www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/D_Arzo/2_Digregorio.html del 1 febbraio 2022
Questa è roba da libro: Silvio D’Arzo scrittore per ragazzi
di Rosarita Digregorio
Tutta la produzione darziana per ragazzi è arrivata a noi per vie postume, traverse, complesse, per certi versi quasi miracolose, visti i tanti ostacoli non solo esterni, ma persino interni alla sua stessa genesi. La vita breve e travagliata del giovane autore, intrecciata al dramma della guerra; i timori e le titubanze editoriali di fronte a una narrativa innovativa, in qualche modo deflagrante e rischiosa, carica di suggestioni contrastanti; soprattutto la furia creativa dello stesso D’Arzo che sottopose questi romanzi e racconti a un processo compositivo non lineare, pieno di idee e ripensamenti, un cantiere in continua evoluzione, sempre aperto perché costantemente aperta era la riflessione dello scrittore emiliano sulla scrittura e la letteratura. Tante e diverse, dunque, le ragioni che ci hanno consegnato edizioni solo postume di tutte le opere per ragazzi: Penny Wirton e sua madre, Tobby in prigione, Il pinguino senza frac. Ma anche Gec dell’avventura, romanzo inedito e incompiuto, scritto tra il 1944 e il 1945, per molto tempo considerato come la prima, ancora incerta stesura di Penny Wirton e che, invece, nel 2020, grazie all’edizione critica di Alberto Sebastiani e all’epilogo apocrifo affidato a Eraldo Affinati, ha trovato con Einaudi una vita propria del tutto indipendente e significativa. Sempre a Einaudi, del resto, si deve la prima pubblicazione, nel 1978, ne Gli struzzi Ragazzi – la stessa collana che aveva accolto Rodari, Lodi, Luzzati - di Penny Wirton e sua madre, con disegni appositamente eseguiti da Alberto Manfredi sin dal1959. La storia del giovane emarginato Penny, alter ego letterario di quell’Ezio Comparoni che fece per tutta la vita i conti con le origini umili e marginali e soprattutto con la mancanza del padre, pure aveva visto la sua forma definitiva nel 1948, proprio dopo l’abbandono del progetto di Gec, rimanendo tuttavia in un cassetto fino a quando Rodolfo Macchioni Jodi, conterraneo, prima vicedirettore della Biblioteca Panizzi e poi docente di Letteratura italiana all’Università di Perugia, amico ed estimatore di D’Arzo, non intraprese l’opera di curatela delle sue carte, con lo sguardo doppiamente attento del filologo e dell’amico. Anche l’incompiuto racconto Una storia così, scritto poco tempo prima della prematura scomparsa dello scrittore, ha recentemente rivisto la luce in forma autonoma con Corsiero Editore (2021), arricchendosi del finale scritto da Matteo Razzini e delle illustrazioni di Giuseppe Vitale, dopo un’apparizione in appendice al saggio critico Comparoni e l’altro di Paolo Lagazzi (1992). Queste riprese editoriali contemporanee ci dicono quanto sia ancora vitale e potente la vena darziana: il racconto tenero e drammatico de Il pinguino senza frac, per esempio, ha avuto nel 2015, di nuovo con Corsiero, un’elegantissima riedizione, con le tavole poetiche di Sonia Maria Luce Possentini, risultata vincitrice del premio The White Ravens 2016 e rielaborata, sempre da Corsiero, anche in Comunicazione Aumentativa Alternativa.
Il dono della proposta di Vallecchi
Silvio D’Arzo approdò alla letteratura per ragazzi grazie all’intuizione dell’editore Vallecchi, che, in una lettera del 12 febbraio del 1943, lo invitava senza tanti giri di parole a scrivere “un libro per i ragazzi”.
“Con la vostra fantasia – lo incalza Vallecchi - che si accende anche nelle occasioni più modeste, mi sembra che potreste riuscire brillantemente anche nel settore della letteratura infantile. Naturalmente bisognerebbe tenere presente che certi resultati magici della vostra prosa non sono adatti per i piccoli lettori, i quali non rintraccerebbero il valore evocativo di gesti, situazioni, ecc. Ma di queste messe a punto sicuramente non avete bisogno”.
