I brani che seguono sono stati scovati nell'edizione digitale della rivista 'La Capitanata' del 1982 e 1983. Ho deciso di renderli pubblici perché ho pensato che potevano essere benissimo il testo di una sceneggiatura cinematografica. Un vecchio emigrato ritorna al suo paese e, prendendo lo spunto da due pubblicazioni, lo descrive e ricorda... Sono poche le notizie che ho raccolto su questo autore sammarchese. L'autore degli scritti si chiama Vittorio De Filippis, che non è uno scrittore di professione anche se scrive bene. E' nato a S. Marco in Lamis agli inizi del '900 ed è morto a Varese verso la metà degli anni '80 del '900. E' stato Presidente dell'Ordine dei Medici di Varese. Ho arricchito i testi utilizzando il linguaggio dell'ipertesto multimediale. |
Il torrente Jano nella storia di S. Marco in Lamis
(appunti etimologici)
L’età avanzata mi rappresenta con urgenza il bisogno dello spirito di ordinare ricordi d’infanzia, meditazioni dell’età matura e ruminazioni tardive su quello che fu il corso di un torrente, oramai ridotto a tombone fognario, il quale nei tempi determinò, a mio parere, la storia di San Marco e del suo insediamento umano, sempre servendolo con immobile e fluente presenza.
I giovani ed anche quelli in età matura, non vecchi, conoscono un tombone, conobbero e forse ricordano un 'canalone', non ricordano più che quel canalone ebbe per secoli (duemila anni o più) il nome di torrente Jano, Iana secondo Tommaso Nardella.
A quel torrente, che il nome caratterizzò e definì, ritengo legata la varia fortuna di S. Marco, da palude a centro fiorente di commerci e di arti e mestieri, a moderno borgo montano quale sta diventando.
Non so se porto vasi a Samo o nottole ad Atene; ma le cose, che dirò, non le riferisco per averle sentite dire prime.
La folgorante illuminazione sul nome del torrente, e sul suo significato, la ebbi tornando a S. Marco, dopo molti anni di lontananza, in una mattina di estate della mia età matura, vedendo il massiccio del Gargano quale mi appariva, avvicinandomi ad esso da San Severo.
Chi faccia quella strada vede il fronte compatto dell’acrocoro garganico scendere a picco sulla pianura al suo sud, e torreggiare curvando verso ovest. In questo fronte compatto una ampia fessura si addentra nella montagna da ovest - sud - ovest, e verso quella fessura vi conduce la strada che seguite, per andare da S. Severo a S. Marco. Questa è l’unica apertura del Gargano verso il resto del mondo a sud, unica via naturale di traffico e di accesso rapido.
Per gli insediamenti umani la cosa è diversa, sorgendo tali insediamenti lentamente negli anni, influenzati da condizioni ambientali e sociali varie; mentre non è sempre determinante per essi la ubicazione lungo le strade. Indifferente quindi, per gli insediamenti, raggiungere il cuore del Gargano dal nord, ove la piana di Lesina e le pieghe della montagna, ormai addomesticata, discendono al mare variamente accessibili e più o meno agevoli. Ma nei tempi antichi per chi, dalla pianura, avesse voluto raggiungere rapidamente il cuore del Gargano, senza sobbarcarsi a quattro o cinque o più giorni di periplo del monte, l’unica apertura era proprio quella: il letto del torrente Jano, che conduce dalla pianura Dauna alla piccola valle di S. Marco e, attraversatala, seguendo lo Starale e costeggiando la base conica del monte Celano, porta a S. Giovanni Rotondo, e da S. Giovanni si irradia in tutti i sensi nel Gargano.
Il nome Jano ha un evidente suono latino. E non è meraviglia se si pensa che molte parole del dialetto di S. Marco, del più profondo dialetto, quello ormai dimenticato dai più, sono latine. Il “casciu” (difficile la grafia di molti suoni, 'iu' semimuta), più che da cacio deriva da caseum; sartania - parola latina non corrotta - è la padella; chiaione il lenzuolo, e così via. Jano, dunque è nome che deriva da quello latino, ed il suo significato è lampante per chi osservi il fronte della montagna dalla strada di S. Severo: quella è la porta, la JANUA del Gargano. Jano dunque è il torrente che scorre nella “porta”, o una corruzione del nome stesso di Janua; porta esso stesso.
