Da Qualesammarco, n. 2 del 1989
La "Cumpagnia" e il culto dell'Arcangelo
Il lavoro è interessantissimo ed è garantito dalla autorità culturale di G. B. Bronzini e dei suoi collaboratori, ma sia detto in tutta modestia, suscita alcune perplessità, pur stimolando approfondimenti e puntualizzazioni nell'offrirsi a considerazioni epistemiologiche sulla ricerca demologica (quanto meno sulla ricaduta in termini di conoscenza scientifica, che i risultati dell’indagine hanno sul lettore non addetto ai lavori).
E iniziamo dalla struttura del libro, che si apre con un saggio di G. B. Bronzini sulla origine del culto di San Michele nel suo legame con le tradizioni popolari, prosegue con una sintesi di M. Azzarone sulle iscrizioni votive dedicate al Santo, che testimoniano la devozione manifestatasi in occasione di calamità quali epidemie e terremoti, si immette nella rilevazione degli attuali pellegrinaggi con G. De Vita, il quale si sofferma sulla nostra “cumpagnia”, offrendo anche un copioso spaccato dei canti dei pellegrini e dei devoti, per poi lasciare alle immagini (circa 200 foto di cui l'80% riguarda S. Marco) il compito di una documentazione obiettiva e suggestiva.
Già questa struttura, se non si colgono le precisazioni, potrebbe far pensare alla “cumpagnia” di S. Marco quale esempio di mera evoluzione della tradizione dei pellegrinaggi al santuario di Monte Sant'Angelo. Chi vive nella comunità interessata, peró, avverte che così non è. Ricordi diretti, sia pure sfumati nell'infanzia, e racconti tramandati ricreano l'immagine dei “romei” non in linea di corrispondenza con la devastazione che il fenomeno ha subito, pur nella sopravvalutazione della inevitabile acculturazione portata da mass-media e consumismo. Forse, sia pure senza il conforto di documentazione ma per una intuizione di ipotesi, il pellegrinaggio dei sammarchesi a Monte Sant'Angelo costituisce un salto, una censura, una mutazione in termini di motivazioni, di modelli culturali e di comportamenti.
Intanto, bisogna definire se si tratta di vera e propria tradizione popolare ed in che misura la “cumpagnia” di S. Marco è manifestazione folklorica in una accezione corretta del termine. Certo, quanto avviene a Campolato ha poco di folklorico in quanto pittoresco: ma, non sono pregiudizi moralistici ed estetizzanti che devono guidare l'interpretazione. Però, un dato è certo: in questa manifestazione non residuano istanze culturali delle classi subalterne. E questo, tanto per come è organizzata la “cumpagnia”, per la sua composizione, quando per l’espressione di contenuti.
In altri termini, il nucleo autentico e lineare del bisogno del pellegrinaggio quale forma che rassicura, in quanto omaggio di devozione, è stato fagocitato da bisogni senz'altro profondi, che sempre più si avvicinano al modello dell'usa e getta.
In tutto questo, indubbiamente vi è abbondante materiale di studio per le scienze umane, dall'antropologia culturale alla sociologia, ma sicuramente non siamo in presenza di una struttura culturale definita di una comunità.
Resta il fatto, al di là di queste succinte considerazioni, che il volume propone un avvenimento ed un aspetto della nostra San Marco che merita attenzione, anche in relazione ad altre manifestazioni religiose e al proliferare di festeggiamenti che adombrano tradizioni legate a fiere, a cicli stagionali, alla struttura ecclesiastica e che veicolavano l’organizzazione e la coscienza del nostro paese in quanto entità identificabile.
Giuseppe Soccio
Andrea Camilleri, La banda Sacco, Sellerio 2013
[...]
