Qui da noi [a San Marco in Lamis, ndr] l’edilizia non ha avuto e non ha rispetto per l’antico. Il restauro conservativo è un’operazione tecnica obsoleta che non ha ragione d’essere finanche per il centro storico, per le chiese, per le edicole votive. Con facilità si staccano e si portano via i portali barocchi; si chiudono col cemento armato le cripte; s’abbattono i 'mugnali'; si smontano 'puteali'; si sotterrano con materiale idraulico consolidante le sepolture rinvenute per caso nel corso di scavi di fondazioni. Cosicché a San Marco in Lamis solamente poche maltrattate testimonianze ci parlano del passato; tant’altre sono state distrutte, murate, rimosse, portate fuori dall’originale contesto.

Da Frontiere, Anno II, n. 3, Giugno 2001
La casa nella valigia
Filippo Pirro
In Via Scalone gli echi dolorosi delle partenze per l'Amèreca luntana, l'Australia, sono ancora vivi sotto qualche frammento di intonaco non ancora violentato dal graffiato.
Erano gli anni cinquanta, ed io fanciullo sempre più con difficoltà andavo rintracciando, per disegnarli a carbonella sui muri calcinati, gli ultimi asinelli superstiti, ancora parcheggiati sotto i mugnali nelle strade, mentre i postini recapitavano atti di richiamo. Ricordo che ogni finestra, uscio o balconcino della strada partecipava dolorosamente allo strappo dalle radici. Si piangeva e ci si abbracciava fino a notte, sapendo di non più rivedersi, prima che il camion all'alba strappasse le poche masserizie per il viaggio verso Napoli.
Erano quelli i momenti in cui vedevo più lucidi gli occhi di mio nonno che, prendendomi sul suo unico ginocchio, mi mostrava, dopo averle tirate fuori dal baule polveroso, le vecchie cartoline della sua gioventù. Ripuliva pure le lenti di quel magico paio di occhiali, lo stereoscopio, portato da Filadelfia, inforcandolo sul mio nasino. Che meraviglia! la statua della Libertà era tutta per me, vera in tre dimensioni, col Rex spumeggiante sull'Hudson. La gioia infantile non poteva accorgersi dei sospiri dolorosi del vecchio che ricantava, in falsetto con l'antico mandolino, la struggente melodia di Partene 'e bastemente.
Quelle stereoscopiche cartoline di New York, gelosamente custodite da mio nonno, furono il mio primo vero incontro col problema dell'emigrazione. Ma, per gli occhi incantati di un fanciullo, l'America era l'eldorado, non il dramma; sempre erano risate divertite e a cascatella la conclusione della storiella dell'emigrante ingenuo, convinto che l'America fosse la terra dei ciucci cacasoldi.
Fu la fine degli anni sessanta a rompermi l'incanto, a farmi sperimentare sulla mia pelle che l'emigrazione non era una vuota e retorica ricerca scolastica, un astratto paragrafo della questione meridionale, ma autentica tragedia.
La valigia e le rotaie entrarono prepotenti nel vissuto quotidiano di studente lavoratore, insieme alle notti spesso in piedi sui treni in partenza per Torino. Come fragili bolle di sapone vidi infrangersi i miei valori di solidarietà patriottica tra le genti italiche, non appena mi sentii apostrofato Napoli' o 'terrone, straniero nella mia Italia, o cominciai a leggere le prime scritte come isì as parl seul en piemonteis, oppure qui non si fitta ai meridionali. Tornavano nel ricordo le cartoline del nonno, ma non più mielate e caleidoscopiche, e il mandolino non più nostalgico di Santa Lucia, non plettro a tinnire giulivo, ma chiodo a scavare e crocifiggere.
E la situazione di studente-lavoratore-torinese doveva ancora più acuirsi con l'esperienza, anche se breve, di Student-arbeiter metalmeccanico a Freiburg in Germania: la terra amata da Tacito mi rivelò tutte le difficoltà di una lingua dove a suonare era lo ja e non il sì, e i disagi nel non avere un cuscino per dormire la notte. In compenso mi regalò la gioia di ritrovare il concetto di patria, di risentirmi italiano, quando per caso sentivo ordinare un piatto di spaghetti in un Gasthaus.
La valigia da fare e disfare, la valigia per cuscino, la valigia pregna come un grembo. Ecco la genesi e l'illuminazione della mia ripetuta analogia tra la casa e la valigia, il paese le radici e la valigia, e lo strappo violento dalla propria terra, lo sradicamento.
A Torino nella artigianale e creativa bottega-stamperia del caro Gigi Fioccardi, un personaggio da favola zavattiniana, all'ombra proprio della Mole, mi nacque la prima incisione dell'emigrante.
Era la prima esperienza con l'acquaforte e mi sentivo forse un po' più alchimista che artista. L'incisione sulla lastrina di zinco cerata, e poi le varie morsure nell'acido nitrico. L inchiostro e poi la prima prova d'Artista, la prima tiratura su carta rosa spina, fabriano, ancora oggi realizzata su ricetta medievale. Come una chiocciola con la sua conchiglia, cosi venne fuori, strizzata sotto il torchio a stella, la figura dell'emigrante con la sua casa-valigia: questa l'immagine, che per me sintetizzava tutto il dramma dell emigrazione.
Me la trovai pubblicata sul Giornale delle valli, un giornale del nord, con un giudizio che per me valeva più di una critica di Argan: immagine che parla e scarnifica più di mille discorsi.
Ripresi poi più volte quella mia prima intuizione sia sulla tela, rivestendola di colori e arricchendola di oggetti simbolici, come la chitarra e la bottiglia di vino, a esplicitare ancor più l'angoscia del futuro ignoto e la nostalgia del passato amato.
Mi convinsi allora che occorreva ricordare alle nuove generazioni di che lacrime grondi e di che sangue il sacrificio di tutti i nostri emigrati, e fu così che si rafforzò il desiderio di dedicare un monumento agli emigranti sammarchesi, ai tanti ignoti che avevano avuto il coraggio di affrontare l'ignoto e che avevano reso possibile, con le loro rimesse, la vita nel piccolo borgo.
Quando si dice il caso, ricevetti di lì a qualche anno, una lettera da Toronto, dal cappellano della comunità dei sammarchesi del Canada, don Pasquale Martino, in cui mi si diceva di mettermi al lavoro per preparare un bozzetto per un monumento ai sammarchesi sparsi per il mondo. Si costituì un comitato, con J. Tusiani presidente onorario, pro erigendo monumento ai sammarchesi emigrati, e fu presentata domanda all'amministrazione comunale perché ne accordasse il placet e la concessione del luogo ove installare detto monumento.
Alla primitiva intuizione dell'uomo con la sua casa-valigia si è voluto dare ancor più dinamicità e coralità, con la tensione drammatica del saluto del gruppo familiare e la citazione del centro storico di San Marco in Lamis.Il desiderio di tutti ora è uno soltanto: quello di vedere realizzato il gruppo monumentale, e festeggiarlo con una gloriosa rimpatriata...
Ma occorreranno sforzi sinergici al di qua e al di là dell'oceano. Ci riusciremo a far splendere nel sole di una nostra piazza la casa-valigia dei ricordi più cari dei nostri concittadini partiti?
'Noi e loro'? Come sono cambiate le migrazioni
Di Mimmo Perrotta
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 49 de 'Gli asini'.
Il dibattito politico e mediatico sulle migrazioni, centrato anche in periodo elettorale sull’attualità e sull’emergenza, dimentica spesso che l’immigrazione interessa l’Italia ormai da quarant’anni. Rispetto a soli quindici anni fa, il panorama delle migrazioni in Italia è cambiato sotto moltissimi aspetti. È quindi necessario provare a leggere questi processi con maggiore profondità storica. Dopo aver rapidamente ricordato quali erano le caratteristiche delle migrazioni e del dibattito pubblico nella prima metà degli anni duemila, partirò da alcuni dati per descrivere cinque grandi mutamenti avvenuti in questi quindici anni e proporrò tre considerazioni.
Tra la metà degli anni novanta e la metà degli anni duemila, il ritmo di crescita del numero di immigrati in Italia era molto sostenuto. Molti di loro entravano in Italia irregolarmente o con un visto turistico di tre mesi; trascorrevano mesi o anni in Italia senza un permesso di soggiorno, per poi “regolarizzarsi” attraverso una delle sanatorie che periodicamente i governi italiani emanavano. La più grande fu quella connessa alla legge Bossi-Fini (2002), che consentì a quasi 700 mila persone di ottenere un permesso per motivi di lavoro. Tra il 31 dicembre 2003 e il 31dicembre 2007 (prima cioè della crisi economica), il numero di stranieri regolarmente residenti in Italia è passato da meno di due milioni a quasi tre milioni e mezzo: un tasso di crescita doppio rispetto a quello dei dieci anni successivi. In quegli anni, il dibattito pubblico era ossessionato dalla distinzione tra 'migranti regolari' e 'clandestini'. La parte xenofoba della società italiana demonizzava i 'clandestini' e li considerava come criminali indesiderati, senza tenere in considerazione il fatto che una quota altissima di stranieri era costretta a trascorrere in Italia un periodo più o meno lungo senza permesso di soggiorno a causa della mancanza di efficienti canali di ingresso regolari per la ricerca di lavoro (un tema su cui tornerò dopo); 'clandestini' e 'regolari', quindi, non erano individui differenti, ma persone in fasi differenti della propria esperienza migratoria. Le organizzazioni e i movimenti di solidarietà con i migranti puntavano l’attenzione sulla 'clandestinizzazione', protestavano contro i Centri di permanenza temporanea e i rimpatri e facevano notare come lo stretto legame istituito dalla legge italiana tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro obbligasse i cittadini stranieri ad accettare condizioni di lavoro peggiori di quelle degli italiani, creando una fascia di individui vulnerabili sul mercato del lavoro. Molti lettori di 'Gli asini' ricorderanno bene quel periodo. A partire dalla metà degli anni duemila, questo quadro è completamente cambiato, a causa di alcuni processi sociali, economici e geopolitici.