I Romani le diedero quel nome, come era loro consuetudine. Esempio più illustre è Genova, Janua, la porta che dal Tirreno e dalla Via Aurelia apre alla opima pianura padana attraverso la valle del Polcevera, sfociante a mare come una porta, Janua, Genova.
Posto questo primo punto, i corollari sono numerosi e rigorosamente conseguenti.
Procediamo dalla pianura verso il cuore del Gargano.
Oggi una comoda strada conduce da S. Marco a S. Severo attraverso curve larghe ed un tracciato che riduce il dislivello ad una costante superabile, per un’auto, in terza e forse quarta marcia.
Seguirò la strada, allora, nei ricordi della mia infanzia, all’inizio del secolo, quando il viaggio da e per San Severo era una avventura che durava quattro o cinque ore polverose, sballottati in una corriera che in quattro posti ammucchiava almeno sei viaggiatori, trainata da tre cavallucci stanchi; oppure, se si voleva essere più liberi, si noleggiava uno char-à-bancs con una pariglia di cavalli. Era lo sciarabà un carretto di forma uguale, ma un po’ più piccolo e leggero del traino, carro da carico, e con balestre ammortizzatori ed era colorato di grigio, talora coperto con un tendone. (A proposito, nella nomenclatura dialettale dei carri troviamo i francesi: sciarabà, traino; forse che prima non vi erano carri su ruote?).
Saliamo da S. Severo a S. Marco con lo char-à-bancs.
Approssimandoci al monte, e già nel seno dell’apertura, la strada saliva con accettabile pendenza e non si vedeva traccia del torrente, traccia cancellata da anni, forse da misurare in tempi geologici. Ad un certo punto, arrivati a Stignano, il paesaggio cambiava bruscamente. Sotto il convento di Stignano il letto del torrente compariva, e lo si attraversava su uno stretto ponte raccordato ad angolo retto con il percorso della 'via nova' (erano 'vie nove' questa e quella che, arrampicandosi sul fianco delle colline a sud del paese, congiungeva S. Marco a S. Giovanni, con diramazioni per Rignano e per S. Matteo. La strada recente, che oggi, con altro tracciato, congiunge San Marco a S. Giovanni e a Foggia è 'via nuova'? Vie nuove, quelle, perché? Forse perché, dopo centinaia di anni e forse millenni, abbandonavano i tracciati originari della 'Janua' e dello Starale; oppure vie nove perché pavimentate in macadam e non più sterrate?).
Subito dopo lo stretto ponticello, la strada maestra si impennava con tre tornanti ripidi, e la quota saliva dalla torrida ed afosa pianura alla più fresca aria di collina. Il conducente scendeva da cassetta e superava a piedi i tornanti, per alleggerire il carico ed i viaggiatori, se appena giovani, venivano invitati a fare altrettanto. Si riprendeva, al colmo, la strada, attraverso un sentiero che si arrampicava tra alberi radi e rocce sulle quali comparivano i primi muschi, in un terreno odoroso di nepitella. D’estate, il coro delle cicale dava un leggero stordimento al viandante, dando corpo al silenzio della valle divenuta improvvisamente stretta; silenzio sottolineato dallo zoccolio non molto lontano dei cavalli e dal loro soffiare. E si comprendeva l’etimologia di Stignano: ostium januae; evidente bocca della porta, strettoia più stretta di un comune serravalle; bocca od apertura della porta che ti immetteva senza transizione da una larga petraia assolata mista a coltivo, in una stretta buia valle con pareti alte e ripide incombenti; al fondo un tracciato torrentizio petroso, divenuto rapidamente basso rispetto alla 'via nova' la quale si aggrappava alla falda della parete valliva di destra (seguendo il corso del torrente verso la sua foce carsica; è la parete prospiciente a sud della spaccatura da est ad ovest della Janua).