X Il Prefetto di ferro Intanto, nel 1924 e arrivato ’n Sicilia il Prefetto Cesare Mori con l’ordini priciso da parti di Benito Mussolini, dal 1922 capo del Governo, di sterminari la mafia. E allura abbisogna farisi almeno du dimanne: pirchì Mussolini aviva ddiciso di cummattiri la mafia? E chi era Cesare Mori, che i giornali acchiameranno “il Prefetto di ferro”? Mussolini era stato portato a fari la feroci campagna antimafia che fici per du motivi: uno pirsonale e uno per questioni di potiri economico-politico. Non era stata certo la volontà d’abolire un sistema che faciva gravissimo danno al tessuto sociali della Sicilia a farlo cataminare. Politicamente, la maggioranza della mafia, quanno il fascismo pigliò il potiri, s’attrovo ’nzemmula coi liberali di V. E. Orlando, il quali, in un discorso del 1924, al Teatro Massimo di Palermo, era arrivato a proclamari fieramenti “maffioso mi dichiaro io!”. Una minoranza inveci si misi col fascismo. Un oculista di granni fama, Alfredo Cucco, ex nazionalista che si diciva fossi appattato con la mafia, arrivò, quanno addivintò deputato, a fari parte del ristrettissimo Direttorio del Partito Nazionale Fascista. Nel so viaggio in Sicilia capitato nel 1924, Mussolini vinni pubblicamenti malo trattato da un potenti capomafia, Ciccio Cuccia, “ineffabile”, come lo definì Mussolini stisso, sinnaco di Piana dei Greci, senza che le autorità prisenti avissiro il coraggio d’arribbillarisi. Vali la pena di cuntari l’episodio. Doppo la visita a Palermo, a Mussolini gli vinni la gana di visitari ’na poco di centri della provincia, tra i quali Piana dei Greci (oggi Piana degli Albanesi). Il Prefetto Cesare Mori, sapenno che a Piana i viddrani avivano ’na forti tradizione socialista e che per di più il paisi era governato da un mafioso, fici scortare a Mussolini da ’na vintina d’agenti motociclisti. Quanno Ciccio Cuccia, scinnuto in chiazza per arriciviri il capo del Governo, lo vitti attorniato da ’na gran quantità di poliziotti, gli dissi a voci avuta in modo che lo sintivano macari i citatini che gremivano la chiazza: “Cillenza, e che bisogno c’era di tanti sbirri? Voscenza accanto a mia non ha da temere niente perché qua cumanno io”. E quindi, rivolto alla folla: “Nisciuno tocchi un capello a Mussolini, mio amico e migliori omo del mondo”. Mussolini addivintò virdi dalla raggia. Mentri faciva quel viaggio egli accapì inoltre quello che i mafiosi volivano da lui in cambio di un appoggio totale: “lasciare”, sono ancora parole so, “il potere a poche centinaia di malviventi”. E addotò il Prefetto Cesare Mori di pieni poteri. Mori, tra l’autro, accanosciva beni la Sicilia. C’era già stato nell’immediato doppoguerra per reprimere i moti nati dalla sdillusioni dei viddrani ai quali, per animarne lo spirito patriottico mentri che c’era il conflitto, era stata fatta l’ennesima promissa non mantenuta di terre da coltivare. Nominato appresso Prefetto di Bologna, era stato fatto trasfiriri dai fascisti pirchì ne aviva mannato a decine in galera doppo i gravi fatti di sangue successi a palazzo d’Accursio. ’Nzumma, il Prefetto era uno che non taliava ’n facci a nisciuno. Era un funzionario tanto onesto quanto durissimo. E Mussolini lo ripiscò spidennolo in Sicilia con un potiri immenso. Mori cummattì la mafia adoperanno gli stissi ’ntifici sistemi della mafia e avenno a so totali disposizioni carrabbineri, pubblica sicurezza, corpi speciali che dovivano arrispunniri sulamenti a lui e persino reparti dell’esercito. “Sotto il pretesto di combattere la mafia, fu posto il bando ai principi generali del diritto, alle garanzie costituzionali dello Statuto albertino, alla osservanza dell’habeas corpus dei cittadini, alle salvaguardie processuali penali, alla corretta applicazione della stessa legge di pubblica sicurezza. Interi corpi dello Stato, nel presupposto di far valere la legge, non ebbero scrupolo a operare fuori della legge e anche contro la legge [...]. Si procedeva alla esecuzione dei mandati di cattura organizzando vere e proprie razzie [...]