L’editore sembrava così materializzare un desiderio che, sulla scia della lettura delle fiabe di Perrault e di J. Matthiew Barrie, D’Arzo in realtà coltivava da tempo, come egli stesso rivelava nella risposta del 27 febbraio 1943. Quella proposta fu quindi accolta come un dono,lo sprone a liberarsi da ogni ritrosia e a gettarsi in quell’impresa fino ad allora solo vagheggiata, non senza preoccupazione e timore, vista la delicatezza della sfida, i pregiudizi degli intellettuali e della “letteratura alta”, presso cui pure D’Arzo ambiva ad accreditarsi definitivamente, nei confronti di quella per l’infanzia, e, da ultimo, il tormento di trovare una cifra propria, originale ma allo stesso tempo non del tutto eccentrica. Le ragioni di un interesse così acceso per il pubblico dei piccoli si annidavano nella convinzione che la letteratura per bambini potesse aprirgli “orizzonti inaspettati, vastissimi”, a dispetto della visione piuttosto riduttiva che appunto la grande critica letteraria riservava in quegli anni alle opere per bambini e che aveva trovato la sua più rimarchevole espressione addirittura con Benedetto Croce,nella recensione, apparsa su La Critica, a Limiti e ragioni della letteratura infantile (Firenze, Barbera,1942) di Luigi Santucci.
Gec, “un libro per bambini che possono leggere anche i grandi”
Il ruolo fondamentale di D’Arzo nella storia della letteratura italiana per ragazzi è probabilmente ancora da approfondire e rinsaldare: dalle osservazioni che puntellano l’epistolario emerge una visione complessiva per quei tempi straordinaria, oggi invece del tutto imprescindibile per chi voglia scrivere e pubblicare per i più giovani. Sottolineiamo solo le considerazioni più importanti, tratte dalla lettera a Vallecchi del 30 maggio 1944, una sorta di sintetico manifesto della nuova letteratura giovanile italiana: la differenziazione dei lettori in base alla fascia d’età, quando lo scrittore insiste a chiamare il suo romanzo “libro per ragazzi” e non “per bambini”, rompendo l’errata percezione dell’infanzia come pubblico indistinto per il quale una storia vale l’altra, purché sia avventurosa, divertente e moraleggiante. E ancora, la necessità di rivolgere ai ragazzi una produzione di qualità, affrancandoli da
“libri brutti e sciatti e balbettanti” che D’Arzo vede proliferare in nome di una malintesa semplicità e facilità: “Qualcosa, forse,i ragazzi non capiranno: non certamente l’essenziale. L’allegoria, forse: ma l’allegoria l’ho fatta per i grandi: io sono del parere, infatti, che Gec dell’Avventura sia un libro per bambini che possono leggere anche i grandi, piuttosto che viceversa”.
D’Arzo, insomma, rivendica, tra i primi in Italia, una piena dignità letteraria anche per la produzione per l’infanzia, in cui lo stile, la fantasia, il coraggio della sperimentazione, la libertà di scelta di modelli, soggetti, trame osi sfidare stereotipi, banalità, paternalismi. Sempre nella stessa lettera, il richiamo a prodotti editoriali ben congegnati, in cui rivestano un ruolo fondamentale le illustrazioni, non più mero corredo al testo, ma parte integrante dei contenuti:
“io sono del parere che, in una prima lettura, il libro non sia più che un commento alle illustrazioni”.
Infine il coinvolgimento nella lettura di genitori e insegnanti, intuizione che è alla base di ogni moderna idea di promozione della lettura tra bambini e ragazzi. In Una storia così D’Arzo, con poche pennellate, delinea proprio l’idea chiusa e retrograda del rapporto tra bambini e lettura che ancora nell’avanzato dopoguerra gravava soprattutto sulla didattica scolastica. A scuola il professore Ezio Comparoni aveva provato a esercitare il ruolo di docente in modo innovativo, spesso scontrandosi con la dirigenza e proprio di quella opprimente esperienza diretta D’Arzo scrive nel primo capitolo del racconto:
“Ed ecco qui la sua idea [di Tobia Corcoran, dirigente del Premiato Collegio Minerva]: “Uno studente dai sei anni in avanti non può compiere azione più immorale, malvagia, spregevole, pericolosa, allarmante che leggere libri che non siano i tre libri di testo. E a sua volta un maestro dai vent’anni in avanti non può compiere azione più infamante, allarmante, pericolosa, spregevole, malvagia, immorale che far leggere libri che non siano i tre libri di testo”.
