L'Astrolabio n. 24-1970
Otto milioni di lavoratori passano da una frontiera all'altra del continente, senza un lavoro stabile, senza protezione sindacale. Da qualche tempo la loro rabbia si trasforma in azioni "selvagge": le conseguenze sono imprevedibili.
C'è voluto il referendum sull'immigrazione in Svizzera per scuotere l'interesse pubblico verso i problemi dei lavoratori senza patria. Ha poca importanza il risultato dell'iniziativa Schwarzenbach se lo si considera nella più ampia prospettiva delle correnti migratorie che attraversano l'europa. Otto milioni sono nel 1970 le persone che vivono fuori del paese d'origine per ragioni di lavoro; e l'Italia con 1 milione 700 mila emigrati è in testa ai paesi che esportano mano d'opera. Soltanto nello scorso anno se ne sono andati in 214 mila, di cui 174 mila circa in altri paesi (Svizzera, Germania, Francia con i maggiori contingenti): una media di quattro cittadini ogni mille abitanti.
In cento anni, dal 1870, 26 milioni d'italiani si sono stabiliti all'estero.
Europa e Stati Uniti.
Nella sola Parigi sono 22.500, nel dipartimento della Mosella più di 60 mila, in quello dell'Isere 40 mila. Citiamo le statistiche francesi perché abbastanza accurate. In Francia su 650 mila residenti italiani, circa la metà fanno parte della popolazione attiva: il 32 per cento lavora nel settore edile, altrettanti nell'industria, il 15 per cento nell'agricoltura, il 12 per cento nel commercio e nei servizi, il 4 per cento nelle miniere. La mano d'opera è così uno dei tre principali beni di esportazione, assieme a merci e capitali. C'è una correlazione tra la fuga di questi ultimi e l'emigrazione, dato che la prima impedisce la creazione di un mercato interno del lavoro aperto, basato su nuovi investimenti, nuovi posti di lavoro, buone retribuzioni. Ma le prospettive nei prossimi dieci anni sono peggiori: i piani di sviluppo prevedono 2 milioni di persone che da oggi al 1980 lasceranno il settore agricolo e cercheranno il pane altrove. All'estero, evidentemente, dato che gli stessi piani non prevedono un aumento di posti di lavoro in altri settori in Italia.
Ma gli italiani non sono un'accezione, in questa Europa unificata s'è creato un nuovo mercato di schiavi dal vasto serbatoio di mano d'opera che è l'Europa del Sud e l'Africa verso i paesi industrializzati del Nord. Una situazione da medioevo con discriminazioni razziali, accessi xenofobi, mancanza di protezioni sindacali, dilagare di ghetti e coree, traffico illegale di mano d'opera, individui ridotti a mero numero. Vedi i cinquecento spagnoli che arrivano ogni settimana a Colonia, registrati soltanto con un numero progressivo. Vedi i 10 mila immigrati illegali in Danimarca che pagano forti tangenti, fino al 30 per cento sui salari a chi gli trova un collocamento. Vedi l'altissima percentuale di analfabetismo e tubercolosi tra i senegalesi che lavorano in Francia e la vita da campo di concentramento dietro un filo spinato, dove le donne non sono ammesse, per gli stranieri della Volkswagen di Wolfsburg. Duecentomila greci in Germania e settecentomila italiani in Svizzera; ottantamila finlandesi in Svezia; centomila olandesi, duecentomila turchi, centosettantamila jugoslavi, centosettantacinquemila spagnoli in Germania: in Francia, più di 300 mila portoghesi in Inghilterra, 240 mila indiani e 110 mila polacchi.
Questi sono pochi esempi. In Europa arrivano dall'Africa, dalle Indie Occidentali, dall'Asia. dalle stesse regioni sottosviluppate del Sud Europa, è una "mercé" preziosa trasformatasi in motore propulsore della ricchezza dell'Europa occidentale dalla fìne della guerra. Gli immigrati non hanno diritti polici, non sono cittadini, possono morire asfissiati nelle coree di Malidied, in Francia; possono sollevarsi ad Argenteuil o nelle fabbriche tessili di Preston, in Gran Bretagna; continuano ad essere sfruttati nei lavori più umili e pericolosi, come nel Lussemburgo che vanta la più alta percentuale d'immigrati in Europa, l'80 per cento di tutti gli operai edili; o come in Olanda, dove se l'immigrato rappresenta l'1 per cento soltanto della forza lavoro, occupa però il 60 per cento dei lavori peggio retribuiti e più rischiosi; oppure come in Belgio, dove per sei mesi deve pagare le previdenze prima di assicurarsi l'assistenza sanitaria gratuita, quale viene goduta dai lavoratori oriundi.