L’allargamento a Est dell’Unione Europea
Il primo gennaio 2007, centinaia di migliaia di cittadini rumeni e bulgari, precedentemente 'extracomunitari', si ritrovarono a essere cittadini dell’Ue; quanti tra loro erano 'clandestini', nei mesi successivi poterono regolarizzare la propria posizione. I rumeni sono da molti anni la nazionalità di stranieri maggiormente presente in Italia, più di un milione di persone, un quinto del totale. La loro mobilità in Europa è pressoché libera e non regolata da visti e permessi di soggiorno.
La crisi economica
A partire dal 2008, molti dei settori economici che maggiormente avevano attratto migranti nei vent’anni precedenti, come l’edilizia e le piccole e medie imprese manifatturiere del centro-nord, hanno subito gli effetti della crisi. Negli anni successivi, sono diminuiti gli ingressi di stranieri in Italia (nel 2010 i nuovi permessi di soggiorno erano quasi 600mila; da allora sono in costante diminuzione, dal 2012 sono meno di 300mila; nel 2016 sono stati 226.934) ed è scesa la percentuale di persone che entrano in Italia per motivi di lavoro (dal 60% del 2010 al 5,7% del 2016; all’opposto, i nuovi permessi per motivi umanitari sono cresciuti dall’1,7% del 2010 al 34,3% del 2016; la quota maggiore è comunque quella dei nuovi permessi per ricongiungimento familiare, che da cinque anni sono tra il 40 e il 45% del totale). Inoltre, la crisi e la disoccupazione hanno rappresentato la principale ragione addotta dai governi per la diminuzione progressiva dei migranti reclutati attraverso gli annuali decreti flussi, unico canale “legale” d’ingresso in Italia per motivi di lavoro: tra il 2004 e il 2008 i decreti flussi si ripromettevano di reclutare tra i 115mila e i 230mila lavoratori all’anno, con un picco di 550mila nel 2006; dal 2012 al 2018 sono passati prima a circa 50 mila e poi costantemente attorno ai 30mila all’anno.
La 'profughizzazione' delle migrazioni
Dal 2011, a causa delle 'primavere arabe', dei conflitti e delle dittature nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in alcuni paesi dell’Africa Subsahariana, è aumentato enormemente il numero di persone che hanno attraversato il Sahara e il Mediterraneo per arrivare in Europa, a rischio della propria morte. Circa 600 mila persone sono sbarcate sulle coste italiane tra il gennaio 2014 e il luglio 2017, prima che l’accordo tra Minniti e le fazioni libiche non mettesse (temporaneamente) un freno a questi movimenti, per lasciare centinaia di migliaia di migranti a soffrire e morire in Libia. Questa è storia recente e nota a chi legge questa rivista. È interessante notare che: 1) il dibattito centrato sul dualismo clandestini/regolari è stato sostituito da quello tra migranti forzati (considerati 'davvero' meritevoli di protezione e asilo) e migranti economici (che quindi vanno rimpatriati); 2) le politiche basate su sanatorie e decreti flussi sono state sostituite dalla accoglienza generalizzata ai richiedenti asilo; 3) quello che non è cambiato è la mancanza di canali legali di ingresso per cercare lavoro in Italia e in Europa. La crescita delle domande di protezione internazionale, dunque, è causata non solo da conflitti e dittature, ma anche dal fatto che questo è per molti l’unico modo per entrare nel territorio europeo con un permesso di soggiorno. È la chiusura delle frontiere europee a rendere molti migranti dei 'profughi', costringendoli a un terribile viaggio e a subire maltrattamenti e torture in Libia (molti tra coloro che sbarcano in Italia non avrebbero alcun bisogno di 'accoglienza' da parte dello Stato e se la caverebbero meglio se fossero lasciati liberi di andare dove e da chi vogliono, a patto che venisse loro assegnato un permesso di soggiorno valido in tutta Europa, magari per ricerca di lavoro; questo peraltro libererebbe le risorse necessarie per accogliere bene quelli che ne hanno davvero necessità). Se negli anni novanta e duemila la maggior parte dei migranti entrava in Italia (dal confine orientale, per lo più) con un visto turistico o in maniera del tutto informale, oggi si entra (dal mare, per lo più) con una domanda di asilo. Poi richiedenti asilo e rifugiati cercano un impiego, di solito in nero e ad alto tasso di sfruttamento, come accadeva quindici anni fa ai 'clandestini'. Peraltro, gli alti tassi di dinieghi da parte delle commissioni territoriali fanno prevedere che nei prossimi anni aumenterà nuovamente il numero di persone prive di permesso di soggiorno sul territorio italiano. Dalla clandestinizzazione alla profughizzazione, di nuovo alla clandestinizzazione.
Le acquisizioni di cittadinanza.
Nel frattempo, senza troppo clamore, la presenza di milioni di persone straniere sul territorio italiano si è stabilizzata, anche dal punto di vista giuridico. Se gli stranieri residenti in Italia sono più di cinque milioni (l’8,3% della popolazione) e se gli occupati stranieri sono poco meno di due milioni e mezzo, aumenta di anno in anno il numero di quanti non sono più stranieri: hanno ottenuto la cittadinanza italiana 154.686 persone nel 2014; 178.035 nel 2015; 201.591 nel 2016. Si stima che in totale siano più di un milione e trecentomila: un milione e trecentomila persone di nazionalità italiana e di origine straniera. La maggior parte dei migranti presenti oggi in Italia è arrivata tra il 1990 e il 2010: pian piano tutti arriveranno alla fatidica soglia dei dieci anni di presenza regolare continua necessari per accedere alla cittadinanza italiana. Nonostante la difficoltà delle procedure, esistono oggi moltissimi italiani neri, italiani musulmani, ortodossi o sikh, e ce ne saranno sempre più nei prossimi anni. Non solo: due milioni e mezzo tra coloro che sono ancora stranieri sono titolari di un permesso di durata illimitata, ovvero non devono più chiederne il rinnovo, perché residenti regolarmente da più di cinque anni (sono 'solo' un milione e mezzo i titolari di permessi di soggiorno soggetti a scadenza e solo mezzo milione quelli tra loro che soggiornano per lavoro subordinato). Persone, quindi, non più obbligate ad accettare condizioni di lavoro penalizzanti solo per il rischio di perdere il permesso di soggiorno; e, per questo, forse, più inclini a mobilitarsi per migliorarle, soprattutto nel Nord. Ci sono poi gli 800 mila figli di migranti che frequentano le scuole italiane. Se ce ne fosse bisogno, questi dati ci mostrano quanto sia stata cieca la scelta di non approvare la legge sullo ius soli: anche nelle condizioni attuali, estremamente vessatorie, l’acquisizione della cittadinanza italiana è solo una questione di tempo. Presto avremo due, tre milioni di italiani di origine straniera. Che non avranno molti motivi di simpatia per lo Stato italiano. Non è un caso se decine di migliaia di persone, una volta ottenuta la cittadinanza italiana, la usino non per 'integrarsi' in Italia, ma per spostarsi in altri paesi, grazie al fatto che il passaporto italiano consente una mobilità più libera rispetto a quello - per esempio - indiano, pakistano o albanese. Questo ci porta al quinto importante processo.
La nuova emigrazione italiana.
Non si era forse mai interrotta, ma è prepotentemente aumentata negli anni della crisi economica. Come i pochi studi disponibili stanno accertando, non si tratta solo della 'fuga dei cervelli', dei ricercatori presenti in tutte le università europee o degli ingegneri che lavorano per le multinazionali in mezzo mondo (secondo il rapporto statistico Idos, tra il 2002 e il 2015 hanno lasciato l’Italia 202 mila diplomati e 145mila laureati). Molti dei 'nuovi emigrati' non sono diversissimi da quelli del passato e si muovono per cercare impieghi di tipo operaio, nell’edilizia o nella ristorazione. Nel 2015 gli emigrati sono stati circa 175mila. Si parte dal Nord e dal Sud; quest’ultimo ne è sicuramente più impoverito, essendo anche origine di una consistente mobilità interna verso le regioni del Nord. Secondo alcuni, il numero di emigrati è superiore a quello degli ingressi: l’Italia ridiventa così, dopo soli quarant’anni, un paese di emigrazione più che di immigrazione.
Ragionando su questi cinque grandi processi, propongo tre considerazioni.
'Noi e loro'.
Non ha più senso - se mai ce l’ha avuto - usare in maniera rigida la distinzione tra 'noi' (italiani) e 'loro' (immigrati). Una distinzione onnipresente nei media, nella politica e purtroppo anche nel linguaggio e nel senso comune. Non ha senso non più solo perché queste categorie sono complesse e sfaccettate al loro interno (gli immigrati sono di tantissime nazionalità, a esempio; alcuni sono qui da quarant’anni, altri sono appena arrivati), ma soprattutto perché una quota crescente di immigrati diventa italiana e una quota crescente di italiani diventa migrante. Tuttavia, è prevedibile che questa dicotomia non sparirà e che sotto questo aspetto l’Italia somiglierà alla Francia, dove molti figli e nipoti di migranti, anche se cittadini francesi, subiscono la stessa segregazione e discriminazione dei loro genitori anni fa. A meno che la generazione nella quale per la prima volta figli di italiani e di migranti hanno convissuto quotidianamente nei banchi di scuola non si dimostri più saggia delle precedenti.