D’Arzo, invece, proprio come il maestro supplente Teddy Ted, sua trasfigurazione letteraria (doppio letterario del professor Comparoni è anche il maestro supplente Isaia Balcop in Penny Wirton e sua madre, frustrato dall’esperienza di un precariato annichilente) aspira a una vera e propria sprovincializzazione della letteratura italiana per ragazzi, attingendo a piene mani e in modo esplicito alla letteratura internazionale proprio per aggiornare radicalmente il repertorio dei modelli letterari. In Una storia così, quindi, troviamo citazioni di autori e testi: vi si animano i personaggi di Bourroghs, Kipling, Carroll, Dickens, Burnett, Swift, Defoe, Conan Doyle, Jack London, Mark Twain, ma anche quelli delle fiabe classiche e persino Topolino, che in quegli anni cominciava a diventare universalmente famoso dai fumetti e dai film della Disney. Additando questi autori e le loro opere, D’Arzo indicava una strada maestra per arrivare ai bambini e ai ragazzi: la fantasia, il libero fluire dell’immaginazione, il campo aperto dell’invenzione. Una posizione rodariana ante litteram e Comparoni, come si evince dalla lettera all’amico Canzio Dasioli del 27 febbraio 1943 era ben consapevole di aprire una strada sperimentale, del tutto nuova per l’Italia:
“Ti confesso che l’idea mi attirerebbe, non fosse altro che per il valore di esperimento, e per fare qualcosa – tentare, adesso esagero – di fare qualcosa che in Italia […] ancora non c’è. Non credi, infatti, che manchi (Pinocchio escluso) un libro per ragazzi che sia di poesia e di dignità. Anzi, negli ultimi anni questo genere è diventato addirittura nauseante”.
Nel vivo della storia
Il riferimento a Pinocchio non è casuale: i modelli a cui D’Arzo guarda per scrivere i suoi libri per ragazzi sono essenzialmente fuori dall’Italia, come detto, Barrie, ma soprattutto Stevenson, Conrad, Kipling, ma,tra i connazionali, Collodi rimane per lui quasi geneticamente determinante. Il sapore collodiano delle opere darziane per bambini emerge dalla commistione perfetta tra l’atmosfera rarefatta di un’ambientazione e una trama fantastiche con una lingua viva e fervida, aperta ad accogliere forme e costrutti del parlato, con l’effetto complessivo di un indiscutibile realismo magico. La lingua colta nella scoppiettante vitalità delle sue manifestazioni orali, del resto, era stata per Ezio Comparoni materia preminente d’interesse sin dai tempi degli studi universitari, come testimoniato dalla tesi di laurea in glottologia sul dialetto reggiano collinare. La lingua di D’Arzo è debitrice verso quella di Collodi soprattutto per quello che Ornella Castellani Polidori, nell’introduzione all’edizione critica di Pinocchio del1983, definisce il “tono medio”, parimenti distante dall’italiano letterario e da quello popolare: espressioni più auliche e toscanismi, con assaggi di parole anche difficili e tecnicismi (per esempio ne Il pinguino senza frac, ‘cinismo’, ‘patri lari’, ‘miope’, ‘presbite’) mescolati con interiezioni, intercalari e colloquialismi tipici del parlato familiare (per esempio, ancora dal Pinguino e da Penny Wirton, ‘di grazia’, ‘va là’, ‘tanto peggio per lui’, ‘s’intende’, ‘fin qui niente di strano, d’accordo’, ‘quel diavolaccio di Huclebig’, ‘quella povera vecchia gallina della Emily Spain’). E poi formule proverbiali, icastiche, idiomatiche (‘Penny è già al terzo sonno’; ‘questo è il rebus più turco che mi sia capitato di sentire in trenta anni’; ‘Quelle lì si bruciano e amen’). Come anche nei romanzi per adulti, troviamo appelli e allocuzioni dirette, specie nei prologhi (‘quella che segue, ragazzi e ragazze, è la storia …’; ‘capite?’; ‘aprite bene le orecchie’; ‘capirete anche voi’; ‘E in che modo lo avrete già immaginato da voi’) che abbattono le distanze con il pubblico e lo trascinano nel vivo della storia e del giudizio sulle vicende narrate. In Penny Wirton e sua madre il ricorso all’allocuzione diretta del prologo ha il tono brusco dell’estrema confidenza (“Se il nome vi riesce un po’ troppo difficile, ciascuno di voi può cambiarlo a piacere, e padronissimo di metterci il suo. La storia, per questo, non verrà a cambiare nemmeno di un soldo. E se uno di voi, letta la storia di Penny, chiude il libro e sbadiglia ed è convinto di aver perso il suo tempo, affar suo, e più amici di prima”). Degno di nota è il parlare figurato, pieno di metafore della saggezza popolare (‘Perdonate a una stupida e tutto il resto non vale un centesimo’; ‘un tono di mandorle e miele’; ‘un grammo di buono’; ‘qualcosa me lo diceva in qualche tana del cuore’) e paragoni espressivi, a volte poetici, a volte divertenti (‘e la luna, nascosta dietro un branco di nuvole, chiuse gli occhi anche lei’; ‘La paura non è più di un topo: picchia un piede per terra e non lo ritrovi più’; ‘L’Oste si afflosciò su di una panca né più né meno che un budino mal fatto’). Infine i dialoghi fitti e densi, che sembrano riprodurre a volte delle vere e proprie gag teatrali, segno di un legame profondo anche con la scrittura drammaturgica; scambi che occupano lo spazio narrativo diventato quinta teatrale in cui si muovono personaggi primari e secondari e che spesso abbondano di puntini di sospensione, con la funzione di chiamare in causa la complicità del lettore e la sua capacità di comprendere il non detto.
