Lu scardalane
Il suo lavoro era richiesto ed apprezzato dalle famiglie dei sammarchesi e ciò era più che giustificato. Come avrebbero potuto servirsi della lana senza la cardatura occorrente? Di lana di tutte le qualità, dalle nostre parti, se ne produceva una quantità notevole essendo la popolazione dedita, in maggioranza, all'agricoltura e alla pastorizia. L'allevamento delle pecore era molto praticato, sia per la sua facilità che per la resa. La pecora ripaga generosamente tutta l'attività svolta per la sua cura e il suo mantenimento. Ci dà lana, pelle, latte da cui si ricava buon formaggio e, infine, carne. Ma la lana è stato il prodotto più apprezzato da sempre. Dalla lavorazione della lana si ricavano capi di abbigliamento che da secoli vestono l'uomo.
Certamente i grandi proprietari possedevano più bestiame, agevolati dal fatto di essere grandi possessori di terreni. Montagne e valli intere e poi pianure sterminate furono occupate dalle famiglie più furbe, che ne divennero, col tempo, proprietarie. Grandi greggi di pecore si notavano non lontano dal centro abitato. E quando arrivava la primavera, ogni anno, le pecore venivano tosate, producendo tonnellate e tonnellate di lana, che veniva immessa sul mercato a disposizione di acquirenti paesani e forestieri.
Lo scardassatore portava tutta l'attrezzatura occorrente, lo scardasso , sulle spalle e difficilmente entrava in casa per svolgere la sua attività. Non dava nessun fastidio. Metteva il suo armamentario per terra e si sedeva dove gli era più comodo, su uno sgabello, una sediolina, sul gradino di una scala esterna e subito si metteva a lavorare con lena e senza perdersi in chiacchiere: il tempo per lui era prezioso.
Portava con sé una specie di panchetto alto una cinquantina di centimetri , lungo ottanta e largo trenta. Il piano era rivestito di cuoio e dal piano spuntavano numerose puntine di acciaio, che erano mobili e ricambiabili. C'era poi un'altra tavola, uguale al piano, pure rivestita di cuoio e con le puntine di acciaio che, però, era mobile e che si afferrava per le due maniglie poste dall'altro lato.
Quando aveva sistemato i suoi attrezzi, prendeva un manto di lana e lo divideva in diverse parti che stendeva sul ripiano e, piano piano, con la tavola mobile, iniziava a lavorare cercando di liberare la lana delle impurità più grosse. Azionava con cautela il suo attrezzo, facendolo scivolare sulla lana ancora increspata e arruffata, nonché unta di oli grossolani, che rendeva il lavoro difficoltoso. Tuttavia non andava per le lunghe e, quando le parti estranee venivano estirpate e la materia cominciava a prendere la sua fisionomia di lana liscia e trasparente, il lavoro diventava più spedito e senza intoppi. Quel grosso ciuffo di lana sporca e arruffata diventava pulito, soffice e poteva in brevissimo tempo trasformarsi in un grosso filo (ciucele) di un centimetro e mezzo di diametro. Da un manto di lana venivano fuori molti ciucele.
Il lavoro de lu scardalane era apprezzato dalle nostre nonne. La lana cardata veniva filata e raccolta in grossi gomitoli, tanti quanti ne occorrevano per fare un paio, due paia di lenzuola o altro. Dal numero dei gomitoli le donne si regolavano per capire quante maglie e paia di calze potevano confezionare, magari per la figlia in procinto di maritarsi.
La lana cardata era filata e avvolta sul naspature, un legno alto un metro, che da una parte aveva una forcella e dall'altra tanti buchi, in uno dei quali si infilava un chiodo di legno. Il chiodo di legno si spostava a seconda della matassa che si desiderava fare. Una volta fatta la matassa, questa si infilava sul vinnele - (arcolaio) che girava su se stesso e si facevano i gomitoli (gghiommera) di lana.
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |