Donatella Orecchia, Autobiografie umoristiche d’attore: Ettore Petrolini, Università Tor Vergata, S. D.
Se, infatti, in copertina campeggia una caricatura di Ettore Petrolini, con corona e scettro come il re delle risa e con i salamini della sua macchietta più famosa e, per ribadire il concetto, nella terza pagina del libro è stampato un bel ritratto fotografico in primo piano di Petrolini - giacca, camicia bianca, elegantissimo e serissimo - e se il titolo del volume rimanda esplicitamente all’attore quale soggetto del racconto, l’elenco degli autori sul frontespizio è lungo. Disposti in una lista in ordine di apparizione nel testo, leggiamo: Ugo Ojetti, Fernando Paolieri, Lucio D'Ambra, Massimo Bontempelli, Marco Ramperti, Paolo Buzzi, Filippo Tommaso Marinetti, Carlo Levi, Eugenio Settimelli, Orio Vergani, Luciano Folgore, A. Orsi, Bruno Corra, Silvio d’Amico, Paolo Mazzuccato, Gordon Craig, Pietro Pancrazi, Mario Dessy; solamente al fondo compare il nome di Ettore Petrolini. Uno fra gli altri. L’ultimo fra i tanti. Eppure poi, nel primo capitolo dal titolo Non ti à piaciato?, Petrolini si autodenuncia l’autore effettivo del libro (Prevedo già un’accusa gravissima. Quella di avere scritto un secondo libro dopo il primo - Ti ha piaciato? - che risultò il libro più stupido, più strafalcionesco e più venduto di tutta l’era volgare).
Ci troviamo già qui di fronte ai tratti caratterizzanti di una scrittura che gioca sottilmente con l’antifrasi (Abbasso Petrolini!), che ha come oggetto esplicito quel volto vero (del ritratto) e il suo rapporto con la sua deformazione artistica in parodia umoristica (Petrolini in caricatura di Salamini) e che accenna a una questione di grande rilevanza mettendo in campo un’autorialità ambigua e plurima.
Il testo è nettamente suddiviso in una parte introduttiva, un racconto autobiografico propriamente detto (relativo agli esordi dell’attore), una sezione di raccolta di cronache sui primi anni della sua attività artistica a firma varia (gli autori sopra indicati) e una breve conclusione in cui Petrolini riprende la parola in prima persona.
La prima sezione si apre con l’autolegittimazione alla scrittura, che è innanzitutto l’autolegittimazione dell’attore comico a prendere parola per scritto, prima che a scrivere un’autobiografia e garantirne la veridicità: l’autolegittimazione di un rappresentante della cultura popolare e di un genere popolare, orale, a essere autore e confrontarsi in modo critico con la cultura borghese, scritta. Da questo punto di vista, il soggetto (attore comico popolare di inizio Novecento) ha problematiche analoghe a quelle messe in luce da Linda Anderson a proposito di soggettività altre rispetto a quelle che la cultura ottocentesca era solita ritenere degne di esprimere per scritto la propria vita. Nell’affrontare la questione, tuttavia, Petrolini percorre - rapidissimamente e paradossalmente - un doppio cammino: una via, cioè, e contemporaneamente, il suo capovolgimento. Da un lato, la via dell’affermazione artistica presso la cultura borghese del tempo, riscattando così se stesso e la propria arte dalla condizione d’inferiorità alla quale il comico e quello del teatro di Varietà in particolare sono costretti (scrive un libro, scrive il racconto della sua vita, raccoglie le critiche del mondo intellettuale sulla sua arte); contemporaneamente, la via del capovolgimento parodico e della desublimazione radicale dei valori di quella cultura che lo sta accogliendo (scrive sotto il segno dell’idiota ciclopico Salamini, e con ciò si fa beffe del Soggetto, psicologicamente e linguisticamente definito).
