - che trovava nelle leghe lo sbocco politico anche se continuava a subire le influenze tradizionali nelle abitudini di vita e nei valori - si sostituisce l'aggregazione nella metropoli, in una sorta di oscuro destino che fa sentire con maggiore vigore l'urgenza di quelle infrastrutture civili che mancano. Ma - osserviamo - se al lento rincorrersi delle stagioni succede il ritmo ossessivo delle fabbriche (i guai della pendolarità, della lunghezza del tragitto tra casa e luogo di lavoro, dell'insufficienza delle abitazioni e delle attrezzature igieniche non rappresentano una novità per troppi lavoratori), comincia anche a nascere il senso della partecipazione ad un comune “status”, la classe in senso oggettivo si fa classe anche in senso soggettivo.
Ha scritto G. Amendola (“Critica marxista” 1973, n. 4) che negli anni sessanta la classe operaia in Italia ha aumentato la sua forza contrattuale, e non il suo peso politico. Il problema di come accrescere il peso politica appartiene alla tematica di fondo dei partiti e dei movimenti della sinistra, storica o no.
A questo punto s'inserisce il discorso sulle altre componenti della classe lavoratrice. Sylos Labini si è soffermato a lungo sui caratteri delle classi medie, di cui ha sottolineato la già accennata prevalenza dell'elemento impiegatizio e commerciale, ma anche l'aspetto parassitario di una sua parte cospicua. A questo proposito se sono in qualche modo collegati con l'attività produttrice, con i costi e i prezzi, gli stipendi degli impiegati che operano in imprese o aziende pubbliche o private che producono merci nel mercato aperto, non esiste - ci domandiamo - qualche forma di collegamento tra l'attività degli impiegati che operano in un (catastrofico ma reale pur nella sua negatività) sistema “assistenziale”, in uno Stato interventista (anche se in forme distorte a vantaggio di pochi) nell'economia e l'organizzazione produttiva? Cioè l'attività di questi impiegati è di per sé improduttiva o non è improduttiva per il modo in cui è esercitata? E questo “modo” dipende da una volontà negativa, dalla pigrizia, dalla superficialità, dalla corruttibilità dei “colletti bianchi” o non dalla volontà positiva delle forze dominanti di mantenere inalterate le strutture amministrative, fatiscenti, con una arcaica legge sulla contabilità di stato (sulla quale proprio Sylos Labini ha posto giustamente l'accento) incapace a far “procedere” le spese decise dal Parlamento e stanziate in bilancio?
Proprio Sylos Labini, in un dibattito al congresso internazionale di sociologia a Roma (1969), rispondendo a Sweezy, ebbe a rilevare, sulla scorta di Adamo Smith, che come la superiorità del sistema borghese su quello aristocratico-feudale risultava dalla sua maggiore capacità razionalizzatrice (investimenti e non consumi) così spetta ai nuovi sistemi economici dimostrare oggi la loro superiore razionalità (nella possibilità di distribuire i beni a tutti i popoli anziché di favorire gli “sprechi”).
Ebbene: la “grande borghesia” tutto ha fatto nel nostro paese fuorché cercare di razionalizzare il sistema burocratico, e non ha interesse a farlo perché così come esso è oggi, questo sistema serve egregiamente (i modi di attuazione della politica degli incentivi ne sono la dimostrazione); i contrasti interni tra i diversi settori della grande borghesia possono portare alla penalizzazione di un settore (es. elettrico) ma ai fini di un più sicuro dominio degli altri settori (il recente libro di Scalfari e Turani suggerisce al riguardo utili acquisizioni).
Viene così a determinarsi una corsa a godere i vantaggi acquisiti, che rende impossibile il concretarsi di quel blocco tra occupati e disoccupati, tra interessi offesi del Sud e interessi distorti del Nord, che Salvemini, maestro comune, ha insegnato a considerare, sin dall'inizio del secolo, come alleanza alternativa da contrapporre alla rete degli interessi protetti.
Proprio Amendola, nello scritto sopra ricordato, lamentava la non avvenuta saldatura tra operai e contadini, tra occupati (privilegiati) e sottoccupati. Ma perché da questa alleanza “storica” (non “compromesso”, che è un'altra cosa) debbono essere esclusi i ceti medi?
Sylos Labini afferma che “caduta la previsione del Manifesto circa la progressiva scomparsa della classe media, non è più sostenibile la tesi del bipolarismo classista, sia pure solo tendenziale”.
E la stessa contestazione - verso la quale Sylos Labini non risparmia critiche, che sono giuste se rivolte agli esempi degenerativi indicati ma che sono parziali se ritengono di esaurire la complessità del fenomeno - che cosa è stata se non la consapevolezza dei figli dei borghesi, dei ceti medi che la condizione di “privilegio” dei padri è “antieconomica”, cioè “irrazionale” ancor prima che ingiusta?
Dalla diversità della stratificazione sociale Sylos trae una proposta di riforme basata sulla capacità della classe operaia produttiva di intervenire nel “tiro alla fune” per dare uno strappo capace di allentare la presa dei gruppi più retrivi della borghesia; e perché questo strappo sia consistente si sollecita l'alleanza con i gruppi più robusti e relativamente più omogenei della piccola borghesia.