A Stignano, ostium januae, doveva fiorire un centro di traffici. Mio padre, nella sua gioventù, fu inviato a Stignano a ricostituirsi dopo una malattia. Qui egli trovò alcune monete certamente romane, ed altre che ritenne greche ed anche fenicie. Purtroppo ho veduto quelle monete da bambino e poi non ne ho saputo più niente. Poiché non furono cedute, desumo che andarono perse. Ho ancora, invece, un altro reperto: una magnifica pietra nero-verdastra, delle dimensioni di circa cm. 7 x 4 x 3 a forma di accetta, meravigliosamente lavorata, liscia e levigata sia nella rotondità del cozzo acuto che nel filo del taglio. Pietra che non so definire, né so a chi dover dare, verosimilmente da non interpretare come uno strumento dell’età della pietra (che era lavorata col metodo della scheggiatura); ma di epoca e civiltà assai più recenti.
In base a questi reperti, sui quali purtroppo non si può fare più luce, e più ancora alla presenza in luogo di un convento (il convento, nei pressi, era luogo di sosta, riposo e soccorso ai viandanti), non è eccessivo immaginare in questo luogo un punto di incontro, forse di sosta e ristoro, forse di scambio o di acquisto merci, con passare di moneta da una ad altra mano; e di parecchia moneta, se ne poteva perdere per la terra. Ma, noti [Presente nel testo originale in .pdf, dal senso incomprensibile, ndr] Volendo costruire eccessivamente sulla fantasia, riprendiamo un viaggio, fatto agli inizi del 1900, da Stignano a S. Marco.
Qui il torrente, dopo essere stato attraversato al livello di Stignano, perde di nuovo la chiara configurazione di via d’acqua tra sponde. Ma anche a Stignano, più che di via d’acqua, si trattava a quel tempo di superare una cunetta di scarico delle occasionali fiumare precipitanti a valle nel corso o dopo eccezionali precipitazioni, specie temporalesche, non rare in quei tempi di ordinato decorrere delle stagioni. Il letto del torrente, asciutto, si intravede in fondo alla valle, stretto tra pareti scoscese, ad angolo molto acuto, e totalmente sprovvisto di vie di fuga. Tanto che vien fatto di pensare (fatta salva l’ipotesi che la 'janua' avesse avuto caratteristiche originali diverse, perse nei secoli a causa della non manutenzione conseguente alla apertura della 'via nova') che la strada della porta non fosse percorribile da carri, ma da carovane someggiate sui robusti muli, detti Foggiani o Dauni, pregiatissimi, che all’inizio del secolo erano ancora i vettori dei carichi (legna, carbonella, provviste e granaglie) attraverso l’altopiano garganico. Anche questa però è fantasia.
Arriviamo a S. Marco dal rione più declive, che allora era detto di S. Berardino, poi chiamato più propriamente 'porta S. Severo'. Qui, nel punto ove si incontravano le - allora - prime case del paese, ricompariva a fondo valle il letto del torrente, sporco e con qualche esigua chiazza di acqua stagnante.
Ben presto però, all’imbocco del paese, il torrente scompariva sotto una larga tombinatura che consentiva, deviando a destra, l’accesso al 'piano di sotto', esiguo pianoro triangolare di prato scorteggiato e misero d’erba, costeggiato dal viale di circonvallazione del paese, che congiunge la “via nova” di San Severo col 'Largo delle Grazie', dal quale partiva la 'via nova' per S. Giovanni, con diramazioni per Rignano e per S. Matteo. Da questo viale si vedeva l’apertura a monte del tombone ed il letto del torrente, basso in fondo ad un argine naturale terroso, mentre dalla parte opposta, a nord, ove si allineavano le case del paese, il torrente, ormai diventato canalone, era fiancheggiato da una banchina in terra e contenuto da un basso muretto-argine. Tutte le strade del paese decorrevano perpendicolarmente ed in linea retta al torrente, ed ognuna aveva una cunetta centrale che convogliava a cielo aperto al canalone le acque di pioggia.