L’Italia sta diventando un paese sempre più marginale
Nonostante molti immigrati arrivati prima della crisi si siano stabilizzati (come mostrano i dati sui permessi di soggiorno di lunga durata, le acquisizioni di cittadinanza, i ricongiungimenti familiari), l’Italia sta diventando un paese marginale nei sistemi migratori internazionali. Si tratta di una considerazione contro-intuitiva, visto che il dibattito pubblico si concentra su come fermare quanti cercano di entrare in Italia. Tuttavia, i dati dei nuovi permessi (soprattutto per lavoro) sono in diminuzione almeno dal 2010, mentre aumentano quelli degli emigrati dall’Italia. Inoltre, è una constatazione di senso comune che molti dei migranti che sbarcano dopo il terribile viaggio nel Sahara e nel Mediterraneo, se avessero potuto prendere un aereo e scegliere liberamente dove andare, probabilmente non avrebbero scelto l’Italia. E, se non vi fossero costretti dal Regolamento di Dublino, lascerebbero l’Italia appena possono, come molti fanno anche a costo di diventare irregolari in altri paesi europei. Nel 2014 l’Istat rilevava che l’82% dei cittadini non comunitari regolarizzati con la Bossi-Fini era ancora residente in Italia dieci anni dopo; a testimonianza di un mutamento, tre anni dopo l’Istat ha notato che, tra i migranti giunti nel 2012, solo la metà era ancora presente in Italia nel 2017.
La mancanza di politiche migratorie
I governi degli ultimi anni hanno rinunciato a mettere in atto politiche di gestione dell’immigrazione. Il testo unico sull’immigrazione risale al 1998, la Bossi-Fini al 2002. Erano criticabili allora e le abbiamo combattute; sono ancora più dannose oggi, in un contesto completamente diverso.
Da attivista, penso spesso che la totale apertura delle frontiere (non solo di quelle italiane, ovviamente) sarebbe la politica più sensata: le persone potrebbero spostarsi liberamente, prendendo un aereo (spendendo molto meno denaro di quello che oggi danno ai passeur e risparmiandosi molte sofferenze); l’industria della migrazione illegale sparirebbe; le persone senza permesso di soggiorno potrebbero tornare nel paese d’origine; forse molte dittature cadrebbero con più facilità e meno spargimento di sangue. Nei pochi casi in cui le frontiere si sono aperte non c’è stata la temuta 'invasione': penso all’allargamento a Est dell’Ue, che non ha portato tutti i rumeni e i bulgari in Europa occidentale, ma li ha semplicemente resi più liberi di andare e venire. In ogni caso, la chiusura ermetica delle frontiere è un’idea certo più irrealizzabile della libera circolazione degli individui.
Ma anche se ragionassi da uomo di governo, mi renderei conto che non c’è oggi alcun ragionamento di ampio respiro sulle dinamiche demografiche interne e internazionali o sulle prospettive economiche, nessun tentativo di regolare le migrazioni negli interessi dello Stato italiano, qualunque cosa questo significhi. A meno che non vogliamo considerare politiche migratorie il blocco dei migranti in Libia e questa accoglienza senza senso (la 'grande messa in scena', come è stata definita un anno fa su 'gli asini').
Quelle che vengono spacciate per politiche migratorie non hanno in realtà l’obiettivo di regolare gli spostamenti dei migranti, come sarebbe ad esempio se si cercasse di reclutare nei paesi d’origine quei lavoratori che si reputano necessari per l’economia italiana. Queste politiche coprono invece probabilmente obiettivi di politica estera, come quello di intervenire in paesi e aree del mondo nelle quali il governo ritiene di avere interessi. Mandando militari, stringendo accordi o concedendo aiuti economici con l’argomento di 'bloccare i migranti' (o, addirittura, di 'favorire lo sviluppo' per convincere i potenziali migranti a rimanere a casa loro), in Libia, in Niger o altrove, si perseguono obiettivi geopolitici o si sostengono attori economici italiani, spesso grandi imprese, in concorrenza con altri Stati europei, Stati Uniti o Cina. Certamente senza fare gli interessi dei luoghi dove si opera; e certamente sulla pelle dei migranti, che diventano vittime di queste politiche. Sul mercato del lavoro italiano, queste politiche hanno invece l’effetto di creare una nuova stratificazione e nuove vulnerabilità. Se i 'vecchi” immigrati hanno ormai aumentato la quota di diritti a cui hanno accesso in Italia (i comunitari grazie allo status di cittadini Ue; altri grazie all’ottenimento della cittadinanza italiana), i 'nuovi' immigrati - richiedenti asilo, titolari di protezione o ex-richiedenti asilo diventati 'clandestini' - li hanno sostituiti come lavoratori deboli, utili a molti settori economici per abbassare il costo del lavoro. Inoltre, banalmente, quelle che vengono chiamate politiche migratorie servono a ingraziarsi la crescente parte razzista e xenofoba dell’opinione pubblica italiana e degli elettori.
Forse, quando davvero 'ripartirà la crescita', la necessità di nuovi lavoratori spingerà i governi a cercare seriamente di reclutarne all’estero; più probabilmente, però, i meccanismi di reclutamento saranno ancora una volta penalizzanti per i nuovi migranti. Ecco: quello che non è cambiato negli ultimi vent’anni è che le politiche migratorie hanno avuto l’effetto di causare grandi sofferenze, e talvolta la morte, delle persone che decidono di spostarsi da un paese povero a un paese ricco.
Limes 3-2167 del 2000
di Olga Mattera
L’antisemitismo nell’Ungheria di Orbán
Gli 80 mila ebrei che vivono in Ungheria costituiscono la comunità ebraica più consistente dell’Europa centrorientale, al di fuori della Russia. La maggior parte di essi vive a Budapest. L’organizzazione di riferimento è la Federazione ungherese per la comunità ebraica, attraverso la quale la popolazione ebraica organizza la maggior parte delle attività socio-culturali-politiche.
Il popolo ungherese, tra l’altro abituato (rassegnato…) alla multietnicità, non è fondamentalmente antisemita. Il regno austro-ungarico, in generale, era illuminato rispetto agli ebrei, contrariamente a quanto accadeva nelle terre slave. La comunità ebraica di Budapest era fiorente a fine Ottocento, e per quanto priva di alcuni diritti civili e politici, rappresentava un modello di fruttuoso intreccio tra popolazioni autoctone ed ebrei.
I problemi più seri iniziano al sorgere del Novecento. Il termine 'liberale' è fondamentale per comprendere l’atteggiamento attuale della politica del paese nei confronti della comunità ebraica. Per la destra ungherese è sempre stato sinonimo di 'ebreo, cosmopolita, antinazionale'. Il motivo di questa 'lettura' affonda, appunto, nei primi anni del Novecento, o meglio nel periodo precedente la prima guerra mondiale. Nel paese si fronteggiavano due grandi partiti, quello legittimista e quello indipendentista, che divergevano su tutti i punti tranne uno: la comune ostilità alle etnie non magiare. Nacquero allora vari movimenti, composti in gran parte da ebrei, che ponevano il problema su basi diverse: aspiravano al suffragio universale, ad uno Stato multietnico, alla convivenza tra i popoli accomunati, spesso, dalla medesima lingua e dal medesimo percorso storico. Dopo la guerra, disastrosa per l’Ungheria, molti di costoro entrarono a far parte dei governi di Károlyi e Béla Kun; come sempre nei periodi storici di grande frustrazione, la gente cerca 'colpevoli'; e come sempre, in questa parte dell’Europa, i colpevoli furono gli ebrei-liberali: a loro furono erroneamente addossate le amputazioni territoriali che l’Ungheria subì in seguito al Trattato del Trianon. Durante il corso del secolo, partecipi in parte delle alte sfere di potere comunista, in parte del governo socialista postcomunista, gli ebrei sono stati oggetto dei generici pregiudizi di un popolo che non sempre andava per il sottile.
Nel periodo postcomunista la situazione degli ebrei peggiora. Un sondaggio condotto dal Centro per lo studio dell’antisemitismo Vidal Sassoon indica che, dalla fine del comunismo, l’antisemitismo in Ungheria, o per lo meno la sua aperta espressione, si è aggravato. Il punto è che nei primi anni Novanta, nella furia di cancellare il passato senza distinzioni, riemerge lo slogan 'ebrei-comunisti': l’antisemitismo guadagna terreno mentre il paese affronta la pesante crisi economica.
In effetti, la storia moderna degli ebrei in Ungheria è particolare. La comunità ebraica dell’Ungheria alleata della Germania è stata liquidata (473 mila persone mai ritornate dai campi di sterminio). La lapide che ringrazia l’Armata Rossa liberatrice, posta all’esterno della recinzione che circonda la grande sinagoga di Budapest e mai tolta, la dice lunga sul sentimento di sincero sollievo provato dai sopravvissuti all’ingresso dei sovietici. Questo ha segnato, in parte, il futuro: la popolazione non ha mai smesso di vedere un’oscura alleanza tra l’oppressione comunista e la comunità ebraica. Ecco perché, nell’immediata fase postcomunista, il paese ha percepito un risveglio dell’antisemitismo.
Inoltre, il governo Horn, che ha condotto il paese attraverso la difficilissima fase della ristrutturazione postcomunista, e che contava nelle sue file alcuni ministri di origine ebraica, è stato usato come capro espiatorio per le difficoltà economiche.
Nella coalizione di governo, infatti, aveva il suo peso il partito Szdsz (Alleanza dei democratici liberi), cioè la compagine politica di riferimento della borghesia ebraica budapestina.
La destra estrema, xenofoba, quella di Csurka, ha fatto leva proprio su questo diffuso malcontento derivante dalla disillusione dei primi anni di libertà. Nella polemica di Csurka emerge dunque un intreccio, abile, tra i sentimenti antisemiti derivanti dagli anni Venti ('è colpa degli ebrei, antinazionali, che hanno venduto il paese agli stranieri, se l’Ungheria è stata amputata territorialmente'), quelli ripresi dai decenni comunisti ('i comunisti sono ebrei, ci opprimono e decidono le sorti del paese') e il malumore dell’immediato periodo postcomunista ('la sofferenza economica è dovuta al fatto che gli ebrei sono al governo').
Nel 1998, le elezioni hanno portato alla sconfitta della coalizione tra l’Alleanza dei democratici liberi e il Partito socialista ungherese (Mszp), e alla conseguente vittoria del centro-destra, una coalizione tra l’Alleanza dei giovani democratici ungheresi (Fidesz) e il Partito dei piccoli proprietari terrieri.