Affermata la propria legittimità a scrivere, prima di iniziare il racconto vero e proprio, Petrolini inserisce alcune pagine di polemica contro i suoi imitatori nelle quali, sebbene non esplicitamente, si coglie la vera ragione che lo ha spinto a pubblicare: affermare il suo primato come comico grottesco e parodista (29), contro tutti gli imitatori e plagiatori (30). Pertanto, se il racconto vero e proprio della sua vita artistica parte ricordando gli anni che precedono il suo ingresso nel mondo del Varietà, fra piccoli teatrini di provincia e in compagnie d’infimo livello, non è solo per un’adesione alla struttura classica delle scritture autobiografiche teatrali ottocentesche, ma anche e soprattutto per testimoniare la verità della propria primazia artistica e il suo radicarsi in un periodo di formazione ai più sconosciuto ma fondamentale: prima dell’arte, prima di essere Petrolini dei Salamini, Petrolini cos’era? Ci sono i viaggi (i lunghi viaggi a piedi, nei treni di terza classe, in nave), la fame, i contratti rifiutati, i litigi con i compagni e il pubblico inferocito; ci sono precisi e dettagliati i nomi delle città, dei teatri, degli impresari delle piccole compagnie popolari di giro: “una vita selvaggia, allegra e guitta, e un’educazione a tutti i trucchi e tutti i funambolismi, dinanzi a un pubblico, che mangiava i lupini rinsaviti nel sale e tirava le bucce in palcoscenico”.
Sono gli anni di apprendistato che insegnano a Petrolini qualcosa di fondamentale: a osservare la vita, tutta, ad accumulare dentro di sé, e proprio nell’esperienza della miseria, un tale stock di comicità che da allora in avanti potrà cogliere al volo la verità del mondo, proprio nel suo lato grottesco e imbecille. La narrazione, tutta costruita con i tempi del passato remoto e dell’imperfetto quali tempi storici principali, è dunque innanzitutto il racconto della formazione di uno sguardo e di una sensibilità artistica, prima ancora che questa si faccia gesto compiuto.
Terminato il racconto degli anni di formazione, si chiude la prima parte del libro e l’attore lascia la parola agli altri autori. La lunga parte centrale di Abbasso Petrolini! è occupata, infatti, dalla raccolta dei più interessanti interventi di critici a lui contemporanei usciti sui quotidiani o in rivista fra il 1910 e il 1922 (ossia la stagione del Teatro di Varietà). Gli autori sono quelli indicati in copertina. Sembra che Petrolini ci ricordi, fra le righe, che l’autobiografia, intesa come racconto della vita teatrale, è in qualche misura collettiva, polifonica, irriducibile a una sola voce, quando anche il soggetto sia unico: è una costruzione che si compone attraverso l’espressione di più punti di vista, quelli provenienti dal palco e quelli della platea. Così come è il teatro sempre, ma in particolare il Varietà, arte dialogica e polifonica per eccellenza.
Tutto ciò mette in campo necessariamente anche un altro aspetto, al quale possiamo solo accennare: il rapporto fra celebrazione di sé, divismo e autobiografia. Questa scrittura di Petrolini va infatti certamente anche nella direzione di un’autocelebrazione; eppure è un’autocelebrazione molto particolare, molto lontana dal divismo che si sta affermando fra gli anni Venti e Trenta del Novecento : nessun riferimento alla vita privata, nessuna strategia per la costruzione di una personalità extra-artistica che valga come sostituto in una nuova forma di culto. Al contrario, il continuo richiamo alla dialettica palco e platea, teatro e storia, arte e critica, che è un modo per tenere radicato entro il conflitto dei punti di vista e della storia delle idee quella personalità che invece la logica propria del meccanismo divistico vorrebbe rendere assoluta, astratta dalla storia, autonoma persino dall’aspetto artistico, insomma mitica.
Abbasso Petrolini! può essere letto dunque come un autoritratto anti-mitico, in cui la costruzione polivocale complessiva (che comprende anche l’antologia della critica) è il risultato di una consapevole scelta di moltiplicazione dei punti di vista e dei linguaggi della narrazione: molti autori e un soggetto che si moltiplica nelle tante immagini che i racconti propongono, da molti punti di vista, e la cui sintesi, precaria e paradossale, è Salamini che ritorna in chiusura a siglare il tutto. [...]