Situazioni di umiliazione e di sfruttamento che la revisione recente del trattato di Roma non ha sanato e che i sindacati, in tutti i paesi e in varia misura, non hanno avuta finora la forza o il modo di considerare con la dovuta importanza. Nessun sindacato in Europa ha preso una chiara posizione in difesa dei diritti degli immigrati. E questi non vedono perché dovrebbero divenire membri di organizzazioni che non li proteggono alla stessa stregua dei colleghi non stranieri. La tendenza è di costituire una forza autonoma, vedersela per i fatti propri, cosa che aumenta le frizioni e le incompatibilità sociali. L'arma più comune è lo sciopero. Iniziati lo scorso anno a Lippstadt presso la fabbrica Hueck, quest'anno sono cresciuti d'importanza e dimensioni. Alla Ford di Colonia, per cinque giorni nello scorso marzo hanno lottato uniti operai tedeschi, italiani e di altre nazionalità, costringendo la direzione a trattare direttamente con le rappresentanze operaie; in aprile, edili spagnoli e italiani in uno sciopero senza precedenti hanno bloccato i tre principali cantieri della Murer a Ginevra con esito positivo; a maggio alcune centinaia di frontalieri italiani in un calzaturificio di Stabio nel Canton Ticino hanno iniziato uno sciopero selvaggio, mentre i sindacati svizzeri si dichiaravano contrari a ogni sospensione, malgrado illegali licenziamenti e l'aumento ingiustificato dei ritmi di lavoro. Sono i primi tentativi di far riconoscere le commissioni operaie come dirette interlocutrici degli imprenditori, e riescono solo con la rottura della “pace del lavoro”, ossia del divieto di ricorrere allo sciopero.
La Germania, con il suo milione 800 mila di “lavoratori ospiti”, è alla testa dei paesi europei nel mercato di questa mano d'opera d'accatto. Malgrado ciò, in aprile si levava un grido d'allarme per il rallentamento della produzione: le industrie richiedevano con urgenza altri centomila lavoratori dall'estero per far fronte alla crisi. Come in Svizzera, sono in testa gli italiani con 352 mila presenze (il 21,l per cento del totale), seguono 326 mila jugoslavi (19,5 per cento); i turchi (17,3 per cento), greci, spagnoli e portoghesi. Baracche e discriminazioni nelle buste paga: alla Doerhoefer-Schmitt dove lavorano quasi tutti stranieri, ad esempio, il salario base è di 3,85 marchi l'ora, mentre alla Farbwerke-Hochst per lo stesso lavoro fatto da dipendenti tedeschi è di 4,28 marchi. Il ministro del Lavoro limita i suoi interventi ai consigli paternalistici sul modo migliore di integrare i “lavoratori ospiti", un problema che sta diventando urgente perché tra dieci anni un terzo dell'attuale forza-lavoro sarà pensionata e dovranno essere reperiti più di 5 milioni di nuovi lavoratori, altri schiavi reclutabili soltanto in qualche regione sottosviluppata del globo, dalla Turchia alle Indie.
