Il bracciante di oggi non ha nulla a che vedere con quello del passato per molti aspetti, primo tra tutti, il più importante e significativo, quello di tornare a casa ogni sera e dormire nel proprio letto dopo una giornata di lavoro.
Gli attuali lavoratori agricoli sono sicuramente molto di meno di quelli di ieri, sono uniti e meglio organizzati nel loro sindacato e, pertanto, le loro rivendicazioni nei confronti dei datori di lavoro risultano più concrete, meno dispersive e quindi più efficaci.
Il bracciante agricolo odierno è innanzitutto a contatto diretto e continuo con l'Ufficio di Collocamento e, così facendo, gli è più facile venire a conoscenza di nuove leggi riguardanti la categoria e, con l'aiuto del sindacato, può meglio sviluppare la sua azione di lotta in difesa dei propri diritti.
I braccianti del passato, a differenza di quelli odierni, erano dei lavoratori che non avevano nessuna specializzazione nel campo della loro attività lavorativa. Ora ci sono le diverse qualifiche: il camparo e sottocamparo, il trattorista, il raccoglitore di olive, ecc. Tutti con una paga adeguata alla specializzazione.
E quelli di prima?
Anzitutto avevano un'occupazione discontinua e senza contratto di lavoro, per cui lo scambio con il padrone avveniva nel modo più semplice possibile: venivano retribuiti a giornata senza ulteriori oneri, come si direbbe oggi.
I governanti, dall'Unità d'Italia in poi, del Sud se ne infischiarono. Si ricordavano soltanto per la raccolta del grano, dell'uva, delle olive e dei giovani di vent'anni per le loro sporche guerre. Poi venne il fascismo e la situazione si aggravò in tutti i sensi per i poveri.
Quei lavoratori non si improvvisavano, era come un destino maledetto, una malasorte che accompagnava il loro cammino della vita fin dalla più tenera età. Il figlio del bracciante seguiva le orme del padre e, così, di generazione in generazione. Nella categoria non c'era alcuna distinzione d'età e di sesso. Tutti imparavano in fretta quelle attività semplici che venivano eseguite durante le diverse stagioni dell'anno. L'unica distinzione la facevano i padroni i quali, a fine lavoro, variavano la paga a seconda dell'età e del sesso, a prescindere dall'uguale prestazione e rendimento.
I lavori, diciamo così, di massa avvenivano in certi periodi dell'anno. Nell'inverno, ad esempio, tra febbraio e marzo, si andava nei campi per zappulià, in occasione della scerbatura del grano. In quel periodo si formavano delle grosse compagnie di trenta, quaranta giovani, ragazzi e donne per lavorare in una grande masseria. Restavano in campagna per quaranta, cinquanta giorni continuativi, senza mai un giorno di festa e di riposo. Tornavano al paese, grosso modo, sotto le feste pasquali.
Lo stesso avveniva in occasione della raccolta delle olive . Su lunghe scale si saliva sugli alberi per sfilare le olive che andavano su larghi teloni sparsi per terra (racanedde). Quelle che saltavano via, lontano, venivano raccolte da ragazzi e donne che le mettevano nei canestri. , erano impegnati uomini con una certa esperienza che facevano persino i turni, anche di notte, in modo da non interrompere mai il lavoro.
Quei braccianti senza alcuna specializzazione erano in grado di eseguire tutti i lavori necessari nelle aziende piccole, e loro erano sempre disponibili in qualsiasi momento. Bastava che un agricoltore facesse sapere di quanti elementi aveva bisogno e subito, la mattina dopo, prima dell'alba, si presentavano nella masseria con la bisaccia sulle spalle e, senza tanti preamboli, iniziavano a lavorare dopo aver percorso a piedi dieci, quindici chilometri e, a volte, anche di più. Si mettevano in cammino di notte per non perdere un quarto della giornata.
In primavera inoltrata si svolgeva il lavoro più pesante di tutto l'anno. Nel mese di maggio si andava 'mpugghia a sciuppà li fave' (nelle masserie del Tavoliere di Pugliia a estirpare le fave). Era un lavoro massacrante: soltanto chi era avvezzo ci riusciva, chi no doveva fare sforzi sovrumani per resistere e non perdere la faccia di fronte al padrone e, soprattutto, ai compagni di lavoro. Lasciare avrebbe significato la perdita di credibilità nella categoria.
Si iniziava a lavorare la mattina molto presto e ognuno aveva due solchi da estirpare. I lavoratori si disponevano a scala, cioè uno un paio di metri dietro l'altro perché potessero essere liberi nei movimenti. Era usanza che il padrone si scegliesse, quale uomo di fiducia, il più forte e valido, magari gratificandolo con qualche bicchiere di vino di nascosto dagli altri. Questi si prestava e, mettendosi alla testa della compagnia, con tutte le sue forze, lavorava come un dissennato: tutti gli altri, per non rimanere indietro, dovevano, di conseguenza, buttarsi a capofitto nel lavoro tra polvere, sudore, bestemmie e maledizioni per quella vita bestiale. Alla sera, sfiniti, consumavano lu panecotte.
Il disgraziato, dopo dodici, tredici ore di duro lavoro, a fine pasto, si buttava sul sacco di paglia riempito la mattina, perché sapeva che la sera non avrebbe avuto la forza di farlo, e via a dormire sino alle cinque del mattino seguente.
Terminato il lavoro in un'azienda, si andava ad attaccare in un'altra sino a fine della campagna che durava, a seconda dell'anno dai dieci ai quindici, venti giorni. Comunque i braccianti, come abbiamo visto, eccezionalmente facevano un periodo di lavoro continuativo da uno stesso agricoltore. Infatti questi, come abbiamo visto, per avere sempre uomini a disposizione, aveva li iarzune, cioè salariati fissi che aravano, mietevano, trebbiavano, eseguivano in pratica tutti i lavori per portare avanti un'azienda. Quei braccianti non avevano una qualifica e, pur conoscendo tutte le regole e le attività da svolgere per tenere in piedi una masseria, difficilmente si trasformavano da braccianti in salariati. Se ciò avveniva, si verificava in gioventù, altrimenti dopo era difficilissimo.
Chi faceva quel mestiere, per trovare lavoro, la mattina molto presto si doveva alzare e ascì alla chiazza, vale a dire andare in piazza ed esporsi come una merce qualsiasi sul mercato.
I padroni ne erano consapevoli e ne approfittavano: più bisogno avevano e più li sfruttavano, meno li pagavano. Era quella la legge del mercato: quanto più alta era la disoccupazione, quante più braccia per lavorare erano disponibili, tanto più il salario era basso.
Quei braccianti non esistono più. Ora i braccianti moderni, quelli che ci sono ancora, vanno a lavorare in macchina, fanno le ore prestabilite dal contratto di lavoro e tornano a casa per mangiare e dormire con i propri familiari. Le lotte dei lavoratori della terra hanno cambiato il volto delle nostre campagne e quelli che furono i protagonisti del cambiamento ora, giustamente, ne godono i frutti.