Il Partito ungherese per la verità e la vita, guidato da István Csurka, con 14 seggi (su 386), diventa il primo partito di estrema destra, apertamente antisemita, ad entrare in parlamento dopo la fine della seconda guerra mondiale. Con esso entra in parlamento anche l’agghiacciante retorica antisemita e xenofoba che ha modificato il carattere della politica nell’Ungheria postcomunista. Nell’imminenza delle elezioni, Csurka aveva intensificato la virulenza dei suoi attacchi antisemiti.
Gli slogan di riferimento erano quelli che avevano contraddistinto la dialettica politica ungherese nei periodi di maggiore antisemitismo prima della II guerra mondiale, ossia l’accusa agli ebrei di essere estranei alla società ungherese. Riciclando i più obsoleti slogan che hanno segnato la difficile convivenza tra popoli dell’Europa centrale e comunità ebraiche, la destra estrema ungherese ha cercato di costruire intorno alla propria comunità ebraica un muro di ostilità diffusa. Il sottobosco in cui i vari Csurka hanno trovato appiglio è composto dalla classe medio-bassa ungherese, quella cioè che ha sofferto più duramente il peso e le disillusioni della transizione. Le difficoltà economiche sono state attribuite ai 'non-ungheresi che governano il paese', al 'ritorno dei comunisti al potere', alle 'forze estranee che governano la stampa', alla 'minoranza etnica di cui non sappiamo liberarci e che dirige il partito dell’Alleanza dei liberi democratici': tutto questo significa ebrei.
Dopo la vittoria delle destre, in una delle prime sedute parlamentari, Csurka ha ritenuto opportuno 'ammonire' la sua coalizione contro 'l’appetito pericoloso dell’élite liberale che continuerà, anzi, addirittura intensificherà il suo ruolo distruttivo all’interno della nazione ungherese.
Da allora le manifestazioni antisemite si moltiplicano, mentre il governo fa finta di non sapere.
Si va dalle manifestazioni più blande, come l’antisemitismo negli stadi, alla dissacrazione di cimiteri ebraici e alla persecuzione verbale dei rabbini. Un esempio, quasi folkloristico e non lontano dagli slogan dei nostri stadi, è l’antisemitismo 'sportivo': spesso, in occasione di partite di calcio in cui gioca la squadra budapestina dell’Mtk (Magyar testgyakorlók köre - Circolo ginnico ungherese), i tifosi della parte avversa intonano slogan fortemente antisemiti; uno tra tutti: 'Parte per Auschwitz, il treno parte per Auschwitz'; oppure 'Erger, Berger, Schossberger, minden zsidó gazember (riferendosi a tre giocatori, per assonanza li si chiama tutti 'farabutti ebrei'). Il Circolo ginnico ungherese, infatti, fondato alla fine dell’Ottocento da borghesi benestanti di Budapest, è considerato il punto di riferimento della comunità ebraica cittadina che compatta tifa Mtk.
Casi più gravi di dissacrazione, quali quelli dei cimiteri ebraici, hanno iniziato a sconvolgere le comunità ebraiche di Budapest, ma soprattutto dei piccoli paesi, fin dall’estate scorsa. Il più eclatante è avvenuto a Szombathely; l’avvenimento ha scosso l’opinione pubblica e ha innescato un dibattito interno. Il governo ha dimostrato la sua cecità; il deputato Antal Rogán, Vice presidente del gruppo parlamentare della Fidesz, ha dichiarato che 'non c’è stata nella vita pubblica ungherese alcuna dichiarazione che anche indirettamente abbia potuto incitare chiunque a simili delitti'. È difficile credere a questo quando Budapest, a distanza di pochi mesi, ha ospitato due grandi manifestazioni antisemite a livello internazionale, un’amara sorpresa per la comunità ebraica della città. La prima era un raduno crocefrecciato, svoltosi il 15 marzo scorso a Blaha Lujza Tér e sviluppato sull’asse 'gli ebrei qui sono stranieri; questa non è casa loro'. L’incontro, organizzato per commemorare l’anniversario dell’esecuzione (nel 1946) di Ferenc Szálasi, fondatore del movimento crocefrecciato ungherese, ha poi pubblicato e distribuito una lista di 'ebrei e massoni ungheresi colpevoli di aver distrutto lo spirito nazionale nella storia'. A febbraio del resto, nel castello di Buda era stato organizzato un incontro internazionale neonazista - di rigore l’uniforme nera. Nessuno aveva ritenuto opportuno impedirlo. Il governo non ha detto nulla.
Il ministro per i Servizi segreti del governo Orbán, Kövér, in occasione dell’anniversario del cambiamento di regime (giugno ’99) ha notato che: 'L’errore di Csurka e dei suoi è di rendere impresentabili alcune questioni di cui bisogna occuparsi, tra cui la questione ebraica e il Trianon'; in altre parole, ebrei e amputazioni territoriali sono i due problemi del paese; se ne dovrebbe parlare apertamente per risolverli su un piano concreto, e non su quello delle dichiarazioni retoriche di Csurka. La dichiarazione risulta ancora più inquietante sia per l’autorevolezza sia per la concretezza, il realismo, la freddezza del ministro.
Magyar Fórum, l’organo di stampa del partito di Csurka, prende sempre apertamente posizioni antisemite. Il 15 marzo scorso un deputato di un altro partito di estrema destra, Alleanza per il benessere ungherese (Mnsz), a proposito della questione della restituzione dei beni agli ebrei, ha dichiarato che 'gli ebrei, non solo non devono essere risarciti in nessun modo ma devono essere allontanati dal paese'. La questione della restituzione dei beni sequestrati e dell’assistenza finanziaria ai 20 mila ebrei sopravvissuti all’Olocausto è stata oggetto di grande dibattito all’interno della società ungherese; sempre Magyar Fórum scrive che si tratta di un vero e proprio 'ricatto ebraico contro la nazione ungherese' e nega sia la consistenza della Shoah che la sua rilevanza in Ungheria (il negazionismo o il riduttivismo sono argomenti tipici dell’antisemitismo).
Durante una riunione del Congresso ebraico europeo tenutasi a Strasburgo nello scorso marzo per discutere dell’ascesa di Haider, Gusztáv Zoltai, rappresentante ungherese, ha dichiarato che 'in Ungheria non c’è antisemitismo istituzionale, ma strisciante; il governo non prende le distanze dalle manifestazioni di razzismo. Ci sono segnali estremamente preoccupanti: in un partito parlamentare (ovviamente si riferisce a quello di Csurka, n.d.a.) si pubblicano ogni settimana scritti antisemiti, incitanti all’odio; l’estrema destra usa programmi radiofonici per ingiuriare dirigenti ebrei democraticamente eletti; vengono pubblicati continuamente scritti antisemiti sulla stessa linea dei Protocolli dei savi di Sion'. Di fronte a queste dichiarazioni, Orbán ha controbattuto che 'in Ungheria non solo non c’è antisemitismo istituzionale ma non ce n’è neanche nel dibattito politico; mi ha sorpreso la dichiarazione di Zoltai, perché non me ne ha mai parlato direttamente. I partiti della coalizione offrono volentieri solidarietà a chiunque riceva offese alla sua dignità'.
Ovviamente, non è vero. Le destre estreme che sostengono Orbán si abbandonano all’antisemitismo più esplicito attraverso i media. Ciò ha contribuito ad esacerbare una parte della società: l’antisemitismo è ora quasi 'di moda', a vedere la quantità di materiale pubblicata in materia. Nei piccoli paesi lo Shabbat è diventato un incubo per i rabbini (anche uno dei rabbini di Budapest e la sua famiglia sono stati pubblicamente oggetto di insulti). Recentemente, altri due cimiteri ebraici, quelli di Barcs e di Szolnok, sono stati violati. Il presidente Göncz, (allora ancora in carica) preoccupato per l’atmosfera nel paese, ha dichiarato in una trasmissione radiofonica che 'non bisogna fare nulla per accendere l’antisemitismo'. Evidentemente ricorda che le parole, dette anche con leggerezza, hanno avuto conseguenze enormi sul destino degli ebrei in passato. Anche questa volta Orbán ha risposto dicendo 'noi non abbiamo fatto e detto nulla a questo proposito' (dove il 'noi' sembrerebbe quasi indicare una 'excusatio non petita, accusatio manifesta').
Il problema è che Orbán, coraggioso sotto il comunismo, quando auspicava pubblicamente la cacciata dei sovietici, non può fare a meno di essere benevolo con la destra estrema. Questo lo porta ad ambiguità in molti campi. Eppure, quando si parla di antisemitismo, si dovrebbe ricordare che il silenzio è la colpa più grave.
In paesi che hanno profondamente rielaborato la loro storia più recente, come la Germania, i neonazisti vengono perseguiti legalmente; in Ungheria, i seguaci di Szálasi possono liberamente esprimersi nel più bieco antisemitismo, possono usare gli strumenti di comunicazione e parlare tranquillamente in parlamento *.
* Si ringraziano per l’aiuto sostanziale Federigo Argentieri e Júlia Vásárhelyi.
Da Limes 6-4353 del 2010
di Ilvo Diamanti
Silvio Berlusconi - Una geopolitica molto personale
Tappe, obiettivi ed esiti della strategia territoriale del Cavaliere. Dall’uso delle etichette geopolitiche nelle elezioni del 1994 alla retorica dei fatti e dei luoghi, ormai evaporata. Il proliferare delle Leghe. La personalizzazione come boomerang.
Può sembrare paradossale riflettere sul legame di Silvio Berlusconi con il territorio. Descriverne l’identità geopolitica "nazionale". Farne oggetto di analisi specifica e approfondita. Silvio Berlusconi, infatti, appare come l’inventore e l’attore protagonista della "politica come marketing", mediatizzata e personalizzata. Dunque: una politica senza territorio. Che ha come spazio la comunicazione e, in particolar modo, la televisione.