Ai margini del testo
Grande cura è riservata alla dimensione paratestuale; costante, in particolare, il ricorso ai titoli dei capitolia sommario, talora allusivi, come l’ultimo di Penny Wirton: ‘Capitolo ultimo. Dove tutto finisce. E comincia’, talora descrittivi, ma sempre velatamente pregni, come nel Pinguino senza frac: ‘Dove per la prima volta si parla di un frac. - Dove il Padre Pinguino e sua moglie non ne vorrebbero sentire parlare’.
Il Pinguino per i più piccoli, Penny Wirton per gli adolescenti
Dicevamo della volontà di differenziare il pubblico più giovane: e così Il Pinguino senza frac sembra chiaramente concepito per lettori più piccoli, con un linguaggio favolistico pieno di indeterminatezza di tempi e luoghi e persino schemi e formule ripetute, tipiche della scrittura per i bambini (‘babbo e mamma carissimi’). Penny Wirton e sua madre è invece un romanzo per adolescenti, certamente di formazione, con il percorso del giovane protagonista puntellato da mille traversie ma giunto a buon fine, simbolizzato proprio nel finale:
“E domani sarà lunedì. - Lunedì? - disse sua madre fissandolo. - Penny, ecco una decente parola. Una garbata parola, lunedì. Così parlava anche tuo padre ai suoi bei giorni. E per giunta è l’unica strada per arrivare a domenica”.
La storia è ambientata in quel Settecento protagonista anche del Buon Corsiero e studiato all’università di Bologna. I nomi di persona (Anna Holbey, i Catmor, Patty, Nathaniel Welcome, il Giudice Lowing) e i toponimi (la contea di Pictown, la locanda di Shorly, il crocicchio di Curley, il Crocicchio di Berry) sono inglesi. L’ambientazione sembra dunque puntuale e determinata - appunto un Settecento anglosassone - per quanto immaginaria ed è evidente l’eco delle letture preferite dello scrittore, da L’Isola del tesoro di Stevenson ai racconti di Kipling, e tuttavia il racconto appare pervaso da una sorta di distopia, alimentata in particolare da alcuni tratti: ovviamente la convivenza e la vicinanza nel racconto di un regno dei vivi e di un regno dei morti, ma anche la scelta di non nominare alcune figure chiave, come il Supplente, il Cieco, la Guardia di Notte, le Guardie del Giorno, il Cancelliere di Villa, il Procuratore Signifero, il Maestro Aulico, avvolte nel mistero di un’identità personale sfuggente. E ancora: i dialoghi stretti e intensi, ma sempre ambiguamente reticenti e proiettati con leggera e incisiva ironia oltre l’hic e nunc della vicenda narrata, perché il tono didascalico non abbia mai il sopravvento sul piacere del racconto.
“E in due parole ecco qui: ogni giorno s’impara più o meno qualcosa, e l’ultima è sempre la più matta di tutte. E poi c’è ancora un altro fatto più curioso che no: delle volte il bene è perfino meno peggio del male, e per giunta fa anche più ridere. Questo non è il mio ramo,si capisce, ma tutto sta a farci su l’abitudine”:
queste parole, fatte pronunciare, in una combinazione straniante, al furbo Cieco di Penny Wirton restituiscono la volontà di D’Arzo di lasciare che il suo giovane lettore/interlocutore sia libero di costruirsi un proprio immaginario relazionale, emotivo e persino morale a partire dalla sola forza propulsiva delle parole e delle storie.
Bibliografia
Le citazioni sono tratte da Silvio D’Arzo, Opere, a cura di S. Costanzi, E. Orlandini, A. Sebastiani, Parma, Monte Università Parma, 2003; e da Id., Lettere, a cura di A. Sebastiani, Parma, Monte UniversitàParma, 2004.