. In qualche caso, si giunse anche ad assediare in blocco un paese (esempio classico: Gangi sulle Madonie) con impiego oltre che della polizia locale anche dell’esercito. Generalmente poi, se non si mettevano le mani sui presunti mafiosi, si arrestavano i familiari, il padre, il fratello, talvolta la madre o la moglie, per costringere il latitante o i latitanti a costituirsi. [...] non fu raro il barbaro e illegale ricorso alla tortura mediante la “cassetta” o altri strumenti di raffinata sadica crudeltà” (F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. II, Palermo 1985). Una dittatura può permittirisi questo e autro. Mori ottenni la testa d’importanti personaggi del fascismo siciliano come appunto Cucco o il generale De Giorgi e manno ’n carzaro capimafia storici come Vito Cascio Ferro, Calogero Vizzini, Genco Russo. Con loro, centinara di mafiosi vanno a stipari le celle. Apparentemente, il fascismo abbattì la mafia imponenno non la liggi, ma la liggi del terrore. Ma com’è che, appena caduto il fascismo, la mafia tornò a essiri cchiù forti e potenti di prima? Scrive Denis Mack Smith (Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari 1970): “Se la mafia fosse stata un’associazione, invece che un modo di vivere, forse Mori avrebbe potuto sopprimerla per un certo periodo, ma in realtà le sue complesse cause sociali ed economiche non potevano essere rimosse in così breve tempo o soltanto con questi metodi. Forse in certi ambienti c’era solo il desiderio di ottenere un’apparente vittoria di prestigio; e Vizzini e Russo furono in seguito rilasciati per mancanza di prove”. La classica mancanza di provi sempri opportunamenti adottata dai judici sia con la democrazia che col fascismo. Inoltre il Prefetto aviva accomenzato a smurritiare la nobiltà siciliana, proprietaria di quell’immenso latifondo indovi la mafia nasciva e pasciva. Il Prefetto si era fatto pirsuaso che tra i granni propietari terrieri e i loro camperi mafiosi c’era un accordo. Ma appena principiò a cataminarisi di questo passo, vinni richiamato a Roma e la sua carrera finì. E lo stesso Alfredo Cucco tornò a farisi nominari supra i giornali verso l’anni ’40 soprattutto come autori di un libro indove si sostiniva che il coito interrotto faciva addivintari orbi. Ad ogni modo, per i primi dù anni, Mori s’interessò picca e nenti della mafia rafadalisa. Forsi pirchì sapiva che a quella c’era già qualichiduno che ci pinsava.
X Il Prefetto di ferro Intanto, nel 1924 e arrivato ’n Sicilia il Prefetto Cesare Mori con l’ordini priciso da parti di Benito Mussolini, dal 1922 capo del Governo, di sterminari la mafia. E allura abbisogna farisi almeno du dimanne: pirchì Mussolini aviva ddiciso di cummattiri la mafia? E chi era Cesare Mori, che i giornali acchiameranno “il Prefetto di ferro”? Mussolini era stato portato a fari la feroci campagna antimafia che fici per du motivi: uno pirsonale e uno per questioni di potiri economico-politico. Non era stata certo la volontà d’abolire un sistema che faciva gravissimo danno al tessuto sociali della Sicilia a farlo cataminare. Politicamente, la maggioranza della mafia, quanno il fascismo pigliò il potiri, s’attrovo ’nzemmula coi liberali di V. E. Orlando, il quali, in un discorso del 1924, al Teatro Massimo di Palermo, era arrivato a proclamari fieramenti “maffioso mi dichiaro io!”. Una minoranza inveci si misi col fascismo. Un oculista di granni fama, Alfredo Cucco, ex nazionalista che si diciva fossi appattato con la mafia, arrivò, quanno addivintò deputato, a fari parte del ristrettissimo Direttorio del Partito Nazionale Fascista. Nel so viaggio in Sicilia capitato nel 1924, Mussolini vinni pubblicamenti malo trattato da un potenti capomafia, Ciccio Cuccia, “ineffabile”, come lo definì Mussolini stisso, sinnaco di Piana dei Greci, senza che le autorità prisenti avissiro il coraggio d’arribbillarisi. Vali la pena di cuntari l’episodio. Doppo la visita a Palermo, a Mussolini gli vinni la gana di visitari ’na poco di centri della provincia, tra i quali Piana dei Greci (oggi Piana degli Albanesi). Il Prefetto Cesare Mori, sapenno che a Piana i viddrani avivano ’na forti tradizione socialista e che per di più il paisi era governato da un mafioso, fici scortare a Mussolini da ’na vintina d’agenti motociclisti. Quanno Ciccio Cuccia, scinnuto in chiazza per arriciviri il capo del Governo, lo vitti attorniato da ’na gran quantità di poliziotti, gli dissi a voci avuta in modo che lo sintivano macari i citatini che gremivano la chiazza: “Cillenza, e che bisogno c’era di tanti sbirri? Voscenza accanto a mia non