Eppure, l’identità politica di Berlusconi è stata elaborata, promossa, sviluppata dal suo artefice in modo consapevole e accurato, porgendo grande attenzione al territorio. Sotto il profilo dell’organizzazione, ma anche - e prima ancora - della rappresentazione. Il Cavaliere, infatti, ne ha fatto argomento esplicito - marchio e parola - della comunicazione politica. Il che non deve sorprendere più di tanto. Perché non c’è discontinuità, nella strategia di Berlusconi, fra la politica mediatica e personalizzata, da un lato, e il riferimento al territorio, dall’altro. In particolare se si considera quanta importanza abbia avuto il territorio, negli ultimi trent’anni. E quale valore mantenga ancora oggi, sul mercato elettorale. Dal punto di vista simbolico, ma anche organizzativo: come bandiera e come tema dell’agenda politica. Berlusconi, per questo, ne ha fatto largo uso in campagna elettorale.
Cioè: sempre. Visto che si vota praticamente sempre. E comunque viviamo in campagna elettorale permanente.
Il territorio come marchio e come network
Silvio Berlusconi ha adottato il territorio come argomento di marketing, ma anche come fattore di aggregazione e di coalizione. Cioè: come network. Fin dall’inizio della sua esperienza politica, in occasione della campagna elettorale del 1994. Le prime elezioni della (cosiddetta) Seconda Repubblica. Una fase di svolta, durante la quale il sistema partitico e istituzionale è in piena crisi, in pieno sfaldamento. Sottoposto a molteplici, laceranti tensioni. Non ultima, anzi tra le più importanti, quella territoriale, interpretata dalla Lega Nord. Soggetto politico che si muove tra rivolta economica e protesta politica. La sua proposta - anzitutto simbolica ed emotiva - si riassume nella lotta "contro Roma e il Sud". Riflette, quindi, una duplice domanda di cambiamento: socio-economico e geopolitico.
Roma, infatti, appare e viene polemicamente rappresentata come la capitale del sistema partitocratico e della corruzione politica. Luogo del centralismo statale e dell’intervento pubblico assistenziale. Il Sud costituisce, invece, il principale beneficiario della spesa pubblica, a cui Roma - lo Stato centrale - destina una quota spropositata delle risorse prodotte soprattutto nel Nord. D’altronde, gran parte della base elettorale dei partiti di governo della Prima Repubblica (la Dc, anzitutto, ma anche il Psi), dopo gli anni Settanta si era prevalentemente spostata nel Mezzogiorno. Accompagnata e sostenuta - appunto - dalla spesa pubblica e dalla protezione dello Stato.
Anche Silvio Berlusconi, peraltro, è molto caratterizzato dal punto di vista territoriale.
È un imprenditore di Milano, capitale del "nuovo" Nord. Epicentro della ribellione contro il sistema partitocratico della Prima Repubblica. È la città di Mani Pulite, l’alternativa a Roma, ma anche a Torino, capitale del "vecchio" Nord, che si regge(va) sulla grande industria protetta dalla politica e dallo Stato. Milano, invece, è il baricentro del capitalismo di produzione dei beni immateriali. Finanza, servizi, comunicazione. Berlusconi ne riflette l’immagine. E a sua volta contribuisce a definirla. In una certa misura, è un altro Nord. Diverso da quello rappresentato da Torino e dalla Fiat. Diverso anche dal Nord della Lega. Che rappresenta il neocapitalismo rampante, espresso dalla piccola e piccolissima impresa, che si sviluppa soprattutto nelle province non metropolitane. Pedemontane, più che padane. E corre dal Nord-Est al Nord della Lombardia, fino a toccare alcune province del Nord-Ovest, periferiche rispetto a Torino (Cuneo, in primo luogo). È l’erede della Dc, dal punto di vista della base elettorale. Ma se ne distacca per molti altri versi.
La Lega è, infatti, diversa e opposta alla Dc per stile, linguaggio, proposta.
Berlusconi, dunque, interpreta un altro Nord: non di sinistra, ma neppure leghista.
Per tradizione e storia, sicuramente anticomunista. Per biografia e geografia, contiguo e concorrente al Nord leghista. Tuttavia, per interesse politico ed elettorale, oltre che imprenditoriale, non può fare la guerra a Roma e al Sud. Significherebbe, tra le altre cose, rinunciare a vincere. Condannarsi ad essere minoranza.
Come il Pci e la sinistra, che non avevano mai governato, in Italia, non solo per il vincolo internazionale, ma anche perché rinchiusi in una larga ma delimitata riserva di caccia elettorale. L’enclave della zona rossa, che circoscrive le - ed è circoscritta dalle - regioni dell’Italia centrale.
Per questo Berlusconi, in vista delle elezioni del 1994, allestisce una coalizione che rammenta un catalogo di etichette territoriali. Aggrega, in un unico cartello elettorale, oltre alla Lega Nord, anche Alleanza nazionale. Partito post-fascista, gemmato dal Msi proprio in vista del voto. Per base elettorale, una sorta di Lega Sud. Associa, inoltre, anche i neodemocristiani del Ccd. Complemento della Lega nel Nord e di An nel Sud. In questo modo, peraltro, oppone il Nuovo (le emergenti identità territoriali) al Vecchio (i partiti di ex e di post: comunisti, democristiani eccetera).
Insomma, Berlusconi convoglia in un unico contenitore (il Polo) contesti - sociali, economici e anzitutto simbolici - largamente inconciliabili. Fin dal nome: il Nord e la nazione (ancorata a Roma e nel Sud, patrie di An). Berlusconi li riconcilia e li riassume, fornendo loro una cornice comune, definita dal suo 'partito personale'. Il quale, non per caso, si chiama Forza Italia. Un nome significativo.
Più che evocare la nazione raffigura la Nazionale di calcio. Richiama il paese delle passioni, che si identificano nella maglia dei calciatori. Azzurra, come la bandiera di Forza Italia. Come la casacca dei militanti forzisti. Gli "azzurri".
L’Italia di Berlusconi evoca, inoltre, la televisione, di cui egli è il più importante e potente imprenditore privato. Non solo in ambito nazionale. Quella che egli interpreta e raffigura è un’Italia "senza territorio", appunto. Ma è un network capace di connettere e di tenere insieme i diversi territori - altrimenti inconciliabili e contrapposti - rappresentati dalla Lega e da An. La sua immagine personale, la sua costruzione mediale di "italiano medio", in grado di vincere e di raggiungere il successo in ogni campo, gli consentono di offrire una colla ai pezzi di un paese spezzato dalla politica, oltre che dall’economia. Peraltro, la sua capacità di comprendere e maneggiare le logiche della nuova legge elettorale semimaggioritaria gli permette di costruire un cartello vincente, evitando i contrasti fra attori politici e territoriali tanto lontani. Così costruisce un’alleanza distinta: a Nord con la Lega; al Centro-Sud con An. Lega Nord, Lega Sud. Entrambi uniti da Forza Italia. L’unico e il solo partito in grado di presentare una distribuzione del voto 'nazionale'; comunque, non circoscritta e marcata territorialmente. A differenza degli alleati, ma anche dei partiti di centro-sinistra.
Così la Seconda Repubblica nasce insieme all’Italia mediatica e personalizzata di Silvio Berlusconi. Capace di sostituire con il marketing la perdita di forza dell’ideologia. E di personalizzare questo "paese di compaesani", come lo definisce Paolo Segatti. Questo paese di paesi. Proponendo se stesso come modello. Il sogno americano all’italiana. Visto che gli italiani (non tutti, ovviamente, ma una parte rilevante di essi) sono dei "Berlusconi più poveri" (per echeggiare una felice formula di Massimo Gramellini).
La "geopolitica nazionale" di Berlusconi, dunque, è una costruzione personale e personalizzata. Opera abile e complessa, mediale e narrativa. Diplomatica e organizzativa.
Perché solo lui è in grado di tenere insieme i partiti e i leader che rappresentano le diverse Italie. Bossi, Fini, Casini. E solo lui è in grado di imporre confini territoriali stretti e invalicabili agli avversari, ai "nemici" del centro-sinistra.
La parola e lo stigma "comunista", che Berlusconi usa senza sosta e come mai era avvenuto nella Prima Repubblica, quando i comunisti esistevano davvero, costringe il centro-sinistra dentro allo storico recinto delle regioni rosse del Centro Italia.
Lo riduce a una sorta di Lega di Centro (come la definisce Marc Lazar).
La retorica dei fatti e dei luoghi
Un secondo, importante uso che Berlusconi fa del territorio è di tipo narrativo.
Se ne serve, cioè, come esempio e raffigurazione del suo stile di azione e di attore. Concreto, operativo, diretto. Poco abituato alle chiacchiere, ai discorsi vuoti e fini a loro stessi dei "politici professionali". Alle parole, Berlusconi oppone i fatti. Alle utopie (per definizione: luoghi ideali) egli oppone i luoghi concreti.
Berlusconi: è "l’uomo del fare" che guida il "governo dei fatti". Nel 2001, in campagna elettorale, nel salotto di Bruno Vespa, traccia (letteralmente: con un pennarello su un tabellone) il suo decalogo, dove campeggiano "grandi opere" che segnano (talora devastano) il territorio. Grandi reti autostradali e ferroviarie ad "alta velocità", che segnano la mappa del paese. Ancora: il ponte sullo Stretto di Messina. E nel 2006, alla vigilia del voto dove appariva sconfitto predestinato, riesce quasi a rovesciare il pronostico, promettendo, nel faccia a faccia con Prodi, l’abolizione dell’Ici sulla prima casa. Ossia il taglio della tassa che colpisce la quasi totalità degli italiani "a casa loro". Nel luogo in cui abitano e vivono con la loro famiglia.
Infine, alle elezioni del 2008, dove esce trionfatore con la sua coalizione, imposta la sua campagna sull’immagine dei rifiuti di Napoli. Le cataste di immondizie che si ammassano nelle strade di uno dei luoghi-simbolo del governo di centrosinistra. La città e la Regione di Bassolino. Artefice di una stagione di speranze e di rinascita. Berlusconi punta sul "miracolo illusorio" della sinistra. E promette che lì, proprio lì, le cose cambieranno "in modo visibile". Napoli liberata dalle immondizie è "il luogo" che testimonia dell’efficienza dell’Imprenditore dedito alla politica per il bene comune.