A metà circa del paese si trovava un ponticello, in corrispondenza de “l’Orto di S. Chiara”, che univa il centro alla piazza del mercato; e poi una più centrale e più vasta tombinatura: il 'ponte delle Grazie'. In questa zona il paese aveva iniziato il secondo sconfinamento oltre la sponda sud del torrente, ad interrompere l’antica armonia costruttiva del borgo (il primo sconfinamento era all’ingresso del paese, in corrispondenza del tombone di S. Bernardino, dove era costituito il rione dell’Addolorata; il terzo seguì dietro 'i pozzi', di cui parleremo). Il paese era infatti contenuto nei suoi confini primitivi, e tutto sulla sponda nord del torrente, dai 'piani' e dalle 'vigne' dei maggiorenti locali, che lo stringevano da est e da sud, impiantati negli scarsi allargamenti del fondo valle, su terre portate dalle piogge.
A sud, ove le colline sono meno scoscese, era più facile la sedimentazione e qui erano nati 'i piani' bordati a loro volta dalla ricordata corona di 'vigne'. I livelli qui sono più alti di quello del torrente. Scomparsi i tabù del rispetto dei 'piani' e delle proprietà private, il paese ha dilagato verso est e sud.
Siamo arrivati alle Grazie, chiesetta al servizio del secondo (topograficamente, e sempre viaggiando lungo il decorso della janua dalla sua apertura verso la naturale conclusione) nucleo abitato moderna; e qui comincia la primitiva storia paesana del torrente Jano.
Alle spalle della chiesa delle Grazie c’era, e forse c’è ancora,la villa, giardino comunale, polmone verde del fondo valle, la quale confinava alta col torrente che decorreva lungo il suo fianco, qui arginato con un alto muro; l’altra sponda, più bassa di qualche metro, era anch’essa arginata con un muro, e fiancheggiata da una larga ed irregolare banchina, una vera piazzetta, tagliata anch’essa in senso perpendicolare al torrente da numerose e larghe cunette. Allineate più o meno irregolarmente su questo, che fu il primo polmone del paese, le casette basse del retro della 'Palude'; il rione primigenio, dove comincia la vera storia di S. Marco.
La Palude, agli inizi del secolo e fino alla sua metà (oggi non so) era il 'vicolo palude'; ma conservava la dignità ordinata di un corso primitivo, ben lastricato in pietra, bordato in bell’allineamento da casette, alcune con scale esterne, con seminterrati protetti dalle acque di piena della strada, con tetti diseguali da casa a casa. Una strada a cui si accedeva misteriosamente da un vicolo a linea spezzata, e poi, dal corso principale, attraverso uno stretto cunicolo coperto. Improvvisamente ti trovavi in un nucleo concluso in sé, inglobato dal paese da cui pur distava dei secoli, in una nobiltà silenziosa, priva di traffici. La 'Palude' si caratterizzava per la presenza di pozzi, le cui vere aperte sulla pubblica strada erano accessibili a tutti. Altri pozzi si aprivano nell’interno di case private in zone adiacenti, e davano acqua limpida e fresca tutto l’anno. I pozzi della palude, paralleli al torrente distante una trentina di metri, attingevano presumibilmente alla sottocorrente del fiume, mentre quelli racchiusi in case private, dislocati irregolarmente ed isolati, più ricchi di acque, verosimilmente attingevano a vene idriche rocciose, che costituivano sorgenti del primitivo fiume. Rari, ma oltremodo ricchi di acque, i pozzi a sud del torrente. Ricordo quello di Donna Michelina Gravina, alle spalle di un attuale edificio scolastico, che veniva aperto al pubblico nei periodi di maggior siccità, e forniva ottima acqua quando i pozzi comunali permettevano di pescare niente altro che una fanghiglia largamente e macroscopicamente inquinata.
