Il costruttore di muri a secco
Molti anni addietro c'erano dei padroni che possedevano sterminate estensioni di terreno, utilizzate soprattutto a pascolo per le loro grandi mandrie di bestiame. Quei territori erano tutti ammacerati, cioè recintati con chilometri e chilometri di muri a secco. Questo valeva anche, e prima di tutto, quale delimitazione e protezione della sua grande potenza. Quella specie di muro non serviva soltanto a recintare vaste zone lungo la mmersa (china) sino alla vetta di una montagna, ma anche una piccola proprietà, un orto, un mandorleto, una vignaredda (piccola vigna). Inoltre, il muro fatto a quel modo il più delle volte serviva a costruire un decente rezette, vale a dire un abitacolo, una casupola di muri a secco, detto altrimenti pagghiare.
Ancora oggi, se vogliamo, ci possiamo documentare ampiamente: basta fare una passeggiata sulle nostre coppe dove ci sono ancora molte macere costruite nei secoli passati e non solo queste: ciò che più attira l'attenzione dei casuali visitatori sono, appunto, li pagghiare che sono ancora lì, deturpati magari da chi spesso se ne serviva, a dimostrazione della saldezza dell'impianto, a sfidare il tempo e le intemperie.
A vederli dall'esterno non hanno nulla da offrire agli occhi del visitatore. Altro effetto, invece, fanno quando si entra dentro. Ci si trova di fronte ad un lavoro che richiedeva, per eseguirlo bene, una forte dose di capacità tecnica, soprattutto nel completare la volta curva senza alcun sostegno. All'apice della costruzione, in procinto della chiusura, l'operaio aveva l'abilità di lasciare un'apertura nella quale inseriva con una certa pressione un cuneo, che diventava il punto su cui maggiormente si scaricavano le forze, decisivo, perciò, nel sostenere tutta la costruzione.
C'è una zona della nostra montagna, alli Chiancate, dove è facile cavare delle pietre molto particolari per forma e fattura: lastroni larghi e piatti, con uno spessore molto variabile che va dai cinque centimetri ai venti, trenta e più, che si prestano, nelle esperte di un bravo operaio, ad essere utilizzate per la costruzione di un pagghiare. Sopra quella volta a botte venivano posate, sempre con esperienza e capacità, altre pietre a protezione delle prime e, a lavori ultimati c’era chi copriva il tutto con zolle di terra ed erba, che, con l'andare del tempo, cresceva e sulla quale scivolava l'acqua piovana.
Gli operai specializzati a costruire pagghiare erano pochi e spesso facevano parte della stessa famiglia. Lavoravano sempre tra di loro e mai si portavano dietro operai estranei: non era ammissibile. E la ragione era ovvia: non essendo un mestiere difficile e non richiedendo una particolare preparazione tecnica, si evitava in tutti i modi che altri potessero "rubare" quelle poche malizie del mestiere che ogni attività lavorativa possiede. Questo è vero perché non tutti i pagghiare sono fatti con abilità. Ci sono quelli al cui interno ci trovi non solo il piccolo ripostiglio ricavato dallo spessore del muro, ma la porta costruita a regola d'arte, con spigoli ad angolo retto e pietre ben lavorate a punta di martello, con incastri regolari da fare invidia a più di un mastro muratore dell'epoca. Ma c’erano anche quelli che di regolare non avevano nulla. Chi li aveva costruiti aveva imparato evidentemente "rubando" ciò che aveva visto fare agli altri.
Lo spessore del muro a secco differiva da lavoro a lavoro. Se si trattava di una macera, alla base poteva essere al massimo di cinquanta, sessanta centimetri per finire a trenta, trentacinque centimetri, mentre l'altezza era di un metro e trenta, grosso modo. Poi c'erano quelle più alte che servivano per recintare un giardino oppure per chiudere una mandria di mucche, cavalli, ecc.
Sulle macere, a chiusura avvenuta con la catena, c'erano dei grossi buchi che l’ammaceratore riempiva con li civatore (pietrisco) per abbellire il lavoro fatto. Non si dice che anche l'occhio vuole la sua parte?
Ora quasi tutte quelle macere abbandonate sono diventate cumuli di pietre rovinate sotto gli zoccoli di mucche vaganti per ogni dove, pecore, capre, asini, che attualmente tutto distruggono al loro passaggio come rulli compressori; ma anche l'incuria dell'uomo ha fatto la sua parte.
C'era un'altra specie di macera, chiamata lu rattapone, cioè a dire un muro molto grezzo costruito allo scopo di sostenere la terra che avrebbe potuto danneggiare il muro a secco a facciavista.
E per finire parliamo degli attrezzi di questo modesto e umile lavoratore. L'unico arnese da lavoro che occorreva in continuazione era il martello. Con quello doveva adattare la pietra prima di posarla sul muro e darle una "faccia" presentabile. Inoltre aveva il filo che gli serviva per "tenersi in linea", e, se il caso, aveva il metro per misurare la distanza di nu uade oppure per le scaledde e cose simili. In effetti l'ammaceratore non aveva bisogno del metro, del piombo, del livello e della squadra perché lavorava quasi sempre ad occhio, per via di pratica.
Ai tempi della spartizione delle terre da parte dei prepotenti e dei ruffiani del vecchio e nuovo regime, piemontesi compresi, i quali si impossessarono di vastissime zone comprendenti pianure, valli e montagne intere, alla faccia di chi poi le doveva lavorare, gli ammaceratori ebbero comunque un futuro sicuro di lavoro, mal pagato sì, ma che permise loro di vivere, tutto sommato, con una certa sicurezza.
Una categoria, questa, di operai che spesso integravano il modesto guadagno con puntate nell'agricoltura quando l'agricoltore richiedeva manodopera abbondante e a buon mercato. Non era un muratore e nemmeno un bracciante agricolo; si poteva considerare, ed era, una via di mezzo tra l'uno e l'altro. In ultima analisi, era l'espressione di una società povera ed arretrata, soprattutto ingiusta.
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