Così, un anno dopo, L’Aquila devastata dal terremoto gli permette di affermare nuovamente il suo stile e il suo esempio. L’uomo del fare. Che agisce nel paese reale. E libera il territorio coperto di macerie. Da cui ri-sorgerà la città.
I "luoghi" permettono a Berlusconi di mettere in scena la sua azione politica. Per ancorare le sue parole a un territorio. A un contesto. Illuminato dai media. E dunque reale.
Le fratture inattese dell’unificazione personale del paese, il nesso con il territorio, dunque, è in grado di spiegare molte ragioni del successo di Berlusconi. Ma ne annuncia anche la debolezza. Altrettanti motivi di instabilità. Intuibili fin dall’inizio della sua vicenda politica, che dura ormai da sedici anni, oggi sembrano divenuti palesi e difficilmente sostenibili.
Li riassumiamo rapidamente.
A) La prima ragione richiama la difficoltà di ricomporre interessi e identità territoriali tanto contrastanti su basi "personali". Un problema che emerge subito, quando, nel 1994, dopo pochi mesi di governo, la Lega di Bossi rompe con la maggioranza e quindi con Berlusconi. Perché Berlusconi e Forza Italia, più che alleati, sono divenuti concorrenti della Lega. Ne hanno eroso i consensi e la rappresentanza nel Nord. Per cui la Lega se ne va e corre "da sola contro tutti".
Ma soprattutto contro di lui: Berlusconi. E alle elezioni del 1996 lo sconfigge. O meglio, vince l’Ulivo guidato da Prodi, ma solo perché nel Nord la Lega batte nettamente il Polo delle Libertà, dove Berlusconi ha riunito accanto a Forza Italia Alleanza nazionale e i neo-dc. Legittimando la propaganda polemica di Bossi contro il Polo di Roma e del Sud. Perché la "rappresentazione" è diversa dalla "rappresentanza". Berlusconi può dare "immagine" al Nord, ma non dispone di radici forti e stabili che gli permettano di formare una base politica ed elettorale solida.
Non a caso, nel 2000, Berlusconi ricuce il rapporto con Bossi e la Lega. Fiaccati, a loro volta, da un antagonismo "rivoluzionario" che li fa apparire "poco produttivi" agli elettori del Nord. Ai quali, assai più della secessione, interessa ottenere - da Roma - risorse e potere. Berlusconi e Bossi, insieme, tornano a vincere.
Nord e (Forza) Italia: di nuovo uniti.
Lo stesso problema, peraltro, emerge nel rapporto con il Mezzogiorno, dove Forza Italia deve misurarsi con la concorrenza di An, i neo-dc e le altre formazioni regionali e locali (Udeur, Mpa eccetera). Tanto più forte quanto più esplicita diventa l’azione politica della Lega. E quanto più il peso politico della Lega diventa rilevante, nella Casa delle libertà. Cioè nel polo di centro-destra.
Allora, la mediazione politica di Berlusconi diventa faticosa. E la sua immagine stenta, a sua volta, a unificare - o almeno a mediare - i diversi paesi del paese.
Le diverse Italie che compongono l’Italia.
B) Questa tensione diviene lacerante dopo le elezioni del 2008. Quando il progetto unificante e unitario di Berlusconi sembra raggiungere il livello di successo più elevato. Non solo perché conduce la coalizione alla conquista di una maggioranza schiacciante alla Camera e al Senato. Ma perché unifica An e Forza Italia. Il partito nazional-meridionale e quello nazional-personale sotto un’unica bandiera. La sua alleanza con la Lega, peraltro, riproduce lo schema originario: l’intesa fra il Nord e l’Italia. Unico garante: lui. Insieme al suo amico e complice: Umberto Bossi. L’Italia fondata sui legami personali. Una cornice che non regge. Non tiene più. Perché l’Italia "mediale" deve fare i conti con quella "reale". E i conti dell’Italia reale sono critici. Fissati dalle regole e dai vincoli internazionali.
Fiaccati dalle crisi economiche e finanziarie globali. Non è facile, anzi: è impossibile soddisfare Nord e Sud. Allo stesso tempo. Tanto più - tanto meno - servendosi, come strumenti privilegiati, dell’immagine. Della narrazione. Della personalizzazione.
L’immagine e la narrazione di Berlusconi non bastano più. Soprattutto nel Mezzogiorno. Dove le paure - e le conseguenze - della crisi sono difficili da accettare. E le politiche del Nord - riassunte nel federalismo - fanno paura. Tanto che la maggior parte dei cittadini del Sud le considerano strategie secessioniste.
Contro gli interessi del Mezzogiorno. Mentre i cittadini del Nord, in misura crescente, considerano il Sud semplicemente "un peso per lo sviluppo del paese" e un costo senza benefici per il Nord.
C) Ancora: la rappresentanza "personale" della politica e dei territori produce, come conseguenza imprevista e indesiderata, il trasferirsi dei conflitti e delle fratture dal piano personale a quello geopolitico. Così, la frattura tra Berlusconi e Fini non produce solo la scomposizione del Pdl, ma anche la scomposizione tra Nord e Sud. Visto che Bossi, per primo, elegge Fini - insieme a Casini - portabandiera degli interessi del Sud. Il che, peraltro, ottiene, come ulteriore conseguenza, a cascata, la scomposizione interna ai territori. Fa emergere altre tensioni, che promuovono altri partiti, altri leader - locali. Soprattutto nel Mezzogiorno e in Sicilia.
Infine, la "localizzazione" della politica, della comunicazione e della comunicazione politica. Trasforma la "retorica del fare" in retorica tout court. Perché se l’immondizia ritorna periodicamente a sommergere Napoli, se le macerie continuano a seppellire il centro dell’Aquila, allora i fatti diventano semplici parole.
Contraddette dalle immagini. Mentre i luoghi diventano metafore. Di un’Italia immaginaria e illusoria. Raccontata e inesistente. Una favola, più che una parabola.
Il racconto di un paese che non c’è. Neppure come raffigurazione.
I limiti della geopolitica personale
Così la geopolitica nazionale di Silvio Berlusconi si trasforma in limite. L’imprenditore politico che ha inventato e costruito la Seconda Repubblica, nell’anno in cui si celebra il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia rappresenta un’Italia divisa. Dove le fratture territoriali originarie non si sono saldate, ma anzi riemergono, moltiplicate e amplificate dalla logica mediatica e personale di quest’epoca.
A riflettere il fallimento di un progetto di unificazione nazionale e (meta) territoriale. In fondo: del progetto (geo)politico personale di Silvio Berlusconi.
Da Limes 1-4053 del 2003
Mappa della (dis)Unione europea
di Lapo Pistelli
Gratta l’Ue, trovi le Europe. Le fondamenta della ‘comune casa europea’ sono percorse da fratture di natura storica, geostrategica, economica, culturale. Le sfide della transizione dalla ‘Piccola’ alla ‘Grande’ Europa. Il ruolo centrale dei paesi preallargamento.
Fra quattro mesi termina la 'pausa di riflessione' decisa dal Consiglio Europeo all’indomani della doppia bocciatura
referendaria del trattato costituzionale ed è quasi certo che il massimo risultato prodotto da questo periodo di presunto studio e dibattito consisterà nell’allungamento ulteriore della pausa stessa, in attesa di vedere cosa succede alle elezioni presidenziali francesi del 2007 e di capire se, grazie ai dibattiti nazionali che ogni paese dell’Unione deve promuovere fra istituzioni e società civile, la malaise [malessere, ndR] europea dà qualche segno di miglioramento. Intanto, l’Europa lavora con le regole di Nizza, fa sapere che non si procederà ad ulteriori allargamenti dopo Bulgaria e Romania se non cambia il quadro istituzionale, discute di come resuscitare se non la lettera almeno lo spirito dell’agenda di Lisbona, per rianimare un’affaticata economia continentale.
Sono terribilmente lontani i tempi in cui si scommise di risolvere contemporaneamente il dilemma dell’approfondimento e dell’allargamento varando in parallelo la moneta unica, l’allargamento al blocco degli ex paesi socialisti e alle due isole mediterranee, e il cantiere costituzionale. Un azzardo necessitato dalla sovrapposizione di impegni assunti in tempi diversi, ma messo prima a dura prova dalla stagnazione economica e dalla crisi transatlantica sulla guerra in Iraq, poi malgovernato da una Commissione che ha dimostrato finora scarsa visione e molta timidezza politica, infine smascherato dal 'no' di Francia e Paesi Bassi (due paesi considerati sostenitori dell’integrazione europea) nel giugno-luglio 2005.
I molti appelli e documenti circolati negli ultimi mesi - da ultimo, la relazione Duff-Voggenhuber al Parlamento europeo - testimoniano il passaggio critico che l’Europa vive: assoluta lucidità nell’osservazione dei sintomi della propria malattia e nell’indicazione della terapia necessaria; paralisi completa rispetto ad un’azione di rilancio del processo di integrazione. L’Europa aveva già vissuto la stessa contraddizione nella più grave crisi di politica internazionale degli ultimi anni, e cioè l’operazione militare americana in Iraq che aveva spaccato in due blocchi il nostro continente: i sostenitori a oltranza di Washington e gli oppositori, tutti però, in definitiva, incapaci di incidere realmente sugli eventi.
Molti attribuiscono la responsabilità di questa euro-sclerosi al recente allargamento, un processo condotto troppo rapidamente e con troppi sconti a paesi ancora politicamente fluidi e instabili, che avrebbero mandato in stallo il sistema di decision making continentale e dato vita ad una rete di interessi troppo diversi e talora configgenti per poter formulare, in assenza di regole nuove, una policy unitaria. Inoltre, secondo un’impostazione che il presidente della Commissione Barroso definisce ironicamente dell’Europa in miniatura, la diversità delle 25 filosofie che stanno dietro ai sistemi economici e politici degli Stati nazionali avrebbe definitivamente affossato il progetto di un’Europa federale, con una sola anima ed una sola cultura politica.