All’estremità della palude il canalone finiva pressoché alla quota del suolo. A questo livello la strada, che fiancheggia la Chiesa Madre, incrocia la traccia del torrente, rappresentata in quel punto da una larga cunetta che raccoglie sia le acque della strada, sia quelle che dal lato opposto vengono dal piano inclinato su cui si affronta l’ingresso della villa comunale, sia quelle dell’originario torrente. Queste ultime acque, presenti solo in periodo di piena, fuoriescono da una tombinatura costruita, pensiamo, all’atto della costruzione della Chiesa Madre e del suo campanile, cui segue nel loro retro fino a quella che era la piana 'dei pozzi'. Ivi ricompariva il torrente, privo di sponde manufatte; una trincea terrosa, che era scavalcata da un ponte costituito da travi affiancate senz’altra opera d’arte. Quel ponte dava accesso alla spianata dei pozzi, scavati su una linea che sbarrava trasversalmente la valle, nell’intento di raccogliere l’acqua della sottocorrente del torrente, a monte del paese. In caso di pioggia, la cunetta che ormai rappresentava il letto del torrente a livello del suolo si gonfiava di acque e doveva essere guidata.
Facciamo sosta un po’ prima, alla 'palude'. Qui terminava la prima parte del viaggio verso il cuore del Gargano. La sponda della 'Janua' o vuoi del torrente Jano, certamente naturale nei tempi remoti, consentiva ai carri, se ve ne erano, ed alle bestie someggiate di raggiungere la piazza, oggi rappresentata dalla irregolare banchina già ricordata, sul retro del vico palude.
Vi era spazio per il riposo, per il rifornimento di acqua e di quant’altro occorreva al viaggiatore.
Riposo forse non lungo, perché si riprendeva ben presto il viaggio seguendo il corso del torrente, in fondo valle, per lo Starale, 'ostium aralis', che portava all’attuale S. Matteo. In testa allo Starale evidentemente vi era un’ara, per ringraziare gli Dei di essere scampati al mal passo. Mal passo che non è una ipotesi di fantasia, se si pensa alla zona di sosta paludosa, (in lamis) nella foresta, per se stessa inospitale, ed inoltre esposta alla probabile aggressione od imboscata dei nativi.
Ma discorrere di questo ci porterebbe lontano. Certo invece che, percorso 'l’ostium aralis', ai piedi del monte Celano, 'coelum januae', i viaggiatori si fermavano a sacrificare su un’ara, ove ringraziavano gli Dei per aver superato il passo peggiore del viaggio, sia per i pericoli naturali del percorso di fondo valle, sia per quelli derivanti dal brigantaggio.
Va ricordato in modo particolare questo 'Starale', che mi sembra destinato a scomparire dopo la costruzione della nuova strada per Foggia (che non è 'via nova'), la quale corre in fondo valle, seguendo in qualche sua parte il tracciato della antica strada. Ai primi del secolo, lo 'Starale' era il corso di un torrente di fondo valle, praticabile come una strada anche per carri nei giorni secchi e nelle stagioni asciutte, incassato tra basse sponde di muro a secco. Era ancora, lo Starale, via di accesso alle numerose casette rurali e ai piccoli, opimi coltivi di fondo valle, disseminati lungo la sua sponda nord, mentre la sponda sud era scoscesa, sassosa, incolta; su quest’ultima si arrampicava la 'Via nova'. Poiché lo Starale era la via vecchia, conservava aspetto, funzioni, servizio e nome primitivi.
Quella strada si seguiva nelle gite al Convento di S. Matteo, che rimangono vivissime tra i nostri ricordi di infanzia, per l’ombra discreta del fresco cammino e la raccolta delle more dolci, nere, sporcanti, che si spigolavano dalle siepi fiancheggianti il percorso.
Il viaggio della porta, 'Janus', dunque iniziava con una apertura, Stignano, 'ostium januae' e si chiudeva con una chiusura, lo Starale 'ostium aralis'. Si chiudeva alle falde di un monte conico: il Monte Celano, che ad est chiude la valle, incombendo su di essa: 'Coelum januae'.
Aggirando la base del monte Celano, si arriva al cuore del Gargano. La vera zona del riposo era forse quella dell’altare, su cui sorse il convento di S. Matteo? Ed ancora nei ricordi di giovinezza attingiamo quelli delle carovane dei 'Romei', pellegrini abruzzesi che in maggio percorrevano il corso principale, la 'piazza di sotto', marciando in 'passo di strada', sulle ciocie, uomini e donne, appoggiandosi agli alti bastoni pastorali, preceduti da una campanella e salmodiando a bassa voce inni sacri. In coda, asini e muli: gli “impedimenta”. Queste carovane non si fermavano in paese, ma proseguivano direttamente attraverso lo Starale (non per la 'via nova') per far tappa nei sotterranei del Convento di S. Matteo, dove si accampavano e sostavano finché non fossero pronti per l’ultima tappa del pellegrinaggio, il 'Monte Santangelo'. Tanto conferma nei secoli l’importanza dell’Ara.
Ancora una nota: come nella toponomastica latina si trova una correlazione certa fra Stignano 'ostium januae', torrente Jano 'janua', Starale 'ostium aralis', monte Celano 'coelum januae', così nella toponomastica cristiana troviamo tre Evangelisti: Marco e Giovanni ed in mezzo, forse posteriore, Matteo. Non vi sono ripetizioni di tali nomi nel Gargano, ma una loro sequenza lungo la strada. Denominazioni frequenti Marco e Giovanni, rara quella di Matteo: nel codice postale si trovano numerosi i S. Marco ed i S. Giovanni; due soli S. Matteo e S. Luca. Quel nome S. Matteo fu forse ricercato, e voluto per dare un nome cristiano all’Ara, e congiungere la linea del viaggio fra l’uno e l’altro Evangelista? Esiste una leggenda, che noi sappiamo, che collega il nome di S. Matteo al ritrovamento di un busto in legno del Santo.
Giusto una leggenda: ha fondamento?
Concluso il viaggio, non è merito di grande fantasia immaginare la banchina del 'canalone' tra gli odierni 'ponte di mezzo' o delle Grazie e la via della Chiesa, più o meno gremita di muli e di carri. Né è fantasia immaginare che quell’essere punto di arrivo e di partenza dal Gargano verso la pianura, e viceversa, abbia costituito la fortuna di S. Marco. Il quale, nei primi anni del 900, e prima della emigrazione 'americana', era un paese di fiorente artigianato e commercio. Vi si trovavano fondachi riccamente forniti di stoffe pregiate; mercerie; calzolai; falegnami; maestri d’ascia costruttori di carri; bastai; fabbri; stagnari; 'zocari' che fabbricavano dello spago a grossi cavi di canapa. Erano orafi raffinatissimi, che confezionavano gli 'ori'; i corredi più o meno ricchi delle spose: collane, bracciali, orecchini, intessuti in filigrana ed arricchiti di pietre dure mirabilmente assortite. Erano fabbricanti di pecorino e caprino, commercianti di vino.
Erano latifondisti, alcuni ingrassati dall’ozio e dal buon cibo, pigramente semisdraiati sulle sedie di paglia, al 'casino dei signori'; erano agricoltori, 'fittavoli' attivi ed arditi, che affidavano all’alea del raccolto intere fortune. Muratori e capimastri.
Sarà una coincidenza, ma l’apertura di strade montane. opere di ingegneria moderna e la motorizzazione, tagliando fuori dal traffico S. Marco e la 'janus' del Gargano, concluso un periodo di fiorenti commerci, sembrano condurre di pari passo ad una modernizzazione appiattita di valori; ma anche ad una diminuzione del prestigio di S. Marco.
Oreficeria sammarchese
E’ un bene? Probabilmente sì, per la elevazione del tenore di vita del popolo; non so per il Paese.
Non so inquadrare S. Marco in altri momenti della sua storia; ma non era mio intento altro, se non sottolineare il significato di alcuni nomi di luoghi e ricordi che vanno scomparendo nel tempo e nella memoria.
Vittorio De Filippis
Immagini del Torrente Jana