ha da temere niente perché qua cumanno io”. E quindi, rivolto alla folla: “Nisciuno tocchi un capello a Mussolini, mio amico e migliori omo del mondo”. Mussolini addivintò virdi dalla raggia. Mentri faciva quel viaggio egli accapì inoltre quello che i mafiosi volivano da lui in cambio di un appoggio totale: “lasciare”, sono ancora parole so, “il potere a poche centinaia di malviventi”. E addotò il Prefetto Cesare Mori di pieni poteri. Mori, tra l’autro, accanosciva beni la Sicilia. C’era già stato nell’immediato doppoguerra per reprimere i moti nati dalla sdillusioni dei viddrani ai quali, per animarne lo spirito patriottico mentri che c’era il conflitto, era stata fatta l’ennesima promissa non mantenuta di terre da coltivare. Nominato appresso Prefetto di Bologna, era stato fatto trasfiriri dai fascisti pirchì ne aviva mannato a decine in galera doppo i gravi fatti di sangue successi a palazzo d’Accursio. ’Nzumma, il Prefetto era uno che non taliava ’n facci a nisciuno. Era un funzionario tanto onesto quanto durissimo. E Mussolini lo ripiscò spidennolo in Sicilia con un potiri immenso. Mori cummattì la mafia adoperanno gli stissi ’ntifici sistemi della mafia e avenno a so totali disposizioni carrabbineri, pubblica sicurezza, corpi speciali che dovivano arrispunniri sulamenti a lui e persino reparti dell’esercito. “Sotto il pretesto di combattere la mafia, fu posto il bando ai principi generali del diritto, alle garanzie costituzionali dello Statuto albertino, alla osservanza dell’habeas corpus dei cittadini, alle salvaguardie processuali penali, alla corretta applicazione della stessa legge di pubblica sicurezza. Interi corpi dello Stato, nel presupposto di far valere la legge, non ebbero scrupolo a operare fuori della legge e anche contro la legge [...]. Si procedeva alla esecuzione dei mandati di cattura organizzando vere e proprie razzie [...]. In qualche caso, si giunse anche ad assediare in blocco un paese (esempio classico: Gangi sulle Madonie) con impiego oltre che della polizia locale anche dell’esercito. Generalmente poi, se non si mettevano le mani sui presunti mafiosi, si arrestavano i familiari, il padre, il fratello, talvolta la madre o la moglie, per costringere il latitante o i latitanti a costituirsi. [...] non fu raro il barbaro e illegale ricorso alla tortura mediante la “cassetta” o altri strumenti di raffinata sadica crudeltà” (F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. II, Palermo 1985). Una dittatura può permittirisi questo e autro. Mori ottenni la testa d’importanti personaggi del fascismo siciliano come appunto Cucco o il generale De Giorgi e manno ’n carzaro capimafia storici come Vito Cascio Ferro, Calogero Vizzini, Genco Russo. Con loro, centinara di mafiosi vanno a stipari le celle. Apparentemente, il fascismo abbattì la mafia imponenno non la liggi, ma la liggi del terrore. Ma com’è che, appena caduto il fascismo, la mafia tornò a essiri cchiù forti e potenti di prima? Scrive Denis Mack Smith (Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari 1970): “Se la mafia fosse stata un’associazione, invece che un modo di vivere, forse Mori avrebbe potuto sopprimerla per un certo periodo, ma in realtà le sue complesse cause sociali ed economiche non potevano essere rimosse in così breve tempo o soltanto con questi metodi. Forse in certi ambienti c’era solo il desiderio di ottenere un’apparente vittoria di prestigio; e Vizzini e Russo furono in seguito rilasciati per mancanza di prove”. La classica mancanza di provi sempri opportunamenti adottata dai judici sia con la democrazia che col fascismo. Inoltre il Prefetto aviva accomenzato a smurritiare la nobiltà siciliana, proprietaria di quell’immenso latifondo indovi la mafia nasciva e pasciva. Il Prefetto si era fatto pirsuaso che tra i granni propietari terrieri e i loro camperi mafiosi c’era un accordo. Ma appena principiò a cataminarisi di questo passo, vinni richiamato a Roma e la sua carrera finì. E lo stesso Alfredo Cucco tornò a farisi nominari supra i giornali verso l’anni ’40 soprattutto come autori di un libro indove si sostiniva che il coito interrotto faciva addivintari orbi. Ad ogni modo, per i primi dù anni, Mori s’interessò picca e nenti della mafia rafadalisa. Forsi pirchì sapiva che a quella c’era già qualichiduno che ci pinsava.