L
Se costituisce errore di valutazione confondere in uno schematismo astratto le diverse componenti della borghesia, non è però neppure possibile separare la grande borghesia “finanziaria” e “mediatrice” dalla borghesia “industriale”, perché questa a quella è legata, nel nostro sistema. da un rapporto di funzionalità.
Non vorremmo allora che il fronte operaio dovesse limitarsi - in una visione illuministica - a contenere un “corretto” sviluppo dell'economia industriale “libera”, per ridurre alla ragione - alla ragione del “potere”, s'intende - il “sistema”.
L'emergere delle nuove classi medie non va interpretato, a nostro avviso, come l'affiorare di una “terza” classe, anche se la molteplicità degli “ibridi” di classe potrebbe far pensare all'utilità di una simile distinzione.
Se la distinzione serve per rendersi conto delle eterogeneità dei caratteri di tutte le componenti della classe senza potere, senza possibilità cioè di intervento nell'uso degli investimenti, nel controllo delle risorse, siamo d'accordo. Se invece della individuazione del fenomeno si volesse dedurre una differenziazione sociale interna di classe, riteniamo che al contrario viene in evidenza la esistenza di una classe generale del proletariato impotente rispetto al potere economico, distorta nei suoi comportamenti per effetto dell'uso fatto dalla classe dominante degli strumenti del potere politico (istituzioni, scuola, mass media).
Fenomeni aberranti di spinte corporative e consumistiche all'interno di questa classe vanno denunciati e combattuti proprio perché essi contribuiscono al mantenimento di una apparente eterogeneità: quindi le tendenze che portano verso le parificazioni salariali costituiscono la controspinta che può ridare alla omogeneità obiettiva di fondo quella omogeneità soggettiva, senza la quale il legame di classe minaccia di snaturarsi in sviamenti integrazionistici. E le degenerazioni particolanstiche non possono essere confuse, pur nella denuncia rigorosa dei privilegi feudali con la tendenza di fondo ai fini di una analisi globale.
Carlo Vallauri
Fonte: https://www.syloslabini.info/online/prefazione-al-librio-gli-intoccabili-di-m-travaglio-e-s-lodato/
Mafia e Stato, dalla convivenza all’alleanza
di Paolo Sylos Labini
E’ l’informazione particolareggiata dei fatti che dà coraggio. Solo la verità può rendere liberi quanti oggi non vogliono essere servi, ma finiscono per esserlo inconsapevolmente, col torpore rassegnato che li paralizza. Una condizione che io spiego non solo col nostro machiavellico cinismo, ma anche con qualcosa di ancora peggiore: una grave carenza di autostima, come direbbe Adam Smith; un diffuso autodisprezzo, come dico io. Spesso, dopo infinite discussioni su questi temi, mi capita di sentire da persone di "destra" e di "sinistra" la terribile battuta: "Ma che diavolo pretendi, in fondo siamo italiani!". E ogni volta mi domando perché ci siamo ridotti in questo stato miserabile, in questo abisso di abiezione che, sotto certi aspetti, è peggiore di quello in cui ci aveva cacciati Mussolini.
Mi ha sempre colpito il racconto di Nassau Senior, un economista mediocre, famoso più che altro per gli attacchi che gli riservò Karl Marx. A metà dell’Ottocento la sua passione per i viaggi e per la conoscenza dei potenti d’Europa lo portò a Roma, dove conobbe il papa e dipinse un quadro raccapricciante dello Stato pontificio. Senior racconta di un confessore che, a una donna con un figlio di idee liberali, impose di denunciarlo con tutti i particolari in cambio dell’assoluzione. La donna ci pensò qualche giorno, poi denunciò il figlio, che fu arrestato e torturato. Come meravigliarci, allora, se l’Unità d’Italia non s’è mai davvero compiuta, se il bene comune non è mai stato considerato come un obiettivo di tutti, a dispetto del nostro nazionalismo di cartapesta? L’uomo è un animale sociale e aspira ad avere l’orgoglio di appartenere a una comunità: la famiglia, il gruppo, la patria.
