Lu 'mbrennelare
Era una fascia larga dieci-dodici centimetri con uno spessore di cinque millimetri le cui estremità erano unite a formare un cerchio del diametro di quaranta centimetri circa. Sul cerchio era steso un velo di seta e, sopra di esso, lungo la circonferenza, un altro cerchio molto più stretto e aderente al primo, fissava la tela e la teneva tesa. Così si poteva cerne la farina.
Inoltre vendeva anche la grattugia, cucchiai e forchette di legno e lu rentroccele (un arnese per fare i maccheroni di casa).
Era un aggeggio composto da due aste di legno, un filo di spago e una punta d'acciaio, pezzi che, concertati tra loro, riuscivano a forare la terracotta di un piatto.
La prima asta, della lunghezza di cinquanta centimetri circa e del diametro di due centimetri e mezzo, era rotonda e liscia e alle estremità aveva, da una parte, un forellino per lasciar passare comodamente un filo di spago e, dall'altra, aveva innestata una punta d'acciaio atta a forare. Ma per mettere in azione l'asta con la punta occorreva un'altra asta della stessa dimensione della prima ma di traverso, a mo' di croce, al centro piatta e più larga, con un foro per far passare agevolmente quella verticale. Sotto la metà di quest'ultima c'era montata una palla, o una ruota di pietra, di mattone, purché fosse pesante. Quando tutto era pronto, bastava far girare l'asta verticale e poi, con l'orizzontale, azionare su e giù, su e giù: il trapano, aiutato dal peso, girava veloce ora in un senso e ora nell'altro e la punta, consumando la creta, forava.
Quando il piatto era stato "risanato", si vedevano tanti segmenti neri quanti erano i 'punti'. A prescindere dalla mancanza di estetica, il problema veniva dopo, al momento di lavarlo: non essendoci l'acqua calda, si lavava con quella fredda e questa, è risaputo, non sgrassa; così sotto quei punti di filo di ferro si raccoglieva il grasso delle minestre che con il passare del tempo si anneriva e si induriva e, molto facilmente, poteva divenire fonte di decomposizione e quindi focolaio di infezioni. Quei punti di filo di ferro non solo trattenevano i rimasugli grassi delle minestre, ma essi stessi erano preda della ruggine e non è difficile immaginare il miscuglio fatiscente che lì sotto si annidava.
Allora non si buttava via niente: repunne serpente che deventene agnidde (conserva serpenti che diventano anguille), dicevano i nostri antenati.
L'ombrellaio era come il ciabattino: viveva una vita grama in quanto i suoi datori di lavoro altri non erano, nella loro maggioranza, che dei poveracci incapaci di acquistare un ombrello nuovo e si rivolgevano a lui sperando in un miracolo: che quell'ombrello, ormai fuori uso, tutto sgangherato e rotto, potesse diventare ancora sano e resistente ai colpi furiosi della tramontana senza capuvutarelu (capovolgerlo).
E lui, caparbio, ci provava con serietà e impegno, perché, alla fine, da quel rottame potesse uscire un qualcosa che rassomigliasse ad un ombrello capace di proteggere da un acquazzone.
Alla fine di una giornata di duro lavoro, dopo aver riparato teli rotti, bacchette spezzate e manici squilibrati e aver trapanato e risanato cocci di brocche, pignate e piatti andati in pezzi, quando andava per riscuotere il giusto compenso, non sempre ci riusciva. Chi non aveva la possibilità di acquistare un nuovo ombrello o un nuovo piatto come poteva pagare chi gli aveva riparato quello vecchio? Sarà per un'altra volta.
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