27 Silvio d’Amico interverrà anche su Abbasso Petrolini ! con parole che evidenziano tutta la lontananza di sensibilità culturale del critico da Petrolini, esponente di un mondo e una cultura: “il nostro Ettore non s’è contentato di riprodurre i giudizi pronunciati da critici di tutti i calibri sul conto suo; ma s’è messo a discutere, sul serio, della sua arte, e del suo significato, e dei suoi imitatori, eccetera; con un piglio tale che, a un certo punto ci ha preso il terrore di trovare anche qui dentro il ‘problema centrale’”: Il trovarobe [Silvio D’Amico], Petrolini esagera, in L’Idea nazionale, 13 gennaio 1923.
29 Già nel 1914 Petrolini aveva scritto al direttore del Cafè Chantant, una delle riviste più importanti nel settore: “Cinque anni or sono, quando io mi son voluto formare una personalità esclusivamente mia vidi ch’era necessario uscire dal campo della macchietta e del tipo satirico, campo in cui solamente Nicola Maldacea e Peppino Villani tenevano lo scettro. Tu ricordi, io ho importato la parodia, io ho abolito le definizioni di ‘comico nel suo repertorio’ oppure ‘comico macchiettista’ eccetera, e comparvero - per me - i primi aggettivi di parodista o di comico grottesco e di originale fantastico bizzarro e via di seguito ! […] La dinastia cominciò in America, dove per ben due anni non mi chiamarono che Sua Maestà Petrolini I. E non si accorgevano che mentre mi elevavano a monarca, io rappresentavo invece l’anarchia nel Varietà: E. Petrolini, A Francesco Razzi, Biblioteca Burcardo di Roma, Fondo Petrolini, Autografi e Carteggi, Coll. AUT-PETR-04-B01-02, poi in Ettore Petrolini, Petrolineide, Cafè Chantant, 20 luglio, 1914, p. 1.
30 Non a caso segue un lungo paragrafo dal titolo I miei imitatori (pp. 19-25) in cui Petrolini ribadisce il proprio primato e nomina gli attori che lo avrebbero imitato (o meglio plagiato). Ricorda Riccioli, Molinari, Spadaro, Catoni, Corradi, Lubrani. Quel che sottolinea con maggior forza non è tanto l’imitazione (che appartiene al genere del Varietà in cui l’imitatore è un ruolo previsto), quanto il non denunciare apertamente la cosa e soprattutto non comprendere nulla delle ragioni che motivano le sue scelte formali e stilistiche.
Scrive lo storico sammarchese Antonio Guida :
Qui da noi [a San Marco in Lamis, ndr] l’edilizia non ha avuto e non ha rispetto per l’antico. Il restauro conservativo è un’operazione tecnica obsoleta che non ha ragione d’essere finanche per il centro storico, per le chiese, per le edicole votive. Con facilità si staccano e si portano via i portali barocchi; si chiudono col cemento armato le cripte; s’abbattono i 'mugnali'; si smontano 'puteali'; si sotterrano con materiale idraulico consolidante le sepolture rinvenute per caso nel corso di scavi di fondazioni. Cosicché a San Marco in Lamis solamente poche maltrattate testimonianze ci parlano del passato; tant’altre sono state distrutte, murate, rimosse, portate fuori dall’originale contesto.
Qui da noi [a San Marco in Lamis, ndr] l’edilizia non ha avuto e non ha rispetto per l’antico. Il restauro conservativo è un’operazione tecnica obsoleta che non ha ragione d’essere finanche per il centro storico, per le chiese, per le edicole votive. Con facilità si staccano e si portano via i portali barocchi; si chiudono col cemento armato le cripte; s’abbattono i 'mugnali'; si smontano 'puteali'; si sotterrano con materiale idraulico consolidante le sepolture rinvenute per caso nel corso di scavi di fondazioni. Cosicché a San Marco in Lamis solamente poche maltrattate testimonianze ci parlano del passato; tant’altre sono state distrutte, murate, rimosse, portate fuori dall’originale contesto.
Abbasso Petrolini!
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