Ora, la Patria in Italia è venuta tardi e in condizioni infelici. Ancora un secolo fa l’analfabetismo era gigantesco. Quando all’inizio del Novecento Salvemini si batteva per il suffragio universale, le persone che avevano diritto al voto erano il 6-7% della popolazione. Con una legge di Giolitti salirono al 20%, perché per votare bisognava saper leggere e scrivere e avere un piccolo peculio; il voto, poi, era concesso solo agli uomini. Il pericolo del fascismo lo capirono in pochi, all’inizio. Lo stesso Benedetto Croce fu per anni filofascista e, da senatore, votò a favore di Mussolini, anche dopo il delitto Matteotti. Solo in seguito divenne uno dei padri dell’antifascismo. Anche nell’esigua cultura liberale dell’epoca, quelli che denunciarono il regime fin dall’inizio non furono molti: Piero Gobetti, Giustino Fortunato e pochi altri. Retorica a parte, il cosiddetto impero e poi la seconda guerra mondiale, con tutti quei richiami all’antica Roma, non potevano certo far crescere l’autostima del popolo italiano e quindi l’amor di Patria. E infatti l’ubriacatura passò in fretta, con la campagna di Grecia, che svelò a tutti la nostra assoluta impreparazione. L’ostilità al regime divenne diffusa e fortissima e poi la sconfitta apparve ignominiosa proprio perché gli Italiani si resero conto dell’irresponsabilità del capo, che si autoproclamava infallibile ma che aveva gettato l’Italia in quelle condizioni nella fornace di una guerra terribile. Penso che la morte della Patria - speriamo temporanea - risalga a quella tragedia. Attenzione: anche la mafia è una comunità, con le sue regole, il suo codice, il suo diritto, le sue istituzioni. Per coloro che ne fanno parte, pure se si definiscono "uomini d’onore", è più difficile provare orgoglio. Ma è più facile toccarne con mano i benefici: ricchezze, potenza, protezione
La sentenza Andreotti, che qui viene finalmente raccontata per quello che dice davvero, dopo anni di bugie infami, è illuminante. La politica combatte Cosa Nostra quando alza troppo la testa, quando pretende di comandare anziché collaborare, poi torna al tavolo della trattativa per stabilire nuovi patti e nuovi equilibri. L’uomo politico che chiede favori alla mafia non può poi agire autonomamente e tanto meno prendere misure contro la mafia, credendosi forte del suo potere politico. Se lo fa, viene punito. Mutando quel che va mutato, questo vale anche per chi entra in rapporti di dare e avere con Berlusconi. E non mancano le tragedie greche. Mattarella aveva due figli che vollero cambiare linee di condotta; uno divenne presidente della Regione siciliana e decise di ostacolare la distribuzione degli appalti alla mafia. Fu assassinato. Chi è visto come ostacolo all’eterna trattativa fra politici e mafiosi - cioè le élites più avanzate della politica, della cultura e della magistratura - viene isolato come un fastidioso ingombro e tolto di mezzo. Col tritolo o con le campagne mediatiche di delegittimazione. Oggi, poi, la politica intesa come mediazione fra Stato legale e Stato illegale ha fatto un altro salto di qualità: il ministro Lunardi, quando dice che “con la mafia bisogna convivere”, pecca di minimalismo.
Fino ad Andreotti, lo Stato conviveva con la mafia. Oggi, con i Berlusconi e i Dell’Utri al potere, dei quali anche questo libro dimostra inoppugnabilmente i legami con la mafia, è peggio di prima, peggio di sempre: dalla convivenza siamo passati all’alleanza. Una vera lotta alla mafia si può fare soltanto con un governo che non abbia rapporti con la mafia. Un governo che non sia come quello di oggi, e come molti di ieri. Certo, quando sarà passato il lungo incubo che ha spazzato via i due o tre anni di successi seguiti allo choc delle stragi del 1992-93, sarà difficile ricominciare. Perché questo lungo incubo, che si chiama Berlusconi e dura ormai da dieci anni anche per le furbizie di un’opposizione debole se non addirittura complice, ha vieppiù abbassato la nostra già scarsa autostima. In una spirale perversa che non sembra avere mai fine, ha creato ulteriore assuefazione. E ha fiaccato le speranze e gli entusiasmi che sarebbero necessari per riprendere la lotta.
L’esperienza è incoraggiante, perché dimostra che chi intraprende una battaglia civile non è condannato al fallimento: se ha tenacia, può vincere. Intendiamoci. Dinanzi al quadro che emerge dal libro, la tentazione sarebbe quella dell’angoscia e della disperazione. La prima è sacrosanta, e anche salutare. La seconda no, guai a disperare: a mente fredda, sarebbe un errore. Scriveva Calamandrei nel suo diario il 23 novembre 1939: “la tragedia dell’Italia è proprio questa generale putrefazione morale, questa indifferenza, questa vigliaccheria”. Ma poi venne la Resistenza: non tutti furono eroi veri, molti furono eroi per caso o per necessità. Ma il nucleo forte trascinò tanti, contribuì a liberarci dal nazifascismo e - con uno di quei miracoli che a volte fanno le minoranze agguerrite - ci regalò la Costituzione, che oggi è presa a colpi di piccone dalla banda Berlusconi. Ecco, lo stesso direi oggi per la lotta alla mafia: in alcune fasi storiche - quella di Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino, e poi quella di Caselli e dei suoi uomini - le minoranze che si sentono Stato e Patria hanno trascinato la maggioranza verso esiti straordinari, oggi in via di smantellamento. Questo libro, perforando il sudario di un’informazione serva e di una disinformazione organizzata, ci aiuta a conoscere tali risultati. E dunque a non dimenticarli, anche se la luminosa stagione che li ha determinati è finita da un pezzo. Quanto sia stata importante lo dimostrano i continui tentativi di deturparne il ricordo: da parte sia di chi ne parla male, sia di sepolcri imbiancati che ne parlano bene. Intanto anche nella magistratura, in sintonia con le esigenze di politici senza scrupoli, si manifestano le viltà, i servilismi, il «tirare a campare», i compromessi meschini.