Se è innegabile che l’allargamento ha diviso l’Europa in una serie di subgeografie regionali, culturali, economiche, sociali, politiche, non è però detto che questa situazione sia incompatibile con un disegno federale che vede invece nell’Europa quella 'Unione di diversità e Unione di minoranze' cui ha fatto spesso riferimento l’ex presidente Romano Prodi. Inoltre, se si guardano bene gli altri grandi attori mondiali, dagli Stati Uniti alla Cina all’India, sarà facile constatare che non è l’esistenza in sé di interessi diversi o di raggruppamenti subnazionali a minare la tenuta di un disegno unitario.
Il Parlamento europeo è supposto rappresentare il demos del nostro continente nel suo insieme, a partire da circoscrizioni elettorali di carattere nazionale e con una riaggregazione successiva degli eletti sulla base delle vecchie e nuove famiglie politiche. Ciò trasforma la tradizionale geometria monodimensionale dei parlamenti nazionali (destra vs. sinistra) in una geometria solida tridimensionale (destra/sinistra su base nazionale, appartenenza nazionale, gruppi politici europei).
La quale diventa pura geometria non euclidea se immaginiamo di tracciare altre possibili mappe che raffigurino l’odierno dibattito europeo.
a) Nuova Europa, vecchia Europa. Il copyright appartiene al segretario alla Difesa americano Donald Rumsfeld, che intese così dividere con un giudizio di valore coloro che avevano capito la guerra al terrorismo dell’amministrazione Bush da coloro che rimanevano inconsapevoli del nuovo salto di qualità delle relazioni internazionali. Neoatlantici ed eurogollisti: di qua l’Europa permanentemente agganciata all’alleato americano in veste di junior partner, tutelato nel sistema di relazioni internazionali; di là l’Europa che insegue la vocazione di un ruolo autonomo nel sistema internazionale, che resta amica degli Stati Uniti ma è consapevole di alcuni interessi di fondo divergenti, che coltiva nuovi alleati (Russia e Cina) per ricreare un assetto multipolare, con il vecchio concetto di equilibrio di potenze rivisitato in chiave di grandi aggregati mondiali. Di qua l’Europa centrorientale, finalmente al riparo dal giogo sovietico, che segue fedelmente l’amico americano; di là l’Europa disposta a spendere risorse ed energie per assumere un ruolo di secondo protagonista.
Secondo Rumsfeld, la nuova Europa è composta da Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, dal partner strategico inglese e dai nuovi amici del presidente, Italia, Spagna e Danimarca. La vecchia Europa, che Prodi ribattezzerà polemicamente saggia, comprende Austria, Belgio, Cipro, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Svezia.
È possibile individuare due sottogruppi anche all’interno del blocco dei paesi fondatori della Ue: fondatori filoatlantici e fondatori filoeuropei. Ben prima dei primi allargamenti infatti, Paesi Bassi e Italia erano saldamente nel campo atlantico, la Germania si collocava in mezzo, Francia e Belgio costituivano il cuore dell’Europa carolingia.
Restando nell’ambito della sicurezza, sarebbe poi possibile dividere fra Europa-Nato ed Europa-Pesd: nel primo gruppo, oltre a Gran Bretagna e Paesi Bassi, si colloca quasi tutta la 'nuova' Europa, soddisfatta dall’ombrello di protezione guadagnato; il secondo gruppo annovera Austria, Francia, Italia (ma non con l’attuale governo) [Nel 2006 - XIV Legislatura, Berlusconi II, ndR], Germania, Grecia, Lussemburgo, Portogallo e Spagna, mentre in un terzo gruppo confluiscono i restanti paesi, neutralisti alcuni, altri privi di un’adeguata massa critica per partecipare al progetto.
b) Paesi fondatori, altri. È la storia a tracciare la linea che divide Francia, Germania, Italia e paesi del Benelux - l’«Europa dei 6» - da tutti gli altri, ed è in genere alla coppia franco-tedesca che si è guardato con speranza e attesa in ogni crisi di passaggio o in ogni fase di crescita del progetto europeo. Va aggiunto però che altri paesi, come Spagna e Portogallo, anche se di più recente ingresso e sebbene collocati alla periferia geografica rispetto al nucleo, si sono integrati con successo nel core originario, mentre altri, come la Gran Bretagna, anche se entrati nella Comunità dieci anni prima, non hanno tuttora abbandonato atteggiamenti da outsider.
c) Paesi grandi, paesi piccoli. La distinzione non pesa nella composizione della Commissione, poiché a Nizza e nel testo della abortita costituzione si è convenuto di non escludere la rappresentanza di alcun paese dall’organo esecutivo dell’Unione; ma pesa notevolmente nel calcolo dei voti ponderati in Consiglio per tutte le materie in cui si delibera a maggioranza, e rileva altrettanto nel sentimento che muove gli sparuti drappelli di parlamentari dei piccoli paesi nell’assemblea dei 736 deputati di Strasburgo. Costituisce un rischio di potenziale frattura la circostanza
che fra i nuovi membri solo la Polonia, con i suoi 38 milioni di abitanti, abbia lo status di paese grande, mentre Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna e Spagna appartengano al nucleo dei fondatori o siano comunque integrati da almeno un ventennio. Non è un caso che i politici più accorti raccomandino sempre, per ogni futura iniziativa di rilancio europeo, di cercare il coinvolgimento polacco. Cosa che, dopo le ultime elezioni politiche a Varsavia, appare però più difficile.
d) Paesi mediterranei, paesi nordici. La Comunità muove dal suo cuore originario verso nord, nord-ovest, quando inizia il processo di allargamento; sterza verso sud per tutti gli anni Ottanta, colma alcuni vuoti negli anni Novanta e muta il suo baricentro verso est - coprendo tutto l’arco da nord-est a sud-est - con l’allargamento del 2004; insisterà fortemente in direzione sud-est se includerà, dopo Romania e Bulgaria, anche Croazia, Balcani occidentali e infine Turchia. La distinzione fra Mediterraneo e Nordic dimension è rilevante e visibile perfino nei programmi delle presidenze semestrali del Consiglio. L’Europa del Nord, che troverà un proprio interprete nella presidenza finlandese della seconda metà di quest’anno, è un’Europa lontana dai pericoli e dai conflitti, a bassissima densità demografica, ad alta tecnologia e ad alto reddito, interessata alla geografia dell’energia e ad un rapporto di buon vicinato con l’orso russo. L’Europa mediterranea è contigua all’area di crisi mediorientale, è densamente popolata e a più basso reddito e soggetta a massicce immigrazioni, ha un’economia ricca ma matura e con minori contenuti tecnologici, ma vede nelle nuove rotte fra Cina e Mediterraneo un’opportunità secolare per rilanciare un ruolo strategico planetario nello snodo dei commerci.
e) Integrazionisti, intergovernativi. Le indagini dell’Eurobarometro hanno riservato molte sorprese negli ultimi anni: la bocciatura referendaria è arrivata da paesi del nucleo storico, ma il consenso verso lo spostamento delle decisioni di politica estera e di sicurezza a livello comunitario durante la crisi irachena era ampiamente maggioritario in tutti i paesi tranne la Gran Bretagna. Inoltre, paesi chiave come Italia e Germania hanno vissuto svolte politiche recenti che non li rendono più facilmente collocabili. Hanno comunque un dna integrazionista il nucleo dei fondatori, i membri mediterranei entrati negli anni Ottanta, Austria e Cipro. Sono tendenzialmente intergovernativi tutti gli Stati di nuovo accesso, e i paesi nordici, incluso il secondo anello di membri storici composto da Gran Bretagna, Irlanda,
Danimarca.
f) Pro allargamento, antiallargamento. È uno degli ambiti di maggior attrito, anche per il contrasto fra ciò che è considerato politically correct e ciò che si agita nel ventre profondo dei singoli paesi. Si diffonde l’idea che Nizza non sia un quadro istituzionale adatto per ulteriori allargamenti dopo il 2007 e fa scalpore la modifica costituzionale francese con la quale Chirac ha subordinato il sì alla Turchia (e a chiunque altro) ad un referendum: una mossa che non lo ha resuscitato nei sondaggi, ma che ha ipotecato il futuro dell’Unione. In gioco è ovviamente il possibile trade off [contropartita, scambio, ndR) fra allargamento e approfondimento dell’Unione politica, un dilemma che sarebbe possibile risolvere all’inglese - dilatando cioè l’integrazione economica e riducendo quella politica - o alla federalista - estendendo l’uso del voto a maggioranza a gran parte delle materie.