Il ruolo dei nuovi schiavi diverrà sempre più importante nell'economia, indispensabile in molti servizi base, ma essi non riescono ancora a “contare”. Vi riusciranno un giorno? La stampa inglese scrive in questi giorni che il voto degli immigrati di colore in una trentina di circoscrizioni potrebbe costare il seggio ai conservatori: tutti i partiti fanno propaganda anche con materiale in lingue asiatiche e si sono formate associazioni di lavoratori pakistani e indiani, anche di greci, ciprioti, polacchi. È una rozza difesa contro le misure sempre più restrittive per l'ammissione di cittadini di colore provenienti dal Commonwealth. Anche il National Council for Civil Liberties ha denunciato le ingiustizie del Select Committee on immigration e il sistema spesso arbitrario con cui si accettano o no i nuovi arrivi. Non si tratta di xenofobia ma di vero e proprio razzismo scatenatesi contro il milione 300 mila di persone di colore che tra l'altro vengono accusate di essere troppo fertili e quindi di raddoppiare in pochi anni il numero delle "orde nere" che hanno invaso il paese.Quasi lo stesso atteggiamento in Francia. Sono tre milioni di stranieri che, arrivati alla stazione parigina di Austerlitz o sbarcati a Marsiglia, si ritrovano concentrati nelle 360 bidonville della regione parigina con una popolazione locale per il 53 per cento ostile, come indica l'Istituto Nazionale di Studi Demografici. E Michel Massenet, direttore della sezione immigrazione del ministero del lavoro ha affermato che "l'immigrazione selvaggia non può più continuare". Il governo vuole adottare una politica selettiva, tra “buoni” e “cattivi” immigrati. I primi sarebbero gli europei (italiani, portoghesi, spagnoli); i secondi, gli algerini (la cui quota dal dicembre '68 è già limitata a 35 mila per anno), i senegalesi, i mauritani, i malini. Le restrizioni si baseranno sul criterio della migliore assimilazione e integrazione, su fattori sociogeografici. E ancora una volta pare che i sindacati non facciano opposizione. Ci sono intanto voluti i cinque lavoratori morti soffocati da una stufa a gas a Aubervilliers per far promettere al primo ministro un alloggio decente ai 50 mila africani baraccati e promuovere un'inchiesta per verificare se lo smig (il salario minimo inter professionale garantito) è rispettato. Lo stesso Times si è sbilanciato in un editoriale, affermando che le condizioni degli immigrati di colore in Francia sono incompatibili con i principi della “nouvelle societé”.
Eppure questi otto milioni di schiavi, bianchi o neri che siano, hanno accresciuto la prosperità dei paesi che malamente li accolgono. In Olanda, un'inchiesta recente ha concluso che senza di essi l'economia non riuscirebbe a funzionare più. In Gran Bretagna, secondo il National Institute for economic and Social Presearch, gli immigrati di colore hanno portato enormi benefici economici nei settori ospedalieri e dei trasporti pubblici. E in Svizzera, in Germania Occidentale, in Francia, in Svezia, secondo l'Observateur de l'OCDE, con un saldo immigratorio più elevato del '68 hanno registrato anche l'aumento più elevato del prodotto nazionale: i due fenomeni sono quindi connessi. In Svizzera la produzione dal 1950 (con 90 mila "schiavi" italiani) al 1965 (775 mila immigrati) è aumentata del 300 per cento. Il rapporto afferma esplicitamente che "l'espansione economica è stata possibile soltanto grazie a questo afflusso di lavoratori stranieri...". E allora?
Bisogna dire che finora è mancata quella strategia sindacale che poteva fare degli otto milioni una forza unitaria capace di cambiare strutture sociali ed economichc nei paesi che si servono di essi. Un interessante convegno si è svolto lo scorso aprite a Lucerna, promosso dalle federazioni delle colonie libere (d'ispirazione socialcomunista) e dalle ACLI, con l'adesione dei vari patronati di assistenza (una quarantina) che operano in Svizzera. L'invito non è stato accettato né dall'Ufficio federale dell'Industria e Mestieri, da cui dipende la manodopera straniera, né dal Sindacato svizzero dei lavoratori del legno. È stato un convegno importante perché ha creato un “comitato nazionale d'intesa”, che ha lo scopo di realizzare "una politica organica in Svizzera per i diritti democratici e civili degli emigranti e una politica organica in Italia per la piena occupazione e uno sviluppo più democratico del nostro paese”. Ma si ha l'impressione che l'ottica usata sia troppo spostata al paese d'origine, che ancora i problemi degli emigrati vengano strumentahzzati ad altri fini. Sarebbe necessaria invece una politica sindacale unitaria, al di là dei confini di un paese e al di là dei limiti di un paternalismo ormai sfatato e controproducente. Sarebbe il caso di raccogliere una prima proposta concreta, quella del gruppo di studi europei “Agenor”: formulare intanto una “carta europea per i diritti del lavoratore emigrante” per giungere a tappe alla essenziale rivoluzione del diritto di voto, da collegare non più alla nazionalità ma alla residenza, specialmente per le elezioni amministrative. Altrimenti si rischia un'Europa più divisa che unita, simile all'arrabbiata America dei neri.
Maria Adele Teodori