Il dibattito sull’allargamento sconfina inevitabilmente dalla geografia alla cultura quando l’accenno ai confini diviene allusione all’identità del progetto europeo, alle culture che esso incorpora, ai possibili nuovi membri che, peraltro, la maggioranza degli europei non saprebbe nemmeno collocare sulla carta. Da rilevare che i paesi entrati nel 2004, con la tipica sindrome del late comer [ultimo arrivato, ndR], sono fra i più ostili verso l’allargamento e, più in generale, verso una concezione aperta del progetto europeo.
g) Paesi di immigrazione, paesi di emigrazione. Il riferimento non è al 'polish plumber', all’idraulico polacco degli incubi francesi, sia perché la libera circolazione delle persone e dei lavoratori è uno dei cardini dell’integrazione continentale, sia perché i numeri reali dicono che non c’è stato, e presumibilmente non ci sarà, alcun movimento epocale da est verso ovest. La distinzione riguarda piuttosto i flussi migratori extraeuropei, i quali portano a distinguere paesi che ospitano al loro interno diverse comunità etniche e religiose (attratte da concrete opportunità di
lavoro e integrazione) e paesi etnicamente omogenei. Nella prima categoria si colloca l’Europa occidentale, inclusi paesi - come l’Irlanda - che una volta esportavano emigranti e che oggi li accolgono, nonostante la propria perifericità continentale; nel secondo gruppo, i paesi dell’Europa centrorientale.
h) Schengen, non Schengen. È una delle due cooperazioni rafforzate degli anni Novanta, entrata con forza nella vita comune dei cittadini europei (i diversi controlli di frontiera fra voli Schengen e non Schengen) e alla quale l’Italia ha aderito con un paio di anni di ritardo. Vi appartengono 15 paesi, non coincidenti però con l’Europa preallargamento, poiché Gran Bretagna e Irlanda si sono chiamate fuori, mentre hanno aderito (pur non essendo Stati membri dell’Unione Europea) Norvegia e Islanda.
i) Secolarizzati, religiosi. Se prendiamo in considerazione il dibattito costituzionale sull’opportunità o meno di inserire nel preambolo il riferimento alle radici cristiane o la ricerca presentata dal Pew Center nell’estate scorsa sul sentimento religioso e l’influenza dei temi correlati nell’agenda politica nazionale, si collocano nel primo gruppo la Francia e la Repubblica Ceca, nel secondo Polonia, Italia, Slovacchia, Irlanda, Portogallo. La Spagna sta compiendo una drastica inversione di rotta, da paese in cui la religione influenza profondamente l’orientamento politico a paese con una agenda improntata ad un forte laicismo; tutti gli altri non sono chiaramente collocabili.
l) Nucleari, non nucleari. L’energia, come dimostrano le vicende del gas russo, continuerà ad essere uno dei fattori chiave dell’economia europea nel futuro. I paesi membri dell’Unione possono essere divisi fra quelli autosufficienti dal punto di vista energetico e quelli dipendenti - in alcuni casi, come quello italiano, pesantemente dipendenti - dalle importazioni. Una stretta maggioranza di Stati membri dispone di impianti nucleari operativi sul proprio territorio (Svezia, Finlandia, Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Germania, Francia, Repubblica Ceca, Slovacchia,
Slovenia, Ungheria, Lituania), anche se parte delle centrali nell’Est europeo sono soggette a programmi di riconversione e chiusura a causa delle insufficienti condizioni di sicurezza.
m) Euro sì, euro no. Oggi tale distinzione è quasi coincidente con quella fra gli 'ex 15' e i paesi di nuovo ingresso. In realtà, Svezia, Danimarca e Regno Unito, pur godendo di fondamentali ampiamente coerenti con i criteri di Maastricht, hanno scelto di non fare parte dell’Eurozona, sia per ragioni di forte attaccamento identitario alla valuta nazionale, sia per il buon andamento delle rispettive economie e per la minore dipendenza dagli scambi commerciali con i paesi euro. Dall’altra parte, oltre la metà dei paesi entrati nel 2004 ha quasi completato il cammino di risanamento che li condurrà entro pochi anni ad adottare la moneta unica. Il cleavage [differenza, spaccatura, ndR] è significativo, poiché molte delle proposte relative al rilancio del progetto europeo sono legate a cooperazioni rafforzate in campo economico, da mettere in atto a partire dai paesi dell’Eurogruppo.
n) Paesi contributori, paesi ricettori. Il rapporto fra il contributo versato da ogni Stato membro all’Unione in percentuale del proprio pil e l’insieme delle risorse che ritornano indietro sotto varie forme definisce il ruolo di contributore o ricettore di ogni singolo paese, almeno dal punto di vista meramente statistico. Fino a qualche anno fa, semplificando, si poteva dire che Germania, Paesi Bassi e pochi altri finanziavano tutti gli altri, in particolare Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia e Grecia. Oggi, dopo il complicato accordo sulle prospettive economiche e finanziarie 2007-2013 che verrà ridiscusso fra Consiglio, Commissione e Parlamento, si potrebbero semplicisticamente identificare nell’Eurogruppo i contributori e nei nuovi membri i ricettori.
Le cose sono in realtà più complesse, se si prende in considerazione il peso che la politica agricola riveste per i francesi o il rimborso di thatcheriana memoria per la Gran Bretagna. E va infine aggiunto che un mercato unico così grande e stabilizzato offre maggiori opportunità per alcuni grandi paesi e per i propri apparati produttivi, anche se il conto di Bruxelles, sembra dire il contrario.
o) Prewelfare, inwelfare, postwelfare. Il cosiddetto modello sociale europeo è frequentemente evocato per distinguere il capitalismo europeo e la sua economia inclusiva dalle altre aree del pianeta, ma il Consiglio informale di Hampton Court- che, nelle intenzioni di Tony Blair, doveva essere in gran parte dedicato alla definizione una volta e per sempre di questo modello - ha deciso di stralciare l’argomento.
Non è un caso che il capitalismo anglosassone (fondato su servizi e finanza), quello renano (basato su grande impresa, sindacato, banca e cogestione), quello postcomunista (azzoppato dal complesso di inferiorità ma spronato dalla irrefrenabile voglia di crescere) e quello mediterraneo (centrato sulla proprietà familiare e sull’intervento correttivo dello Stato) non abbiano trovato un punto di equilibrio.
L’Europa continentale vive ancora nell’era piena del welfare - un ambiente ad alta protezione sociale, basso dinamismo economico e alta disoccupazione - ma sente il morso di paesi prewelfare (il blocco centrorientale) e postwelfare (Gran Bretagna e Irlanda), che presentano minori protezioni sociali ed economie più dinamiche, in grado di creare occupazione. Ci sarebbe la variabile scandinava, da tutti studiata con costante invidia, che coniuga alta protezione sociale e dinamismo economico; ma là il sistema nazionale subisce un minor condizionamento di variabili
esterne (fattori demografici e migratori, trasformazioni economiche).
Questa geografia subeuropea ha una importanza rilevante nel decidere quanto pesa nel futuro l’agenda di Lisbona e Goteborg (economia della conoscenza e dell’innovazione, sviluppo sostenibile) e quando sarà possibile la definizione di uno standard continentale di diritti sociali.
p) Protezionisti, liberisti. L’Europa ha compreso di dover cercare un nuovo ruolo nella competizione economica globale; ciascuno Stato membro cerca a sua volta un nuovo posizionamento delle proprie produzioni nell’economia europea.
Lisbona e Göteborg sono le stelle polari di questa presunta trasformazione, ma il negoziato di Hong Kong e il confronto con Stati Uniti e Cina rappresentano la dura realtà quotidiana. Soffrono i paesi grandi del nocciolo duro come la Francia che difende accanitamente la Pac, l’Italia che sconta la crisi del tessile abbigliamento e il nanismo delle proprie imprese, la Germania meno dinamica di un tempo: tutti questi paesi sono produttori/esportatori che intendono difendere le proprie industrie, allargando al contempo i propri mercati.
Per contro, i paesi piccoli, quelli nordici, quelli di recente accesso, quelli vocati per tradizione storica come i Paesi Bassi, sono più liberisti perché importatori (di merci e, nel caso dei nuovi membri, di investimenti e delocalizzazioni produttive da ovest) e consumatori. Non a caso, la direttiva sui servizi di imminente approvazione è vissuta in alcuni paesi come un incubo, in altri come una grande opportunità.
L’analisi delle subeurope di natura economica contempla ulteriori distinzioni, come quella fra old e new economy: la prima radicata nel cuore dell’Europa e in Italia, con produzioni manifatturiere spesso mature e a medio-basso contenuto tecnologico, la seconda proiettata verso nord, nella Finlandia della Nokia o nel Regno Unito delle grandi società finanziarie. Sul piano macroeconomico, il dibattito sulla riforma del Patto di stabilità e crescita consente poi di distinguere tra rigorosi e pro crescita, con i primi che considerano il controllo comune dei parametri macroeconomici condizione indispensabile per la fiducia reciproca fra i soci del club, ed i secondi che chiedono che il Patto sia letto anche nella parte in cui richiama la crescita, il che richiederebbe una politica economica coordinata.
q) Centro-destra, centro-sinistra. Le molte divisioni dell’Europa non troveranno una loro compensazione nell’armonia di un ciclo politico omogeneo dei governi nazionali. Anche sotto quel profilo, l’Europa è oggi spaccata come una mela: sono governate da esecutivi popolar-conservatori Austria, Danimarca, Olanda, Polonia,
Italia, Grecia, Francia, Irlanda, Lettonia, Lussemburgo, Slovenia, Slovacchia, Malta; governi di centro-sinistra reggono invece le sorti di Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Finlandia, Lituania, Svezia, Ungheria, Repubblica Ceca. Sono di difficile classificazione la grosse Koalition appena varata in Germania, le originali formule politico-istituzionali di Cipro ed Estonia, la recente svolta del Portogallo.
L’agenda che l’Europa si è data per i prossimi anni - strategia di Lisbona, liberalizzazione dei servizi, partnership strategica con la Cina, spazio delle quattro libertà con la Russia, politica di vicinato, proiezioni balcaniche e mediterranee, recupero della relazione transatlantica ma difesa di alcuni progetti economici con essa confliggenti (come Galileo o Airbus), futuro del trattato costituzionale - esigono che lo stallo sia rotto in qualche modo. Il gioco delle mappe fin qui condotto testimonia però che non esiste un Artù europeo predestinato a estrarre la spada dalla roccia per una sovrapposizione virtuosa di interessi. La palla è per molte ragioni nel campo dei fondatori e nella cerchia dei paesi integrazionisti dei primi allargamenti, ma sono proprio questi protagonisti che devono compiere i maggiori sforzi.
Da un lato, essi devono scrollarsi di dosso la nostalgia di una piccola Europa che non c’è più e che loro stessi hanno deciso di cambiare. Dall’altro, hanno il duro compito di riformare sistemi economici e sociali che considerano l’Europa come un vincolo e una malattia, non capendo che l’insidia viene da fuori (dal mondo globalizzato) e da dentro (la perdita di coesione sociale) e che l’Europa è, semmai, lo strumento per abbandonare la vecchia partita 'Europa su Europa' e cominciare quella più difficile 'Europa su Mondo'.